SANITA' E ISTRUZIONE PUBBLICA

 

SANITA' E ISTRUZIONE PUBBLICA

INNOCENZO CIPOLLETTA Presidente di UBS Italia SIM, di UBS Fiduciaria che offre all’Italia l’esperienza e le competenze maturate da UBS nel Wealth Management a livello mondiale ha scritto un articolo pubblicato dal quotidiano DOMANI di oggi 27 settembre 2023 in cui afferma che:

“Se si vuole che l’Italia recuperi una maggiore produttività bisogna puntare sulla crescita della domanda finale per far crescere il PIL e, con esso, anche la produttività.”

Ho riflettuto su questa affermazione e sono partito dal presupposto che la democrazia rappresenta il desiderio di convivere al di fuori di ogni sistema autoritario e che la sua storia è quella della lotta per l’espansione della cittadinanza, come accadde nel secolo scorso con la conquista del voto femminile. In questo senso, invito chi legge a riflettere sulle teorie che sostengono posizioni contrarie nella società per scegliere cosa fare in base all'onestà e al rispetto reciproco.

La teoria è un sistema di pensiero logico basato su alcune premesse fondamentali, e tale costruzione è svolta attorno alla conservazione di quelle premesse fondamentali che sono sempre arbitrarie. Ogni costrutto logico si fonda su premesse basilari accettate a priori dai desideri, dagli scopi e da ciò che si vuole conservare. Quando compaiono le teorie, le dinamiche della convivenza democratica si interrompono e compaiono le discriminazioni e con esse le disuguaglianze. Per questo motivo dobbiamo abbandonare le teorie altrimenti non risolveremo i problemi della disuguaglianza.

L’iniquità nasce sempre da una discriminazione giustificata da qualche teoria. Parto da questa osservazione perché desidero fare una critica al concetto di progresso basato sull'individualismo, il consumismo e la competizione che è poi l’invito che fa il Prof. Cipolletta quando afferma che deve aumentare la domanda di prodotti per avere maggiore produttività.

Il progresso basato sull’individualismo è fonte di disuguaglianza perché si basa sulla competizione, sulla discriminazione, sul tentativo di essere migliori degli altri attraverso categorie che lo giustificano con l’idea di progresso. È una teoria che genera disuguaglianza. Invece è mia opinione che il progresso non viene dalla competizione, ma da uno sguardo costruttivo che ci permette di collaborare con gli altri facendo qualcosa che sia prezioso per la comunità.

In questo ambito voglio condividere con voi la mia esperienza personale di figlio della sanità e dell’istruzione pubblica. Io sono cresciuto in una famiglia molto modesta, in cui vivevamo con lo stipendio che mio padre guadagnava come ferroviere. Io crescevo piuttosto malaticcio, mi veniva in continuazione la febbre ero un bambino cagionevole di salute, ma c’era la medicina pubblica che mi forniva i mezzi per guarire. Inoltre grazie alla Scuola Pubblica ho avuto l’istruzione necessaria per fare il mio lavoro che mi consente ancora di vivere dignitosamente. A quel tempo parlo degli anni 60- 70 del secolo scorso l’istruzione e la medicina erano di competenza dello Stato. In seguito tutto ciò finì perché la concorrenza economica fu posta al centro del progresso. Ma io sono figlio della medicina e dell’istruzione pubblica.

Buona riflessione

GLI SCENARI INTORNO ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Non tutte le innovazioni fanno crescere la produttività
INNOCENZO CIPOLLETTA
economista
C’è una grande attesa che l’introduzione
dell’intelligenza artificiale
(AI) faccia aumentare la produttività
dei nostri paesi. In questo senso
si sono espressi diversi economisti
e centri di analisi. È certo che l’AI sarà
capace di aumentare le produttività
di singoli lavoratori e imprese,
ma porterà anche a un aumento di
produttività per tutto il paese? C’è
da dubitarne, a partire dall’esperienza
più prossima, quella degli ultimi
trenta anni, caratterizzati dalla
più potente innovazione tecnologica,
quella del digitale che non
sembra aver avuto come risultato
un aumento della produttività
complessiva. Già in passato, all’epoca
dell’introduzione del computer
in ogni impresa e in ogni attività
umana, si constatò come questa tecnologia
non fosse stata accompagnata
da un aumento di produttività
nei sistemi economici. Fu il premio
Nobel Solow che nel 2007 disse
che «si vedono computer ovunque
tranne che nelle statistiche della
produttività». La cosa destava meraviglia
perché nel dopoguerra la consistente
introduzione di innovazioni
tecnologiche avevano portato a
un aumento della produttività nei
nostri paesi assieme a una forte crescita,
sicché si era creata una sorta
di sillogismo tra innovazione, produttività
e crescita. Con l’avvento
del digitale, di internet e di tante innovazioni
collegate, constatiamo
nei nostri paesi una sorta di stagnazione
della produttività o per lo meno
di una crescita relativamente
modesta se confrontata con quella
del passato.
Perché questo andamento deludente?
In realtà l’innovazione genera
sempre un aumento di produttività
nelle imprese e nei settori che
l’adottano e questo aumento di produttività
si traduce in una riduzione
nell’uso dei fattori della produzione,
in particolare del lavoro. I settori
che aumentano la loro produttività
riducono in proporzione l’assorbimento
di lavoro e questo lavoro
finisce per essere impiegato in altre
attività. Negli anni del dopoguerra
l’uscita di lavoratori soprattutto
dall’agricoltura, che conosceva
grandiosi aumenti di produttività,
fu instradata nei settori industriali
e dei servizi, ossia in settori
con un prodotto per addetto (che è
anche una misura della produttività)
decisamente superiore a quello
dell’agricoltura, sicché il passaggio
del lavoro da agricoltura agli altri
settori si accompagnò a un aumento
complessivo della produttività
(prodotto per addetto) e di crescita
economica, dato che aumentavano
anche i redditi dei lavoratori e
delle loro famiglie. Negli ultimi
trenta anni, invece, l’aumento di
produttività delle imprese ha riguardato
essenzialmente l’industria
e i grandi comparti dei servizi
(banche, assicurazioni, trasporti,
ecc.) che hanno ridotto, in termini
relativi, il loro assorbimento di occupazione,
sicché il lavoro si è trasferito
essenzialmente verso attività
a prodotto per addetto più basso
(ristorazione, commercio, cura delle
persone, ecc.) ovvero in occupazioni
marginali, anche perché contemporaneamente
è diminuito il
tasso di crescita delle nostre economie.
D’altra parte, una teoria consolidata
in campo economico vede la
produttività come dipendente dal
tasso di crescita dell’economia, sicché
se un paese cresce poco, difficilmente
potrà avere un tasso di produttività
elevato perché significherebbe
una grossa perdita di lavoro
ben remunerato che finirebbe per
rifugiarsi nelle attività marginali
disponibili pur di realizzare una
qualche he remunerazione.
Bisogna sempre ricordare che, se c’è
una crescita bassa e se la gente non
trova il lavoro desiderato, deve accontentarsi
di lavori marginali e
precari per sopravvivere e, questi
comportamenti obbligati finiscono
per tradursi in una crescita insufficiente
della produttività o addirittura
in un calo di produttività,
come avvenuto per l’Italia per molti
anni, costretta a politiche di riequilibrio
dei conti pubblici che ne
hanno compromesso la capacità di
crescita. In altre parole, chi punta a
un aumento della produttività per
far crescere l’economia finisce per
scambiare le cause con gli effetti e a
non conseguire affatto l’obiettivo.
Se si vuole che l’Italia recuperi una
maggiore produttività bisogna
puntare sulla crescita della domanda
finale per far crescere il PIL e, con
esso, anche la produttività.

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