“Questa storia, che è la mia” di Rita Cantarini

 “Questa storia, che è la mia”

Amarcord…

Mentre il tempo scorre…o corre…senza chiedere permesso, noi lo frantumiamo fra necessità e interessi, contingenze e obblighi, amori, amicizie, pensieri… serenità e tragedie…
E senza accorgerci, o quasi, ci ritroviamo a usare con frequenza il “mi ricordo”, in una grammatica sempre più al passato, in una narrazione sempre più ricca di persone (o personaggi?), fra cento, mille immagini di noi diversi, mutanti a piccoli flash, fotogrammi in sequenze…. Per dirla con Proust…(forse) l’unica vita che valga la pena di essere vissuta, quella del ricordo, del tempo trascorso e fissato nelle immagini in cui tempo e spazio si confondono…di cui “...pur mi giova la ricordanza, e il noverar l’etate…” di leopardiana memoria.
La memoria che, preposta a fare spazio, usa criteri semplici e concreti, almeno in apparenza.
Raccoglie e conserva, coniugando fatti e sentimento, eventi e stato d’animo: così i colori di un tramonto, il timbro di una voce… tre versi in rima, la fragranza di un profumo bastano a rivisitare quell’immensa raccolta di “giorni “, a ridarci tessere di un tutto talvolta chiaro e nitido, spessissimo filtrato dal tempo, come un photoshop antelitteram.
“Il mondoooo… non si è fermato mai un momento…” risuona da un video sul telefonino… e gli occhialoni di Jim Fontana (in auge nei primi anni sessanta) si coniugano, in una frazione di secondo, ad un corteggiamento, al regalo di un quarantacinque giri, a un sorriso che ti riporta la voce forte e senza fronzoli di una Pavone che canta “come te non c’è nessuno”, scatenata e originale quanto la Caselli Casco D’Oro di “Nessuno mi può giudicare “…
Sullo sfondo, raccogliendo gli echi di una più diffusa comunicazione, la nostra voglia di allora di essere nuovi e diversi, meno melodici e più sfrenati, meno Claudio Villa e più Modugno… mentre di jazz e rock and roll sentivamo ancora solo parlare, soprattutto nel Meridione.
Noi, figli del dopoguerra, “baby boom”, come ci avrebbero poi “etichettato”, dell’America ci avviavamo a scoprire la Letteratura, dopo aver letto Pavese, che l’aveva tanto apprezzata e tradotta; e cominciavamo a leggere Stainbeck, “Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald, i racconti polizieschi e i gialli psicologici di Edgar Allan Poe (“l’alienato” bostoniano della prima metà dell’ottocento) …
E in Italia, fuori dal programma scolastico di Letteratura (che chiudeva con Verga e D’Annunzio), leggevamo Pirandello Svevo Calvino e Cassola e Sciascia e Moravia e Pasolini…. Ci aprivamo alla cultura europea leggendo “La Peste” di Camus (“il sentimento dell’Assurdo che porta...alla rivolta”), e poi Sartre e i primi approcci con l’Esistenzialismo. Rimanevamo incantati e coinvolti nelle narrazioni di Virginia Woolf, nel suo periodare “frantumato” e rivoluzionario quanto lo “scompiglio” figurativo di Braque e Picasso.
Ma, da adolescenti romantiche, non disdegnavamo la “Letteratura Rosa” e i romanzi di Liala; sbirciavamo le storie a lieto fine di “Grand Hotel”, “Bolero”, “Sogno”, dove un vastissimo popolo femminile, soprattutto della generazione precedente, ritrovava il suo voler essere.
E in “Gioia”, “Confidenze”, “Amica”, “Grazia”, riviste femminili, apprendeva come costruirsi padrona di casa, donna “onorata” di non dover lavorare dopo il matrimonio. Agli uomini la lettura di “Tempo”, “L’Europeo”, “Epoca” e poi “Panorama e “L’Espresso”, con le informazioni di politica economia e cultura.
Noi, nuova generazione, dentro quelle Regole che volevano la donna tutta casa chiesa e proibizioni ci siamo cresciute, accettando o subendo, ma con il pensiero e il cuore altrove.
Nel mio Liceo.... mai entrare con un vestito giro manica, ai primi caldi di maggio; mai far vedere la collanina di perle al di fuori del castigatissimo grembiule nero ( il mio professore di greco , che Dio l’abbia in gloria, non tollerava l’innocuo monile!!); quel grembiule che ci faceva tutti uguali, e mai ribelli a Docenti spesso molto eruditi, spessissimo completamente ignudi di competenze psicologiche o psicopedagogiche, lontani mille miglia dalle novità tumultuanti che ci crescevano dentro. E d’altronde “Lettera a una professoressa” della Scuola di Barbiana (’67), il Concilio Vaticano II (’62- ‘65), il verbo “contestare” erano solo alle porte….
Nel vestire, si diventava adulti imitando gli adulti: non seguivamo nessuna moda per giovani, perché una moda per giovani non c’era. Intorno ai 15 -16 anni, noi ragazze, gonna “stretta” (poi detta “a tubo”) con lunghezza dopo il ginocchio, calze velate con reggicalze, prime scarpe con tacchetto basso, poi a spillo; prima borsetta; capelli sempre raccolti, se lunghi; parrucchiere nelle grandi occasioni. I ragazzi, pantaloni lunghi (dopo un’infanzia in pantaloncini o pantaloni al ginocchio, “all’inglese”) e cravatta.
Eravamo ancora come i principini nei ritratti di Velasquez….
Per la ginnastica, attività svolta dalle ragazze unicamente a scuola (perlomeno fino ai primi anni ’60), ci si vestiva in gonna blu a pieghe e golfino bianco (come nei saggi scolastici del Ventennio), con scarpe “da tennis” bianche, da indossare solo in quell’occasione.
La tuta era di là da venire, così come i pantaloni a sigaretta che vedevamo addosso alle attrici dei film americani. Per non dire della minigonna, e della rapida diffusione del bikini, che saranno, di lì a poco, simbolo e icona di un modo di essere nuovo e inarrestabile.
In famiglia speravamo nel permesso di partecipare a qualche festicciola organizzata “a casa”, per un ballo del mattone col ragazzo per il quale avevamo preso una cotta…
Condividevamo il tempo libero con gli adulti (quando non ci impedivano ascolto e conoscenza di “certe” situazioni”!!): si raccontavano storie, si ascoltano letture di antichi Classici e Feuilleton, o musica dalle prime radio. Il sabato sera si andava dalla vicina che aveva il televisore (ricordate il Musichiere, anni 57/60?); di domenica al Cinema (al mio paese ce n’erano due già negli anni ’50 , e in quello di mio zio, per mia fortuna, ci sono cresciuta), dove si proiettavano ancora “Catene” ('49) e i “I figli di nessuno” (Ivonne Sanson e il bell’Amedeo Nazzari), in ultime note di dramma e di retorica strappalacrime, dopo i telefoni bianchi (‘36/‘43) e l’intenso realismo (’45/‘51) di “ Ladri di biciclette” o di “Roma città aperta”. Applaudivamo la Commedia di Comencini di “Pane Amore e Fantasia” (‘53) e ridevamo con il grande Totò…
Ma dove cominciavamo a scoprire il cinema d’Autore. Fra il ’60 e il ’63, Luchino Visconti (già iniziatore del Neorealismo), in “Rocco e i suoi fratelli” cominciava a proporsi con uno sguardo nuovo, attento alla storia e all’attualità sociale, su strade che sapevano di rinnovamento; l’Antonioni de L’Avventura”, “ La Notte”, “L’Eclisse” toccava tematiche esistenziali; il Fellini onirico e fantasioso (quello dopo “I Vitelloni”) proponeva una grammatica filmica difficile da capire e accogliere subito (film proiettati in giorni feriali, in sale pressochè vuote!!). Senza escludere il Pasolini di “Accattone” o, su altra strada, “La ciociara” di De Sica.
Era il “troppo nuovo” che attraeva noi adolescenti (si era adulti a 21 anni), e che cominciava a frastornare (ma di poco, di molto poco, ancora) i nostri genitori.
Rita Cantarini

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