Possiamo vivere nel benessere abbandonando l’Iliade

 Possiamo vivere nel benessere abbandonando l’Iliade


Silvia Avallone ha scritto un saggio che descrive la causa della nostra sofferenza, ovvero la mancanza di riconoscimento reciproco di legittimità tra femmina e maschio nella convivenza. Le persone che hanno deciso di convivere come maschio e femmina sono entrambe prigioniere dei ruoli descritti nell’Iliade, e questo ancora oggi dopo migliaia di anni. Invece il riconoscimento reciproco di legittimità porta al rispetto reciproco e conseguentemente all’eguaglianza.

Il LOGOS occidentale che viene dalla Grecia declama in versi splendidi e immortali il dramma della sofferenza culturale che ci fa ammalare per conservare ruoli NON UMANI in una esistenza NON UMANA, quella che facciamo ancora oggi nella maggior parte dei casi.

La buona notizia è che possiamo desiderare di abbandonare il LOGOS occidentale e la cultura matriarcale – patriarcale per vivere in armonia e nel benessere nella cultura del riconoscimento di legittimità reciproca di maschio e femmina all’interno della convivenza. E possiamo immaginare che magari, leggeremo poi l’Iliade come un ricordo di un modo di vivere NON UMANO che siamo riusciti a farci cadere dalle mani e che oggi guardiamo con un sorriso.

P.S. Alla fine della lettura del saggio di Silvia Avallone mi sono commosso sino alle lacrime.

Antonio Bruno

La barbarie di Omero
di SILVIA AVALLONE
L'Iliade è un poema di bellezza spaven-tosa, un'opera d'ar-te scritta da uomini che testimonia bru-talmente la condi-zione femminile. Ho ritrovato la sua barbarie in ogni femminicidio, in ogni donna abusata
Da ragazzina, quando studiai l'Iliade al ginnasio, rimasi folgorata dalla sua bru-talità. Itr la prima volta la poesia, cosi musicale e luminosa, mi dimostrava di poter esprimere il fondale più cupo e rabbioso degli uomini e degli dei. Scrivo «uomini» e «dei» perché le imprese cantate da Omero appartengono esclusivamente al ma-schile. Eppure la rabbia, la competizione, b .te di vitto-ria sono anche femminili, e mi riguardavano. Ricordo di aver tifato per Ettore, immedesimandomi in lui. Mi piaceva ascohario parlare in quel su,> modo elevato, saggio, e poi sentire il suo urlo disumano un istante prima di gettarsi in battaglia. Certo, ancheAchil-le mi tentava: la sua forza, U suo orgoglio. Lo immagina-vo bellissimo e capriccioso, con quel fascino infantile che su un adolescente fa sempre breccia. Di calarmi nei panni di Andromaca, Ecuba, Briseide, neanche a parlar-ne: mi sarebbe stato impossibile Loro, semplicemente, non esistevano. Piangenti, consenzienti, ubbidienti, disperate. Rele-gate sullo sfondo come spettri di contorno, le donne dell'Iliade non potevano esercitare alcun fascino su di me. Era solo un dettaglio che io fossi femmina come lo-ro, non maschio come gli eroi di cui con l'immaginar io-ne vestivo le armi. ,bevo 14 anni, volevo mangiarmi il mondo. Il corpo contava poco, quasi nidla rispetto allo spirito. Quindi ero Ettore, a volte Achille. La loro smania di farcela, la loro gioia spudorata nell'usare 0 corpo per varcare un limite, erano le stesse che provavo io. Ho impiegato più di vent'anni a capire che avevo un altro corpo, un'alta storia. E che i protagonisti dei poe-mi omerici non mi avrebbero mai accolta tra loro, intor-no al fuoco, a discutere di strategie militari. Di quelle co-me me facevano scempio; mi avrebbero presa e fatta schiava, rema domande o cerimonie. E io non avrei neppure potuto pensare che fosse ingiusto, perché era cosi e basta. Persino Omero, n primo autore della lette-ratura occidentale, leggendario o realmente esistito, era comunque un maschio. In quanto donna ero fregata, ta-gliata fuori da qualsiasi possibilità di parola e di prota-gonismo. Per diverso tempo, crescendo, ho fatto finta di niente. Ero nata tre millenni dopo quelle donne rapite, contese, obbligate a «filare la tela», 02 portare l'acqua die sgor-ga». Ormai era mio diritto compiere scelte liberamente e dedicarmi alla mia più grande passione, la letteratura, come . Omero fosse un archetipo senza sesso che an-dasse bene per maschi e per femmine. Solo successiva-mente, e con sofferenza, ho dovuto prendere atto chele Andromache, le Ecube, le Briseidi erano continuate fino a me, di madre in figlia, nel retro della storia, nelrombra e nella schiavitù. M:dente o moleste, le contenevo. Dove-vo farcii conti. Era inutilevoltarmi dall'altra parte e trat-tarle come retaggi preistorici. Se affilavo bene gli occhi — nei fischi per strada alle ragazze, negli stupri quoti-diani, nella disparità lampante in famiglia e sul posto di lavoro — Andromaca, Ecuba, Itriseide erano ovunque intorno a me. E io ero una di loro.
Fa male ammettere di appartenere alla categoria delle vittime Sono cresciuta con la convinzione di dover combatte-re ogni forma di discriminazione, mai discriminati era-no sempre gli altri: altre etnie, altre religioni, altri orien-tamenti sessuali, le disabilitai. Certo, le donne potevano essere discriminate in Paesi lontani, in al. culture. Ma non dubitavo, studiando l'Iliade e l'Odissea, di essere li bera allo stesso modo dei miei compagni di classe. E passavo sopra alle numerose accuse di essere «una don-nicciola» rivolte ai soldati nei loro momenti di fragilità perché certo io non potevo essere «una donnicciolac ero Ettore, lo ribadisco, forse Achille. Anni dopo, alrepoca del mio esordio letterario, portai avanti questa convinzione rema interrogarla, senza problematizrada, come fosse un blocco di marmo. In un'intenista mi definii ascritton. anziché «scrittrice» perdié «la letteratura non ha sesso.. Già, peccato che la parola «scrittore» un sesso ce lo }messe, e non era il mio.
Ma io mi ero formata attmvetso una letteratura scritta da maschi, l'avevo fatta mia, mi ero sempre immedesi-mata coni maschi perché certo non potevo riuscirci con donne che erano solo madri o solo figlie o solo mogli. Come A ndromaca, «la splendida», che esiste solo se esi-ste il suo Ettore e, pur di non perderlo, lo implora: «li distruggerà questa furia di lotta, e non ti fa/ pena né questo tuo figlio bambino, né io che altra vita non ho,/ presto io sarò la tua wdove presto ti massacreranno/ gli Achei, tutti contro di te e per me quanto meglio sa-rebbe/ morire quel giorno che t'avrò perduto, perché al-tro calore/ non sentirò più, quando tu incontrerai la tua sorte». Sporgermi sull'orlo del cratere e guardare in fac da l'ingiustizia gigantesca che da Omero arrivava fino a me non era facile per niente. Ce voluto un lento scava, un percorso faticoso di ac-cettazione per comprendere che quelle come me— le donne — la storia l'hanno retta nelle interiora e nelle fondamenta. Lavorando come muli, partorendo, incas-sando colpi, urti e assedi con il loro corpo fino alla con-sunzione. Lontane anni luce dalla gloria immortale de-gli uomini, che quel corpo lo sfogavano nella lotta, nel sesso, per poi abbandonarlo felicemente e restare nelle poesie e nei racconti. Loro soli_ Come se le donne fosse-ro condannate al buio delle aratine e delle stanze nuzia-li, dei capannoni e delle sale parto, sotto il linguaggio, sotto il sogno, sotto terra. Capire questo, prendeme atto non solo come dato storico, ma come dato mio, é stata per me una delle im-prese del divenire adulta. Sentire forte e chiara la neces-sità di cambiatele cose, una delle cognizioni fondamen-tali della mia persona.
Ma torniamo all'Iliade e al suo proemio. Già al verso so temiamo uno spaccato limpido della condizione femminile: «E lei non la libero, no., grida Agamennone a Crise, giunto da lui per implorare la restituzione della figlia rapita. «Prima dovrà farsi secchia/ nella mia casa, la ad Argo, butano dalla sua patria,/ schiava costretta al telaio, costretta a venirmi nel letta». Se escludiamo la Musa a cui si rivolge l'aedo nel pri-mo verso — dea che comunque non ha voce, ispira sol-tanto e risponde ubbidiente a un bisogno di Omero — la prima comparsa di una donna nel poema coincide con una merce di .ambio. Criseide passa di uomo in uomo, alla stregua delle armi, delle monete. Oggetto tra gli og-getti, bottino di guerra, si differenzia dalle alme cose so-lo perché viia. Ma la vita non fa di lei una creatura, e i pensieri e i sentimenti che non può esternare non fanno di lei una persona. A una donna è concesso un rigido e scarno elenco di azioni: può pregare gli dei, bisbigliare insieme alle altre donne, piangere e battersi il petto per un uomo caduto in battaglia, lavare e ungere di olii un guerriero sporco di sangue al rientro da una carneficine Può e deve gene-rare figli, allattarti e crescerli. Può e deve tenere. Occu-parsi delle dimore. Deve assolutamente cedere il suo corpo al piacere dell'uomo — «cedere., non «concede-n., perché il consenso non è nemmeno lontanamente contemplato. Io contemplo questo silenzio colossale, invece, que-sta prigione in cui sono confinate le donne. Non sappia-mo niente di loro. Non hai.) alcun rilievo. Persino Ele-na, «la donna divina., è solo un trofeo sema carattere né desideri. Sono tutte semplici funzioni a cui viene ne-gata qualsiasi curiosità e compassione Loro ne prov. no, si. Si struggono peri mariti, i padri, i figli. Li interro-gano, li amano. Ma chi si strugge per loro? Chi le ama? Nessuno.
Eppure tutti levogliono. E io non riesco a non provare stupore constatando che, sebbene nell'Iliade le donne contino pochissimo, una guerra di dieci anni si scatena per loro. Loro sono il perno, muto e fragile, intorno a cui ruota la furia maschile.
La guerra di Troia nasce dalla contesa di una donna bellissima, la regina Elena «abito lungo», e dal capriccio di dee altrettanto belle e per giunta maliziose. Tra Aga-mennone e Achille si accende una lite furiosa a causa della schiava Briseide «bel viso». Che siano dee, regine o schiave, la sostanza non cambia. Gli epiteti che le de-scrivono riguardano tutti e solo la bellezza dell'aspetto. comun denominatore della loro condizione è l’impo-tenza. Il potere del femminile è uno solo: essere deside-rate. A questo proposito, esemplare risulta l'inganno di Era, la regina di tutte le dee, la più potente in assoluto, ma che, in fin dei conti, ha ben poca libertà. Per sviare l'attenzione del marito dalla guerra e intervenire in aiuto degli Achei non trova altre possibilità che sedurlo: «Al-lora si chiese fre sé, la dea . occhi grandi:/ come stre-gare la mente di Zeus armato dell'égida,/ E questo, in cuor suo, le parve il piano migliore./ farsi più bella, .salire sull’Ida, e vedere se Zeus/ fosse tentato di unirsi con lei, di abbracciarla in amore,/ così da potergli versare un placido, tiepido sonno/ sopra le ciglia, sopra i tenaci pensieri.m. Per quanto le donne possano esercitare la seduzione, questa resta un potere passivo, nonché per loro stesse letale. Non dipende da loro, non è un merito né una scelta. È solo la bellezza di cui il caso le ha dotate, la gio-vinezza di un attimo. A volte, una sciagura. Elena arriva, in un momento di disperazione, a defi-nirsi «faccia di cagna» per avere causato tante vittime e dolore a causa della sua bellezza. «Meglio avrei fatto a morire quando ho seguito fin qui/ tuo figlio», dice al suocero Priamo, «e ho lasciato il mio letto e gli amici/ e la figlia carissima e le compagne che amavo./ Ma non è andata così. Per questo mi struggo nel pianto». Poco la consolano le parole che riceve in risposta: «Non tua è la colpa, hanno colpa gli dèi». Perché è dal principio dei tempi che la colpa viene attribuita alle carni che scate-nano il desiderio. Per arrivare a possederle, gli uomini si massacrano. Certo, anche per la gloria. Ma grattando via la patina delle gesta eroiche, del coraggio che gli aedi canteranno per l'eternità, resta un corpo di donna come detrito irri-ducibile, preda e causa della peggiore violenza. E io non riesco a non intravedere, nel fondo di queste contese brutali, un grumo animale: il regredire alla lotta biologica tra maschi per accaparrarsi la femmina feconda.
L'imperio della natura al suo minimo, vuota di qualsiasi parola. Pura sopravvivenza, pura continuazione delle specie che, per avverarsi., deve incidere un ventre fem-minile. Achille stupra Briseide, dove Io stupro non è crimine né arma di guerra, bensì azione quotidiana, ovvia.
Poi, quando Briseide gli viene portata via per essere data ad Agamennone, la piange. Come un bambino a cui è stato sottratto un gioco. Come un uomo che ha perso una cosa preziosa, questa affezione, con i pianti disperati per la perdita di Patroclo, per l'amicizia fraterna con lui. Solo per altri uomini si può provare ammirazione, empatia, rispetto. E siccome non riesco a concepire un bene - che sia amore o amicizia- senza ammirazione e rispetto, devo prendere atto anche di questo: che le donne non sono state amate mai. Le più fortunate risultano paragonabili a fiori meravigliosi che invitino le api a impollinarli. Perché questo è il ruolo che la natura ha loro .posto: di essere luoghi dove si transita, di passaggio tra una generazione e l'. tra; dove un seme viene nascosto affinché possa germo-gliare e uscire. Là fuori, nel mondo. Intanto le donne re-stano dentro. E non nascono mai. se tutto questo appartenesse al IX secolo avanti Cristo e fosse solo acqua passata, si studierebbe con l'incredu-lità che circonda i sacrifici umani, i roghi di streghe, le torture medievali o l'olocausto. Purtroppo, come si im-para uscendo da scuola e cominciando a esplorare l’attualità, nessun orrore del passato è mai finito. A volte si è spostato di latitudine, a volte si è nascosto meglio. Ma la violenza sistematica degli uomini sulle donne è anco-ra così presente in tutto il mondo, in pratiche lampanti - infibulazioni, spose bambine, negazione del diritto all'istruzione- o più subdole- disparità di salano e di congedi parerentali, una cultura fortemente mercificato-ria del corpo femminile - che oggi, millenni dopo, l'Iliade continua a parlarci. Che cos’ha fatto la società in cui sono cresciuta, se non suggerirmi sottovoce, in tono suadente e insistente, di diventare una bella Elena? Do prendere le mie energie ed i miei desideri e di piegarli a questo obiettivo?
Conformarmi al desiderio maschile, insinuando che più ci sa-rei riuscita più avrei avuto valore. Eccola, la parola esatta che connota le donne: non po-tere, ma valore. Ecco la nostra missione: piacere. Siamo noi quelle invitate a vestirci in un certo modo, a scoprir-ci per attirare e poi a coprirci una volta scelte. Noi quelle chiamate a mantenersi giovani. A tacere e a farsi da par-te, a stare buone al proprio posto. Come accade ad An-dromaca quando, dopo avere ricevuto parole di premu-ra dal marito, le viene seccamente ordinato: «Ma adesso va' a casa, e pensa al mestiere che è tuo,/ telaio e conoc-chia; e da' istruzioni alle serve,/ che facciano il loro lavo-ro. Alla guerra dovranno pensare/ gli uomini, tutti, e io sopra tutti, fra quanti nacquero a filo». Siamo noi quelle giudicate prima di parlare, confina-te nella gabbia del proprio corpo, negli stereotipi del-l'aspetto esteriore. Quanta fatica dobbiamo impiegare, ancora oggi, per poter lavorare e ribellarci alla parola madre, alla parola moglie, alla parola figlia? Per non di-pendere economicamente e culturalmente da un uo-mo? la Storia è uno scandalo, lo ha scritto Elsa Morante nel romanzo che comincia, non a caso, con una donna violentata a Roma da un soldato tedesco durante la Se-conda guerra mondiale. Dal IX secolo avanti Cristo al 1942 dopo Cristo è cambiato molto, ma un nucleo bar-baro di prevaricazione e scempio persiste. La me che a vent'anni si definiva per leggerezza «scrittore» voleva fuggire da questo nucleo, essere libera di pensare, par-lare e scrivere come lo erano i maschi. Non volevo essere Elena, volevo essere Ettore. Ed è stupefacente che, pas-sati tutti quei millenni, grazie alle battaglie di tante don-ne che mi avevano preceduta, io mi ritrovassi istruita, con diritto di voto, con diritto a scegliermi un fidanzato anziché esserne scelta, ma, comunque, ancora alle pre-se con un'ingiustizia radicale. Ancora spinta, per tentare una parità, a declinarmi al maschile. Tutte noi, a un certo punto, abbiamo sfogliato un al-bum di famiglia e ripercorso vite di nonne, bisnonne, zie o madri costrette a rinunciare alla propria felicità per curare i figli, la casa, gli anziani. Uno smisurato spreco di talento, di intelligenze. Assistere dal vetro di una fine-stra all'uomo che esce, va al lavoro, al bar con gli amici, in mezzo al mondo, dove intrattiene amicizie e relazioni sentimentali, dove si avventura e scopre, macina espe-rienze, si misura in gesta o parole che forse verranno II-coniate. E tu? Niente. Tu pulisci e dai il seno al bambino. La domenica cuci-ni il pasto per la famiglia e gli ospiti e a volte neppure ti siedi a tavola con loro. Ti è concesso vestirti bene a qual-che battesimo e matrimonio. Ti è concesso discutere di argomenti frivoli— non di politica, non di economia—con le altre donne, mentre gli uomini affrontano i gran-di temi, prendono le decisioni, fanno cartiera Io queste donne le ho conosciute e ho voluto loro molto bene. Non erano Ecuba o Andromaca: erano mie parenti. lo stessa, decine di volte, in quanto femmina, sono stata invitata a fare altri giochi, a occuparmi di altre questio-ni. Spesso mi è stato suggerito, sempre con allusioni e bisbigli, di non stringere alleanza con le altre donne, bensì di competere con loro. Di diffidare di amicizie e sorellanze per puntare al fidanzamento, supremo obiet-tivo. Quando ho studiato l’Iliade a scuola, nessun profes-sore o professoressa ha mai dedicato una lezione a que-sto pugno in faccia: gli uomini sono eroi, le donne tro-fei. Ci siamo sempre diligentemente soffermati sulla metrica e sugli epiteti, sugli aggettivi e sui verbi, pren-dendo per buono tutto. Come fosse ovvio e attuale. Infatti lo è, attuale. Ma non può più essere ovvio.
Perché? Quante volte mi sono sentita riecheggiare in testa questa domanda.
Quando Achille, con le armi lucenti appena forgiate da Efesto, attraversa la pianura diretto verso la rocca per vendicare Patroclo, Priamo ed Ecuba, i due anziani geni-tori di Ettore, piangono terrorizzati perché capiscono che è giunta la fine del figlio. Entrambi implorano Etto-re di non affrontarlo, perché Achille è più forte di lui, e di pensare, invece, a proteggere il suo popolo. Ma quel-lo, figuriamoci: che eroe sarebbe, altrimenti? Non sente ragioni, neppure quando sua madre compie un gesto che mi ha sempre lasciata di sasso. Ecuba si allarga la veste e gli mostra il seno. Grida: «Ettore, bambino mio! Abbi rispetto almeno di questo,/ abbi pietà di tua madre. Ti ho tanto cullato su questo mio seno,/ ricordi? Tesoro, va' via, via da quel-l'uomo tremendo,/ rientra in città! Ti prego, non af-frontarlo./ E’ una belva, ti dico! Ti ucciderà, e io, che ti ho partorito,/ non potrò neanche piangerti, figlio, ac-canto a un letto,/ insieme ad Andromaca, nobile spo-sa». Ecuba ricorda a Ettore di averlo partorito; dunque lui, ora, non può farle il torto di morire. Deve tenere a mente la sua origine, la carne di cui è impastato. Ma lui se ne frega di quelle viscere, il suo desiderio è finire in gloria, diventare poesia e leggenda: pulita, radiosa, immateria-le. Pura cultura. È qui, in questo seno esibito, che rintraccio la chiave di un fraintendimento colossale: la maternità, la com-pressione del femminile dentro questo evento. Perché la donna è anche, strutturalmente, un luogo da cui se-pararsi: tutti usciamo da un corpo di donna, tutti Io dob-biamo tradire per diventare noi stessi. Ma nessuna don-na è riducibile a un evento, a un luogo. Ogni donna è, nell'infinita sua complessità, una persona. Eppure quando la donna diventa madre, ancora oggi, viene incoraggiata a tagliarsi fuori. Dal lavoro, dalle ami-cizie, dalle passioni, dai desideri. Ancora oggi, mentre l'uomo può fare una pausa in battaglia per dare un bacio al figlio, come Ettore con Astianatte, la donna viene ri-cacciata indietro, ad allattare, nutrire, pulire, accudire. In una solitudine desolante, a giudicare dai congedi pa-rentali per uomini e dalla scarsità di asili nido. Se una donna non vuole diventare madre, si deve giu-stificare. Se lo sceglie, viene schiacciata pancia a terra su questa funzione seguendo la parabola dell'attrarre, ge-nerare e scomparire tra le mura domestiche. Obbedien-te alla biologia, estromessa dalla cultura. Ilo ripensato all'Iliade apprendendo dai quotidiani di certe chat di ragazzini che hanno ridotto un corpo di donna a oggetto del loro piacere, senza il minimo dub-bio che contenesse una persona. L'ho rammentata leg-gendo il caso di un imprenditore che adescava studen-tesse con l'invito a uno stage, e poi le narcotizzava e le stuprava. Ho ritrovato la barbarie dell'Iliade in ogni fem-minicidio. Nelle statistiche che mostrano come, duran-te la pandemia, sono state pressoché solo donne a per-dere il lavoro: le più precarie, le più sacrificabili. Sarebbe ingrato, ingiusto e falso scrivere che non è cambiato niente, perché molte donne hanno lottato e dato la vita per conquistare le libertà e i diritti di cui go-diamo oggi. L’Iliade però resta li ridimensionata, non superata. Un poema di bellezza spaventosa, un'opera d'arte scritta da uomini che testimonia brutalmente la condizione femminile. Tutte e tutti dobbiamo poterla attraversare, farne tesoro, riscrivere. Leggerla con attenzione a 37 anni, a differenza che a 14, mi ha fatto sentire, forte e chiara, la mia appartenen-za alla parola «scrittrice». La felicità di questa declina-zione. Le voci e libertà inedite che contiene. La possibili-tà di correre, come Achille, verso una nuova cultura: «Tutto lucente,/ e pareva la stella che sorge in estate, quella i cui raggi/ trafiggono il buio».
Silvia Avallone

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