Letizia Nucara, Maturana e il linguaggio dell’autopoiesi
Prof.ssa Letizia Nucara |
Università degli studi di Messina - Scuola di Dottorato di ricerca in Scienze Cognitive dell’Università di Messina - Dottorato di ricerca in Metodologie della Filosofia
Maturana e il linguaggio dell’autopoiesi
Nel delineare le linee essenziali di quella che va sotto il
nome di Teoria di Santiago, elaborata dal neurobiologo cileno Humberto Maturana
intorno agli anni ’60 del secolo scorso, mi propongo di focalizzare
l’attenzione sul tema del “linguaggio dell’autopoiesi”, ovvero del “linguaggio
dei sistemi viventi”. Prima di entrare nel vivo del discorso, è però opportuna
una precisazione che riguarda il senso in cui intendo utilizzare il termine
“linguaggio”, impiegandolo nella sua accezione più generica, come sinonimo di
“discorso” o di “logica”.
Questa premessa è necessaria per la peculiare valenza che il
termine assume nel pensiero dell’autore, che ne fa anche oggetto specifico
della propria riflessione, analizzandolo come “fenomeno biologico”.
Non è mia intenzione soffermarmi in maniera puntuale su
questo aspetto, anche se mi sembra utile accennarlo brevemente per delineare un
quadro concettuale più completo.
Maturana definisce il linguaggio come dominio d’esistenza
umano, affermando, ad esempio, che “noi, in quanto esseri umani esistiamo nel
linguaggio” (Maturana 1993, p. 11). Questo vuol dire che il linguaggio
appartiene alla nostra esperienza, alla nostra pratica di vita, costituisce il
nostro “luogo” dell’azione; il luogo in cui, e attraverso cui, realizziamo la
nostra “natura autopoietica”, ci identifichiamo come esseri umani, immersi in
un processo di continua auto-formazione e di incessante auto-sviluppo. La
funzione primaria del linguaggio non è dunque la trasmissione di messaggi, ma
il reciproco e continuo orientamento dei conversanti nel dominio consensuale
realizzato dalla loro interattività, in altri termini, “c’è comunicazione ogni
volta che c’è coordinazione comportamentale in un dominio di accoppiamento
strutturale” (Maturana e Varela 1992, p.169).
Il linguaggio è però anche lo strumento che consente di
creare significati comuni, mondi comuni da condividere nella relazione
intersoggettiva. In altri termini, “ci realizziamo in un mutuo accoppiamento
linguistico, non perché il linguaggio ci permette di dire quello che siamo, ma
perché siamo nel linguaggio, in un continuo essere immersi nei mondi
linguistici e semantici con cui veniamo a contatto” (Ivi, p. 197).
Il linguaggio ha luogo quindi nello spazio relazionale, il
nostro essere uomini ha luogo nello spazio sociale, si forma cioè in quella
infinita trama di relazioni che contribuiamo a costruire con gli altri e col
mondo. Tuttavia il linguaggio è anche lo strumento che utilizziamo per le
nostre spiegazioni e per le descrizioni della nostra esperienza, cioè è il
luogo in cui noi emergiamo come osservatori.
Come si vede, una logica circolare e ricorsiva regge tutto
il discorso di Maturana. Gli esseri umani esistono in un dominio di oggetti
realizzato attraverso l’agire linguistico e, nello stesso tempo, esistendo come
osservatori in quel dominio, sono in grado di spiegare le diverse circostanze
della vita, facendo riferimento al loro stesso agire entro un dominio di
accoppiamento strutturale dinamico. Questo significa che, “benché esistiamo
come esseri umani nel linguaggio e dunque i nostri domini cognitivi (domini di
azioni adeguate) hanno luogo nel dominio dell’agire linguistico, questo agire
linguistico si attua attraverso il nostro funzionamento come sistemi viventi”
(Ivi, p. 81).
Il linguaggio rappresenta dunque la cifra principale del
nostro modo di essere e del nostro modo di autoformarci; rappresenta la nostra
via dell’autopoiesi. Questo fa comprendere chiaramente perché Maturana dedichi
ad esso un’attenzione specifica, che meriterebbe una trattazione a parte e più
articolata. Come premesso, non è tuttavia mia intenzione soffermami
ulteriormente su questo argomento “in particolare”, intendo piuttosto
concentrare la mia riflessione sulla “logica” dell’autopoiesi come “linguaggio”
degli esseri viventi.
“Autopoiesi” è un termine di derivazione greca che significa
autoproduzione; è un termine che Maturana ha coniato insieme a Francisco
Varela, un suo allievo, dal quale successivamente ha preso le distanze,
continuando a sviluppare autonomamente la propria riflessione. La teoria è nata
dall’esigenza di fondo, biologica ed epistemologica, di trovare una risposta
precisa e rigorosa alla domanda sulla natura dell’organizzazione dei sistemi
viventi. Nel tentativo di fornire un’adeguata e soddisfacente soluzione al
problema, Maturana è giunto all’elaborazione di un pensiero che ha avuto importanti
risvolti non solo in ambito biologico, ma anche in quelli filosofico,
epistemologico, antropologico, pedagogico ed etico, che lo hanno iscritto
all’interno di quello scenario dell’epistemologia contemporanea, che rinuncia
ad ogni pretesa riduzionista abbracciando una visione complessa del reale,
facendo propria l’immagine metaforica della rete e del circolo, in cui non ci
sono parti più importanti di altre, ma dove tutto è interconnesso e
interdipendente.
La teoria dell’autopoiesi si fonda sul concetto
imprescindibile di “auto-organizzazione”, un termine che ha acquistato tutta la
sua potenza esplicativa con la Cibernetica, con i cui teorici Maturana era
presto entrato in contatto. Come ha riconosciuto Edgar Morin, infatti, le
“virtù cibernetiche” consistono essenzialmente nell’aver fatto nascere “la
prima scienza generale (fisica) avente per oggetto l’organizzazione” (Morin
2001, p. 287).
Questa scienza, sorta nei primi anni Cinquanta del
Novecento, e battezzata “arte del pilota o del timoniere” da Norbert Wiener che
ne viene considerato il fondatore, edificava una nuova “causalità circolare”,
la retroazione. L’assimilazione degli organismi alle macchine era stata
suggerita ai cibernetici dalla constatazione che entrambi si caratterizzano per
la capacità di compiere azioni sul mondo, per il fatto cioè di “funzionare”
come entità capaci di organizzazione. I cibernetici inizialmente credevano che
fosse possibile assimilare totalmente il comportamento delle macchine a quello
degli organismi, perché entrambi si fondano su processi di autoregolazione.
L’auto-organizzazione, come si è detto, è l’elemento
basilare su cui poggia il concetto di autopoiesi, che Maturana elabora a
partire dalle sue indagini sulla percezione del colore negli animali,
attraverso le quali giunge ad una scoperta da lui stesso definita
“straordinaria”: il sistema nervoso è costituito da un’organizzazione
circolare, funziona cioè come una rete chiusa di interazioni. Lo scienziato
comprende che questo schema a intreccio, in cui ogni componente ha la funzione
di aiutare a produrre e a trasformare gli altri componenti, mantenendo nel
contempo la circolarità globale del sistema, costituisce la forma di
organizzazione del vivente. Questo significa che “è la circolarità della sua
organizzazione che rende un sistema vivente un’unità di interazioni, ed è
questa circolarità che esso deve mantenere per rimanere un sistema vivente e
per conservare la sua identità attraverso differenti interazioni” (Maturana e
Varela 1985, p. 55). Gli esseri viventi funzionano come il sistema nervoso,
come una rete autonoma capace di auto-prodursi, di auto-organizzarsi, di
auto-formarsi finché sopravvivono in un processo che dura tutta la vita. Il loro
linguaggio, dunque, è circolare.
Questa scoperta, da un lato, ha posto l’accento sulla
caratteristica essenziale dei sistemi viventi, ovvero sulla loro natura
auto-organizzativa e auto-produttrice, appunto auto-poietica; dall’altro, ha
segnato una svolta radicale in ambito epistemologico, portando ad intendere la
conoscenza come continua produzione di senso, attraverso il processo del
vivere, un processo che è, al tempo stesso, azione di ri-strutturazione della
realtà e di auto-formazione del soggetto.
Per Maturana, infatti, come sistemi autopoietici molecolari,
i sistemi viventi esistono in una dinamica continua di cambiamenti strutturali
generata internamente, che è modulata soltanto per mezzo dei cambiamenti
strutturali che si scatenano in essi per mezzo delle loro interazioni nel medium
in cui esistono come totalità (Maturana 1997, p. 43).
Per chiarire meglio questi concetti, egli ha posto una netta
distinzione tra organizzazione e struttura: la prima riguarda le relazioni tra
i componenti di un sistema che ne definiscono l’appartenenza ad una specifica
classe e che ne costituiscono, quindi l’identità, a prescindere dai reali
componenti di cui esso è formato; la seconda, invece, rappresenta, per così
dire, l’incarnazione dell’organizzazione, cioè il suo particolare modo di concretizzarsi,
con riferimento ai specifici componenti che la costituiscono. Pertanto,
l’organizzazione deve rimanere necessariamente immutata, pena la
disintegrazione del sistema, mentre la struttura è dinamica, può variare da un
sistema all’altro e anzi, in uno stesso sistema, deve subire continui
cambiamenti per garantire il mantenimento dell’organizzazione di fronte agli
stimoli ambientali.
I sistemi autopoietici sono sistemi chiusi, autonomi, perché
subordinano tutti i loro cambiamenti strutturali alla conservazione della
propria organizzazione, ma sono anche sistemi aperti, perché il loro comportamento
è influenzato dalle perturbazioni dell’ambiente. La nozione di chiusura si
riferisce, dunque, all’organizzazione, mentre la nozione di apertura si riferisce
alla struttura. La capacità di adattamento, di auto-trasformazione, al fine di
conservare la propria organizzazione, è il meccanismo attraverso cui i sistemi
autopoietici regolano la loro apertura al medium.
Valentina De Angelis ha rilevato opportunamente che “la
chiusura garantisce la capacità di un sistema di integrare il cambiamento e di
conservare la propria autonomia, di trasformarsi senza distruggersi” (De
Angelis 1996, pp. 50-51).
I sistemi viventi possono dunque realizzarsi attraverso
differenti strutture dinamiche e in continua trasformazione, senza perdere la
propria natura: lo schema di organizzazione, infatti, determina la loro
identità e le loro caratteristiche essenziali, la struttura ne determina invece
il comportamento. Questo dà ragione del modo in cui Maturana intende il
rapporto tra organismo e ambiente, i quali, a parer suo, si influenzano a
vicenda, innescando, ma non determinando, reciproci cambiamenti strutturali:
“Un sistema vivente, finché vive, è in relazione di corrispondenza dinamica con
il medium attraverso il suo funzionamento nel dominio d’esistenza. Vivere è
scivolare attraverso un dominio di perturbazioni in una deriva ontogenetica che
si attua con la realizzazione di una nicchia in perenne trasformazione”
(Maturana 1993, pp. 61-62).
In questa particolare prospettiva, si giustificano anche
processi come la selezione, l’adattamento e l’evoluzione: “I sistemi viventi,
interagendo in maniera ricorrente tra di loro ed anche con il medium
non-biotico, formano necessariamente sistemi co-ontogenetici e co-filogenetici
di derive strutturali intrecciate, che durano fino a quando essi conservano la
loro autopoiesi attraverso i loro accoppiamenti strutturali reciproci. Questa è
l’evoluzione biologica” (ivi, pp. 63-64).
Alla base di tutto questo, lo scienziato pone il fenomeno
dell’accoppiamento strutturale (Maturana 1993, p. 34), in base al quale
un’unità può entrare in interazione col proprio ambiente solo se tale
interazione non è distruttiva, e solo se la struttura dell’ambiente e quella
dell’unità interagiscono come reciproche sorgenti di perturbazioni.
Da questo particolare punto di vista, l’adattamento è dunque
una continua lotta per la sopravvivenza, pertanto, “organismo e ambiente
scatenano reciproci cambiamenti strutturali all’interno dei quali restano
reciprocamente congruenti, in modo che ognuno si sottrae allo scontro con
l’altro, seguendo le dimensioni che conservano organizzazione e adattamento; in
caso contrario l’organismo muore” (Maturana e Devila 2006, p. 72).
L’organismo attraversa quindi una continua trasformazione e
percorre “un mcontinuo processo di divenire che è specificato attraverso una
sequenza senza fine di interazioni con entità indipendenti che scelgono i suoi
cambiamenti di stato ma non li specificano” (Maturana 1993, p. 84).
Maturana ha definito i sistemi viventi “sistemi cognitivi”,
identificando la cognizione con il processo stesso del vivere e la conoscenza
con il funzionamento del sistema vivente, nel suo dominio di accoppiamento
strutturale, cioè nel suo dominio d’esistenza. La cognizione è dunque
interpretata come un fenomeno biologico che si attua in un sistema vivente
mentre e fino a quando esso funziona nel suo dominio di perturbazioni, è un
processo che coinvolge l’intero regno vivente, si estende cioè a tutti i livelli,
dagli unicellulari all’uomo.
Ogni atto cognitivo, infatti, dipende dalla struttura
dell’organismo che non si limita a reagire passivamente agli stimoli
ambientali, ma risponde con un’azione, con un comportamento, con “cambiamenti
strutturali” che sono “intelligenti”, perché specificano quali perturbazioni
provenienti dall’esterno innescano in esso i mutamenti, senza che egli perda la
propria organizzazione autopoietica. Questo vuol dire, che “i sistemi viventi
sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di
cognizione” (ib.). La cognizione, allora non è una rappresentazione di un mondo
che esiste indipendentemente dal soggetto, ma è piuttosto la continua
generazione di un mondo tramite il processo della vita” (Capra 1997, p. 295). Vivere
è conoscere. Maturana definisce i sistemi autopoietici “strutturalmente
determinati”, ma il termine determinismo non è sinonimo di “oggettività”, di
staticità immodificabile e non implica affatto una limitazione definitiva,
significa semplicemente che noi “siamo così. Siamo sistemi determinati nella
nostra struttura, e ciò che ci accade nelle nostre interazioni è
costitutivamente determinato in noi” (Maturana 1995, p. 193).
Questo vuol dire che le nostre interazioni scatenano
cambiamenti, determinati dalla nostra struttura, da come essa è in quel
momento, frutto di un processo storico particolare, perché è solo nostro e ci
identifica; vuol dire che tutti i fenomeni umani, tutte le nostre esperienze,
devono essere spiegati a partire da questo.
Pertanto, il determinismo strutturale non è affatto, come
potrebbe sembrare, una restrizione, ma, al contrario, “è la nostra condizione
di possibilità” (ib.).
L’organizzazione circolare auto-referente di un sistema
vivente specifica quel particolare dominio di interazioni che costituisce il
suo dominio cognitivo, e nessun’altra interazione è possibile per esso che non
sia prescritta dalla sua organizzazione.
Questo vuol dire ancora una volta che vivere è conoscere. Il
sistema nervoso allora non crea cognizione, ma estende, per così dire, il
dominio cognitivo degli organismi che ne sono dotati, perché aumenta la
possibilità di interazione.
Cambia anche il concetto di apprendimento che non è inteso
come un processo di accumulazione di rappresentazioni dell’ambiente, ma è “un
continuo processo di trasformazione del comportamento attraverso il continuo
cambiamento nella capacità del sistema nervoso di sintetizzarlo” (Maturana e
Verala 1985, p. 96).
Muta anche il concetto di realtà, che non viene dedotta come
un dato, ma dipende dal percettore, “non perché il percettore la costruisce
secondo la propria fantasia, ma perché ciò che viene considerato come mondo
pertinente è inseparabile dalla struttura del percettore” (AA.VV. 1994, p.
151).
Il processo di interazione col mondo, dunque, è un processo
cognitivo, di creazione incessante, in cui si verifica una continua
modificazione, non solo sul mondo, ma anche sul soggetto che lo osserva e che
lo conosce. “Quando ci troviamo in interazioni ricorrenti nella convivenza,
cambiamo in maniera congruente con la nostra situazione, con l’ambiente, e in
senso stretto niente è aleatorio, perché tutto ci capita in un presente
interconnesso che si va generando continuamente come trasformazione del campo
di congruenze cui apparteniamo” (Maturana e Devila 2006, p. 76).
Da queste affermazioni si comprende come Maturana tenga a
sottolineare il carattere peculiare della cognizione, il suo essere fondata
sull’attività concreta dell’intero organismo. Inoltre, “ogni cosa detta è detta
da qualcuno” (Maturana e Varela 1992, p. 45). Questo è uno degli aforismi
chiave dell’epistemologia dello scienziato cileno, che ha contribuito a
ridefinire alcuni dei concetti fondamentali su cui si era fondato il pensiero
classico: il rapporto causa-effetto, che egli ha sostituito con una causalità
di tipo circolare, ispirata al feedback dei cibernetici e posta alla base delle
reti autopoietiche; il ruolo dell’osservatore, cui egli ha ridato vigore, rendendolo
elemento costitutivo di ogni conoscenza e fondando quella che lui ha definito
ontologia dell’osservatore, che sancisce il crollo del paradigma
dell’oggettività, ponendola definitivamente tra parentesi.
Maturana prospetta dunque il passaggio, da una visione
universale della realtà, unica e uguale per tutti, ad un “multiversum”, nel
quale ci sono tanti domini di realtà quanti sono i domini di coerenze
esperenziali dell’osservatore.
Il soggetto è costitutivamente partecipe di ciò che osserva,
non è più l’osservatore imparziale, il fotografo distaccato e impassibile di
fronte a ciò che lo circonda, come voleva la scienza classica. L’autore cileno
si trova pertanto in perfetta sintonia con i risvolti avvenuti in ambito
scientifico ed epistemologico d’inizio secolo, i quali hanno chiaramente
dimostrato che la realtà nella quale viviamo è co-dipendente al nostro modo di
ordinarla e che la scienza “non può parlare semplicemente della natura ‘in sé’,
ma presuppone sempre l’uomo e noi, come ha suggerito Niels Bohr, dobbiamo
prendere coscienza del fatto che nello spettacolo della vita non siamo solo
spettatori, ma anche costantemente attori” (Heisenberg 1985, p. 42-43).
Così, “per la prima volta nella storia l’uomo ha di fronte a
sé solo sé stesso” (ivi, p. 49), e “il sogetto-osservatore sorprende il suo
stesso volto nell’oggetto della sua osservazione” (Morin 2001, p. 440). Questo
avviene proprio perché si comprende sempre di più il fatto che “ciò che
osserviamo non è la natura in sé stessa, ma la natura esposta ai nostri metodi
d’indagine” (Heisenberg 1998, p. 72). In sintonia con tutto questo, Maturana fa
ruotare la sua riflessione attorno al soggetto, infatti “ogni esperienza
conoscitiva coinvolge colui che conosce in un modo personale, radicato nella
sua struttura biologica” (Maturana e Varela 1992, p. 38). L’oggettività perde
così il suo fondamento, come ha scritto Heinz von Foerster, “quando percepiamo
il nostro ambiente, siamo noi stessi ad inventarlo” (von Foerster1987, p. 215),
perché “percepire è fare” (Ivi, p. 217).
Se questo è vero,
bisogna avere il coraggio di ammettere che non esistono verità oggettive e
assolute, che possono essere semplicemente acquisite dal mondo esterno, e che
la particolare maniera in cui si percepiscono gli oggetti è visceralmente legata
all’osservatore vivente.
Un discorso analogo, nell’ambito della cultura spagnola da
cui Maturana proviene, lo aveva fatto anche Ortega y Gasset, affermando che
“ogni vita è un punto di vista sull’universo” (Ortega y Gasset 1994, p. 134),
pertanto “ogni conoscenza è conoscenza da un punto di vista determinato” (ib.).
Anche Maturana ha sottolineato l’irriducibile molteplicità
dei punti di vista, evidenziando il fatto che “nessun sistema assoluto di
valori è possibile e tutte le verità e le falsità nel dominio culturale sono
necessariamente relative” (Maturana e Varela 1985, pp. 108-109).
L’autore cileno definisce la conoscenza “azione adeguata”, a
tutti i livelli di realtà. Nel caso degli esseri umani, il discorso non cambia,
cambia solo il dominio in cui si agisce; l’azione sul mondo costituisce un atto
cognitivo che avviene nel dominio linguistico, attraverso il quale si
costruisce un mondo di significati insieme agli altri uomini. Il linguaggio,
come si è detto all’inizio, è infatti per Maturana un modo particolare di
vivere uniti nella coordinazione del fare. Con il sorgere del linguaggio
compare l’osservatore, che, attraverso interazioni consensuali con gli altri
uomini, specifica un mondo di oggetti “comuni”.
Il cerchio a questo punto si chiude e si comprende meglio il
senso del pensiero “complesso” di un autore, in cui tutti i singoli tasselli
trovano collocazione, incastonati in un’unica cornice di senso e armonicamente
interconnessi, come i nodi di una rete. L’autopoiesi è la chiave per
comprendere ogni forma vivente, perché ne costituisce l’organizzazione. È un
processo di autoformazione “intelligente” che sta alla base del processo
cognitivo e che coinvolge l’intera vita, traducendosi in “azione adeguata” sul
mondo.
Questo comporta, per l’uomo, importanti conseguenze sul
piano etico, comporta cioè una responsabilità che Maturana estremizza
riconducendola ad ogni singola azione quotidiana: “Ogni atto umano ha senso
etico. Questo legame fra gli esseri umani è in ultima analisi il fondamento di
ogni etica come riflessione sulla legittimità della presenza dell’altro”
(Maturana e Varela 1992, pp. 204). Il processo cognitivo non è, quindi, una
semplice teoria, ma si concretizza in azione concreta di cui siamo
assolutamente responsabili, “giacché tutte le nostre azioni, senza eccezione,
contribuiscono a formare il mondo in cui esistiamo e a cui diamo valore proprio
tramite esse, in un processo che costituisce il nostro divenire” (Ivi, p. 205).
Bisogna dunque seguire il percorso esplicativo
dell’oggettività tra parentesi dove non esiste la verità assoluta ma numerose
verità differenti valide in ambiti distinti. Bisogna evitare di cristallizzarsi
su posizioni definitive e aprirsi al dialogo responsabile, bisogna impedire
cioè, come ha scritto Ortega “che ciò che è un morbido e dilatabile orizzonte
si paralizzi diventando un mondo” (Ortega y Gasset 1994, p. 136).
La conclusione di Maturana, è inequivocabile: “La responsabilità
umana nei multiversi è totale” (Maturana 1993, p.126).
In considerazione di ciò, bisogna riconoscere la legittimità
dell’altro anche nel disaccordo, nella consapevolezza che il mondo che ciascuno
di noi vede è solo uno dei mondi possibili con cui veniamo a contatto insieme
agli altri uomini.
Quello di Maturana è dunque un invito al dialogo reale e
concreto, è un invito al confronto e all’apertura verso l’altro, al rispetto e
alla scelta responsabile. In quanto esseri viventi, esseri molecolari, autopoietici,
siamo esseri autonomi, “chiusi”, se si vuole utilizzare questo termine, “ma nel
vivere non lo siamo” (Ivi, p. 40). Di conseguenza, “quello che resta da fare,
allora, è la ricerca di una prospettiva più ampia, di un dominio di esperienza
in cui anche l’altro abbia un posto e nel quale possiamo costruire un mondo con
lui” (Maturana 1992, p. 203).
Il linguaggio cognitivo dell’autopoiesi assume dunque anche
una dimensione etica che apre nuovi orizzonti e che prefigura nuove forme di
interazioni sociali, conferendo al discorso di Maturana una concretezza e una
autorevolezza degne di ulteriori riflessioni.
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