Ancora sulle suggestioni di D’Alema
Angela Tapparini ha commentato il discorso di D’Alema:
Purtroppo con un discorso così non si recupererà mai il
rancore popolare ...
Io ho scritto questa riflessione:
Angela Tapparini, il rancore popolare è un'emozione che può
evolvere in una emozione diversa se le persone decidono di riflettere.
Il rancore popolare è derivato sempre dalla delusione che è
figlia dell'illusione.
Anche il ruolo che ha nella nostra cultura il capo, la donna
o l'uomo leader, la capitana o il capitano, sia che sia di destra, di centro ,
di sinistra, di alto o di basso non è più funzionale perché prevede la delega
totale al capo che pensa a tutto lui e, allo stesso tempo, la sottomissione e
l'ubbidienza di tutti gli altri.
Scritto ciò mi piace precisare che ciò che mi piace nell'analisi
che sta conducendo il Presidente D'Alema da qualche anno a questa parte, è il
suo tornare sempre a stigmatizzare la necessità e l'urgenza del coinvolgimento
delle persone sia attraverso la rete internet, che attraverso vere e proprie
conversazioni con incontri in carne e ossa.
E’ possibile prevedere che la cultura della collaborazione
comparirà appena quella della competizione verrà lasciata cadere. Purtroppo
l'analisi che fa D'Alema sul neo liberismo non approfondisce la cultura di cui
il neo liberismo si nutre, e questo rappresenta il limite della stessa analisi
che propone sic et simpliciter una sorta di soluzione magica del problema attraverso
la sostituzione dei leader di oggi con quelli della sinistra alleati magari con
il Movimento 5 stelle.
Il problema del neo liberismo e del capitalismo è la cultura
della competizione che regola relazioni e rapporti tra le persone, cultura che
esclude il soccombente.
La cultura della competizione oggi è accettata e praticata
da tutte le forze politiche presenti in parlamento e anche da quelle che sono
fuori dal parlamento. Ecco perché nonostante il governo Movimento 5 stelle –
Lega si sia dato il compito del cambiamento, non avendo praticato la cultura
della collaborazione è finito miseramente travolto dalla cultura della
competizione, non avendo cambiato nulla rispetto a quello che è sempre
accaduto.
Ecco perché prevale la Cina sull'India, ovvero ecco perché
la pur claudicante democrazia indiana è meno efficiente, in questa cultura
della competizione, rispetto al totalitarismo della Cina.
La domanda è sempre la stessa: "cosa vogliamo
conservare?"
Se decidiamo di conservare la cultura della competizione
tutti i leader che competeranno per conquistare il potere, anche quelli che
giurano e spergiurano di essere democratici, avranno, prima o poi, una deriva
autoritaria.
Se finalmente decideremo di conservare la cultura della
collaborazione e cooperazione ci sarà l'uguaglianza e avremo delle sagge guide
riconosciute da tutti i cittadini come persone che, sono dove sono,
nell'esclusivo interesse del "bene comune".
D'Alema afferma che alla partecipazione dei partiti e delle
sezioni si debba sostituire comunque una forma di partecipazione dimenticando
però di ricordare che quella società dei partiti non era fondata sulla
collaborazione ma sulla ubbidienza e sottomissione ai capi in cambio della
quale si otteneva o un posto di lavoro, una promozione, una casa popolare ecc
ecc.
Quella società dei partiti non la si è voluta cancellare
come dice D'Alema, molto più semplicemente non c'era più nulla da distribuire
ai sottomessi e ubbidienti ed ecco perché ha prevalso il DUCE che dalla TV
prometteva mari e monti alle masse.
Riflettiamo insieme sulle basi culturali che abbiamo scelto
di conservare nel nostro vivere e soprattutto prendiamo coscienza che sono basi
culturali non umane. La sottomissione e l'ubbidienza caratterizza la comunità
delle scimmie non quella delle persone.
#magicoalchimista
Io penso che la conversazione proposta dal Presidente Massimo D'Alema meriti di essere continuata ovunque sia possibile farlo e per questo la pubblico. Buona lettura.
Autore originale del testo: Massimo D'Alema
Fonte: D'Alema: "Noi siamo di fronte ad una crisi delle democrazie"
Intervento di Massimo d’Alema nel Dibattito con Michele Santoro del 18 settembre 2019, durante la Festa di Articolo Uno
trascrizione di Giovanna Ponti
Fonte: D'Alema: "Noi siamo di fronte ad una crisi delle democrazie"
Intervento di Massimo d’Alema nel Dibattito con Michele Santoro del 18 settembre 2019, durante la Festa di Articolo Uno
trascrizione di Giovanna Ponti
-.-.-.-
Noi siamo di fronte ad una crisi delle democrazie.
Negli anni novanta era dominante la convinzione che dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’esperienza del socialismo reale in Europa, si apriva il tempo della democrazia. La convinzione era che progressivamente nel mondo la coppia liberal-democrazia più economia di mercato avrebbe progressivamente dominato il mondo. E in effetti c’è stato un decennio di espansione delle democrazie perché con la fine della guerra fredda sono caduti anche regimi militari in America Latina ad esempio, vi è stata una lunga fase di espansione della democrazia. Più recentemente è sembrato che anche il mondo arabo fosse travolto da un’ondata democratica con la primavera araba.
In realtà invece noi ora assistiamo a una battuta di arresto del processo di democratizzazione. Non è soltanto un problema italiano ed europeo. I regimi autoritari si presentano come più solidi e persino più competitivi nel mondo della globalizzazione rispetto alle democrazie.
Ricordo un bellissimo saggio di Amartya Sen dove spiegava che lo sviluppo aveva bisogno di democrazia e teorizzava che il modello indiano sarebbe stato un modello vincente rispetto al modello autocratico cinese: non è stato così. La Cina è cresciuta negli ultimi 15 anni con una intensità incredibile e si è modernizzata molto più dell’India.
Ma che cosa è che non funziona nelle democrazie? Quali sono le promesse che le democrazie non hanno saputo mantenere?
Io penso che l’accoppiata democrazia+economia di mercato non ha garantito l’emancipazione sociale e la promozione umana che portava in sé.
Le democrazie hanno retto e sono cresciute, in Europa soprattutto ma anche nel resto del mondo, fino a quando hanno saputo garantire un certo grado di promozione e inclusione sociale, un certo grado di uguaglianza, fino a quando a fondamento dei processi democratici c’è stato un compromesso sociale. Ora questo è entrato in crisi e lì affonda le sue radici il populismo, cioè nel malessere sociale, nell’emarginazione, nella crescita delle disuguaglianze.
A questo si aggiunga un altro tema che è connesso ma che ha una sua specificità: le democrazie sono state forti fino a quando sono state innervate di partiti, sindacati, corpi intermedi che hanno formato la classe dirigente e che hanno strutturato il consenso. Non con un consenso giorno per giorno, ma un consenso a un progetto perché questa era la funzione dei partiti. Man mano che questa struttura delle democrazie è entrata in crisi, noi siamo entrati nel tempo delle democrazie del leader, delle democrazie del sondaggio, delle democrazie prive di una struttura come un corpo senza ossa. La democrazia è diventata una massa gelatinosa e questo tipo di sistema democratico non seleziona più classi dirigenti.
Io vado spesso in Cina e qualche mese fa era andato in visita qualche governante italiano e un amico cinese mi ha chiesto sorridendo: “Ma voi siete sicuri che con i sistemi democratici vanno al governo le persone migliori?”.
Alcuni studiosi politologi hanno coniato una parola nuova, la cachistocrazia, e cioè i sistemi democratici nella loro fase di crisi producono il governo dei peggiori. Le democrazie non garantiscono né la qualità della classe dirigente né la stabilità dei sistemi politici. Negli anni novanta nel mondo se uno avesse chiesto a qualsiasi cittadino chi era il leader del mondo, avrebbe risposto Clinton. oggi sarebbe molto difficile dare il nome di un leader democratico.
La crisi della democrazia è un fenomeno molto complesso e drammatico per molti aspetti. Anche ciò che succede in Italia va inquadrato a livello generale. L’Italia è un Paese ormai abbastanza periferico e succede anche da noi, magari anche in forme esasperate, quello che succede altrove.
La crisi della democrazia pone molti problemi e per chi come me è un sincero democratico non basta respingere il populismo, ma bisogna cercare di curare il male delle democrazie alla radice. La radice è un problema sociale ed è il grande problema di come si organizza la partecipazione dei cittadini essendo chiaro, e questo ormai è chiaro anche a chi ha contribuito a distruggerli i partiti, che avendo demolito quel sistema ha indebolito in modo drammatico i sistemi democratici. Io non credo che si possa ricostituire quello che c’era, però qualcosa ci dobbiamo inventare perché la democrazia soltanto dei mass media, dei leader eccetera è una democrazia senza struttura e quindi senza anima.
Negli anni novanta era dominante la convinzione che dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’esperienza del socialismo reale in Europa, si apriva il tempo della democrazia. La convinzione era che progressivamente nel mondo la coppia liberal-democrazia più economia di mercato avrebbe progressivamente dominato il mondo. E in effetti c’è stato un decennio di espansione delle democrazie perché con la fine della guerra fredda sono caduti anche regimi militari in America Latina ad esempio, vi è stata una lunga fase di espansione della democrazia. Più recentemente è sembrato che anche il mondo arabo fosse travolto da un’ondata democratica con la primavera araba.
In realtà invece noi ora assistiamo a una battuta di arresto del processo di democratizzazione. Non è soltanto un problema italiano ed europeo. I regimi autoritari si presentano come più solidi e persino più competitivi nel mondo della globalizzazione rispetto alle democrazie.
Ricordo un bellissimo saggio di Amartya Sen dove spiegava che lo sviluppo aveva bisogno di democrazia e teorizzava che il modello indiano sarebbe stato un modello vincente rispetto al modello autocratico cinese: non è stato così. La Cina è cresciuta negli ultimi 15 anni con una intensità incredibile e si è modernizzata molto più dell’India.
Ma che cosa è che non funziona nelle democrazie? Quali sono le promesse che le democrazie non hanno saputo mantenere?
Io penso che l’accoppiata democrazia+economia di mercato non ha garantito l’emancipazione sociale e la promozione umana che portava in sé.
Le democrazie hanno retto e sono cresciute, in Europa soprattutto ma anche nel resto del mondo, fino a quando hanno saputo garantire un certo grado di promozione e inclusione sociale, un certo grado di uguaglianza, fino a quando a fondamento dei processi democratici c’è stato un compromesso sociale. Ora questo è entrato in crisi e lì affonda le sue radici il populismo, cioè nel malessere sociale, nell’emarginazione, nella crescita delle disuguaglianze.
A questo si aggiunga un altro tema che è connesso ma che ha una sua specificità: le democrazie sono state forti fino a quando sono state innervate di partiti, sindacati, corpi intermedi che hanno formato la classe dirigente e che hanno strutturato il consenso. Non con un consenso giorno per giorno, ma un consenso a un progetto perché questa era la funzione dei partiti. Man mano che questa struttura delle democrazie è entrata in crisi, noi siamo entrati nel tempo delle democrazie del leader, delle democrazie del sondaggio, delle democrazie prive di una struttura come un corpo senza ossa. La democrazia è diventata una massa gelatinosa e questo tipo di sistema democratico non seleziona più classi dirigenti.
Io vado spesso in Cina e qualche mese fa era andato in visita qualche governante italiano e un amico cinese mi ha chiesto sorridendo: “Ma voi siete sicuri che con i sistemi democratici vanno al governo le persone migliori?”.
Alcuni studiosi politologi hanno coniato una parola nuova, la cachistocrazia, e cioè i sistemi democratici nella loro fase di crisi producono il governo dei peggiori. Le democrazie non garantiscono né la qualità della classe dirigente né la stabilità dei sistemi politici. Negli anni novanta nel mondo se uno avesse chiesto a qualsiasi cittadino chi era il leader del mondo, avrebbe risposto Clinton. oggi sarebbe molto difficile dare il nome di un leader democratico.
La crisi della democrazia è un fenomeno molto complesso e drammatico per molti aspetti. Anche ciò che succede in Italia va inquadrato a livello generale. L’Italia è un Paese ormai abbastanza periferico e succede anche da noi, magari anche in forme esasperate, quello che succede altrove.
La crisi della democrazia pone molti problemi e per chi come me è un sincero democratico non basta respingere il populismo, ma bisogna cercare di curare il male delle democrazie alla radice. La radice è un problema sociale ed è il grande problema di come si organizza la partecipazione dei cittadini essendo chiaro, e questo ormai è chiaro anche a chi ha contribuito a distruggerli i partiti, che avendo demolito quel sistema ha indebolito in modo drammatico i sistemi democratici. Io non credo che si possa ricostituire quello che c’era, però qualcosa ci dobbiamo inventare perché la democrazia soltanto dei mass media, dei leader eccetera è una democrazia senza struttura e quindi senza anima.
Con l’affermarsi del lavoro “disperso”, un lavoro che non è più prevalentemente nelle fabbriche perché siamo di fronte a forme di lavoro per lo più frantumate, individuali, di sfruttamento inedite rispetto alle forme che aveva lo sfruttamento una volta. Ciò ha come conseguenza il fatto che la sinistra ha perduto la capacità di rappresentare questo mondo, i suoi bisogni, le sue aspirazioni. La sinistra ha perduto anche la capacità di esercitare un ruolo pedagogico verso il mondo del lavoro. In fondo le grandi strutture organizzative del mondo della sinistra avevano anche un compito di educazione. Progressivamente la sinistra è diventata rappresentativa di un mondo che qualcuno definì “il ceto medio riflessivo”. La base fondamentale del voto della sinistra, non solo italiana ma europea, è diventato il ceto medio intellettuale. La massa proletaria si è dispersa e poi è diventata in parte preda del populismo, cioè di quei messaggi semplificati che hanno scaricato il rancore sociale verso l’immigrato, verso le élites di Bruxelles.
Non c’è dubbio che il problema più grande della sinistra sia quello di ritrovare questo popolo. Una parte, come dice Michele (Santoro), si può recuperare sulla rete, capisco questo messaggio, ma una parte dobbiamo andare a cercarla nella vita reale: nelle fabbriche, nei ragazzi che in bicicletta consegnano le pizze,ecc. Dobbiamo andare a cercarlo questo mondo del lavoro per rappresentarne i bisogni, facendo di questo il punto primo del nostro programma. Bisogni che vanno rappresentati in termini di salario, in termini di dignità, in termini di sicurezza del lavoro. Insomma è vero e anche io avverto il fascino della rete, però penso che il punto da cui ripartire è la sinistra che deve rappresentare il lavoro. Esiste anche la povertà, ma la forza della sinistra è stata quella di rappresentare il lavoro e il lavoro va ritrovato. Una volta il lavoro era lì, era facile trovarlo, oggi questo rapporto sociale è molto più complesso.
Non c’è dubbio che il problema più grande della sinistra sia quello di ritrovare questo popolo. Una parte, come dice Michele (Santoro), si può recuperare sulla rete, capisco questo messaggio, ma una parte dobbiamo andare a cercarla nella vita reale: nelle fabbriche, nei ragazzi che in bicicletta consegnano le pizze,ecc. Dobbiamo andare a cercarlo questo mondo del lavoro per rappresentarne i bisogni, facendo di questo il punto primo del nostro programma. Bisogni che vanno rappresentati in termini di salario, in termini di dignità, in termini di sicurezza del lavoro. Insomma è vero e anche io avverto il fascino della rete, però penso che il punto da cui ripartire è la sinistra che deve rappresentare il lavoro. Esiste anche la povertà, ma la forza della sinistra è stata quella di rappresentare il lavoro e il lavoro va ritrovato. Una volta il lavoro era lì, era facile trovarlo, oggi questo rapporto sociale è molto più complesso.
Il termine populismo non mi piace perché finisce per mettere insieme cose molto diverse. Io già l’anno scorso dissi che in Italia il nemico principale era la Lega. Salvini ha fatto questa operazione: dentro il guscio della Lega di Bossi, che aveva un’impronta popolare e aveva le sue radici in una cultura del popolo del nord che rimaneva antifascista, ha creato un movimento nuovo.
Quando Bossi andò al governo con Berlusconi, la prima rottura avvenne quando nel 1995 Bossi decise di andare in piazza a Milano il 25 aprile, con il gruppo dirigente della Lega. Io ricordo che mentre molti lo fischiavano io andai a dargli la mano perché in quella partecipazione c’era una autonomia culturale rispetto alla destra con cui pure si era alleato.
Salvini ha trasformato questa Lega del nord in una destra nazionale e ha cercato di recuperare una tradizione che non apparteneva alla Lega, si è collegato alla destra europea e nazionalista, e ha costruito una destra, credo di averlo detto tra i primi, che ha una venatura neofascista che non aveva il leghismo di Bossi.
Dall’altra parte c’erano i 5 stelle. Erano un fenomeno diverso ed era sbagliato farlo accorpare alla Lega, era un errore grave, di analisi innanzitutto, con conseguenze politiche molto negative.
All’indomani delle elezioni io feci un’intervista in cui sostenni che la sinistra, e il Pd, avevano il dovere di andare a un confronto con i 5S.
Dopo le elezioni i 5S dissero che volevano fare un governo con la sinistra. Era il partito che aveva vinto le elezioni, ma non aveva la maggioranza, e fecero una scelta politica, non decisero di fare un governo con la Lega, ma chiesero di fare un governo con la sinistra e trovarono un muro. Si teorizzò perfino che bisognava spingerli a fare un governo con la Lega e questo è stato un errore grave.
Badate, tutta la situazione italiana sarebbe stata diversa perché Salvini non vinse le elezioni, vinse il dopo-elezioni e adesso si è fatto questo governo, ma nel frattempo si è consentito che la Lega diventasse un partito dal 17 al 34% dei voti e quindi questo governo è nato in una situazione molto più difficile.
Qualcuno sostiene che sia un governo nato contro Salvini, mentre un anno fa poteva nascere contro nessuno. Il fenomeno Salvini non aveva le dimensioni che ha oggi, il governo allora sarebbe nato soprattutto dal fatto che la sinistra si misurava innanzitutto con i suoi elettori perché è lì, nel M5S, che era andata una parte del suo elettorato. Molti elettori di sinistra avevano votato il M5S perché avevano colto il messaggio “Vogliamo rappresentare i poveri e il Mezzogiorno” e quello della lotta contro i privilegi.
Questi messaggi erano declinati in un modo molto discutibile però per un elettorato di sinistra sentire dire da una parte che “tutto va bene” e dall’altra che “vogliamo dare un reddito alle persone più deboli e vogliamo colpire i privilegi” ha trovato più attrattivo il secondo perché rispondeva a un sentimento di sinistra. Quindi una seria autocritica doveva portarti a misurarti con loro.
Ora ci siamo arrivati tardi, più deboli, ma alla fine ci siamo arrivati.
Io penso che adesso si è aperta una fase naturalmente piena di rischi, ma è un’esperienza molto importante per il Paese e può anche essere significativo a livello europeo per cominciare a invertire la tendenza: anziché demonizzarlo questo populismo, andiamo dentro a vedere se c’è qualcosa che ci appartiene e di cui ci possiamo riappropriare. E’ una grande operazione politica e culturale. Io vorrei che la sinistra italiana in questo si cimentasse. Non è un passaggio tattico che fallirebbe presto, ma una grande esperienza da cui può venire fuori un laboratorio politico interessante per l’Europa. Non ci sono più da una parte i partiti dell’ establishment, compresa la sinistra, e dall’altra un popolo rancoroso. La sinistra deve rompere questa barriera e recuperare una parte di quel rancore popolare e deve trasformarlo in una forza di cambiamento.
Quando Bossi andò al governo con Berlusconi, la prima rottura avvenne quando nel 1995 Bossi decise di andare in piazza a Milano il 25 aprile, con il gruppo dirigente della Lega. Io ricordo che mentre molti lo fischiavano io andai a dargli la mano perché in quella partecipazione c’era una autonomia culturale rispetto alla destra con cui pure si era alleato.
Salvini ha trasformato questa Lega del nord in una destra nazionale e ha cercato di recuperare una tradizione che non apparteneva alla Lega, si è collegato alla destra europea e nazionalista, e ha costruito una destra, credo di averlo detto tra i primi, che ha una venatura neofascista che non aveva il leghismo di Bossi.
Dall’altra parte c’erano i 5 stelle. Erano un fenomeno diverso ed era sbagliato farlo accorpare alla Lega, era un errore grave, di analisi innanzitutto, con conseguenze politiche molto negative.
All’indomani delle elezioni io feci un’intervista in cui sostenni che la sinistra, e il Pd, avevano il dovere di andare a un confronto con i 5S.
Dopo le elezioni i 5S dissero che volevano fare un governo con la sinistra. Era il partito che aveva vinto le elezioni, ma non aveva la maggioranza, e fecero una scelta politica, non decisero di fare un governo con la Lega, ma chiesero di fare un governo con la sinistra e trovarono un muro. Si teorizzò perfino che bisognava spingerli a fare un governo con la Lega e questo è stato un errore grave.
Badate, tutta la situazione italiana sarebbe stata diversa perché Salvini non vinse le elezioni, vinse il dopo-elezioni e adesso si è fatto questo governo, ma nel frattempo si è consentito che la Lega diventasse un partito dal 17 al 34% dei voti e quindi questo governo è nato in una situazione molto più difficile.
Qualcuno sostiene che sia un governo nato contro Salvini, mentre un anno fa poteva nascere contro nessuno. Il fenomeno Salvini non aveva le dimensioni che ha oggi, il governo allora sarebbe nato soprattutto dal fatto che la sinistra si misurava innanzitutto con i suoi elettori perché è lì, nel M5S, che era andata una parte del suo elettorato. Molti elettori di sinistra avevano votato il M5S perché avevano colto il messaggio “Vogliamo rappresentare i poveri e il Mezzogiorno” e quello della lotta contro i privilegi.
Questi messaggi erano declinati in un modo molto discutibile però per un elettorato di sinistra sentire dire da una parte che “tutto va bene” e dall’altra che “vogliamo dare un reddito alle persone più deboli e vogliamo colpire i privilegi” ha trovato più attrattivo il secondo perché rispondeva a un sentimento di sinistra. Quindi una seria autocritica doveva portarti a misurarti con loro.
Ora ci siamo arrivati tardi, più deboli, ma alla fine ci siamo arrivati.
Io penso che adesso si è aperta una fase naturalmente piena di rischi, ma è un’esperienza molto importante per il Paese e può anche essere significativo a livello europeo per cominciare a invertire la tendenza: anziché demonizzarlo questo populismo, andiamo dentro a vedere se c’è qualcosa che ci appartiene e di cui ci possiamo riappropriare. E’ una grande operazione politica e culturale. Io vorrei che la sinistra italiana in questo si cimentasse. Non è un passaggio tattico che fallirebbe presto, ma una grande esperienza da cui può venire fuori un laboratorio politico interessante per l’Europa. Non ci sono più da una parte i partiti dell’ establishment, compresa la sinistra, e dall’altra un popolo rancoroso. La sinistra deve rompere questa barriera e recuperare una parte di quel rancore popolare e deve trasformarlo in una forza di cambiamento.
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