Senza recinti
Senza recinti
Una bella riflessione di Alessandro Barbano che tratta in concreto di sperimentare la prospettiva del compromesso come il contenuto stesso dell’offerta politica e di costruire, su queste basi, una pedagogia e una retorica attraverso cui tornare a comunicare al Paese che noi siamo quelli che si riconoscono nel dialogo e nella sintesi tra la cultura liberale, la cultura cattolica e la cultura riformista, ma non siamo più nessuna di queste culture prese singolarmente.
Le culture presenti nel nostro Paese non sono solo quelle che indica Barbano e se concordo con lui sulla necessità di quello che lui chiama dialogo tra le culture (ed che io chiamo conversazione tra persone ognuna con una cultura) osservo allo stesso tempo la contrapposizione che lo stesso Barbano descrive tra questo compromesso tra cattolici, liberali e marxisti e quella che lui distingue come cultura populista e sovranista.
Insomma quei vecchi recinti cattolici, liberali e marxisti che sono stati in lotta l’uno contro l’altro per la conquista del potere non dovrebbero lottare più tra loro in favore di una “Santa Alleanza” contro il nemico comune.
Se invece Barbano abbandonasse la cultura della competizione ecco che emergerebbe prepotentemente quella della collaborazione tra tutti, “NESSUNO ESCLUSO” che io da questo diario Facebook e dal mio Blog da un anno auspico.
Le culture presenti nel nostro Paese non sono solo quelle che indica Barbano e se concordo con lui sulla necessità di quello che lui chiama dialogo tra le culture (ed che io chiamo conversazione tra persone ognuna con una cultura) osservo allo stesso tempo la contrapposizione che lo stesso Barbano descrive tra questo compromesso tra cattolici, liberali e marxisti e quella che lui distingue come cultura populista e sovranista.
Insomma quei vecchi recinti cattolici, liberali e marxisti che sono stati in lotta l’uno contro l’altro per la conquista del potere non dovrebbero lottare più tra loro in favore di una “Santa Alleanza” contro il nemico comune.
Se invece Barbano abbandonasse la cultura della competizione ecco che emergerebbe prepotentemente quella della collaborazione tra tutti, “NESSUNO ESCLUSO” che io da questo diario Facebook e dal mio Blog da un anno auspico.
Antonio Bruno Ferro
MANIFESTO PER UNA DEMOCRAZIA LIBERALE DOTATA DI UN FUTURO
Come superare l’errore di fondo del “tutti contro i populisti” che dal 4 marzo tiene in stallo l’Italia. Sei coordinate per costruire un campo di idee, superando le piccole identità
di Alessandro Barbano
C’è un errore di fondo nella fittizia e impotente
alleanza del “tutti contro Salvini e
Di Maio”, e poi del “tutti contro Salvini”, che
tiene in stallo la democrazia italiana dal 4 marzo
2018 e che rischia di replicarsi alla vigilia di
nuove elezioni. E’ l’idea adolescenziale di costruire
consenso sul destruens, cioè sulla critica
radicale di un nemico comune. Racconta
una politica svuotata di ogni cultura politica.
Non a caso si ferma a una censura dell’avversa -
rio sostenuta da una mera condivisione tattica,
mai strategica. Per quanto divisi su tutto, i litigiosi
soci della maggioranza gialloverde hanno
potuto richiamarsi, almeno fino alla rottura, al
fantasma di un contratto di governo. Tutti quelli,
che gialloverdi non sono, tra di loro non hanno
fin qui dialogato e non si sono riconosciuti,
né nelle sedi parlamentari né in quel che resta
delle relazioni tra le segreterie dei partiti.
Hanno perpetrato un disconoscimento che ha
segnato il quarto di secolo della defunta Seconda
Repubblica.
Eppure tra di loro c’è chi adesso enfatizza
il pericolo del consolidarsi di un potere populista
dai tratti marcatamente autoritari,
paventando una regressione della democrazia
italiana verso forme illiberali. E’ strano
che questa preoccupazione non suggerisca
nessun passo concreto per cercare e condividere
punti di vista comuni nel campo che, a
torto o a ragione, si ritiene “non populista”. I
due principali soggetti di quest’area, il Partito
democratico e Forza Italia, sono sostanzialmente
rimasti arroccati dentro l’assetto
che aveva caratterizzato la loro storica contrapposizione
bipolare. Come se la democrazia
italiana fosse ancora maggioritaria. E, soprattutto,
come se il 4 marzo 2018 non fosse
accaduto nulla. Nessun confronto esterno, se
si eccettua i contatti delle ultime ore tra chi
vorrebbe impedire il ritorno al voto all’inse -
gna di un tatticismo disperato. Nessun autentico
sforzo trasformativo al loro interno. La
crisi di consenso li ha svuotati di energie vitali
e li ha paralizzati. Il Pd e Forza Italia a
quasi un anno e mezzo dalle ultime elezioni
sono morti viventi. Lo sanno bene anche quei
dirigenti democratici che pure hanno brindato,
il giorno delle Europee, alla pioggerellina
di voti piovuti nel loro recinto, come rimbalzo
di una tempesta che ha investito la leadership
di Di Maio. Non a caso il dibattito che
si è aperto all’interno riguarda, tra un’abiura
e un occhieggiare più o meno esplicito ai Cinque
stelle, il destino delle future alleanze e
non la sostanza dell’offerta riformista. Allo
stesso modo il conflitto che si è aperto nell’universo
berlusconiano riguarda il tentativo
di sottrarre con le primarie il potere di designazione
al vecchio leader, trasformandolo
in un innocuo padre nobile, mentre è marginale,
se non inesistente, la preoccupazione
di ridefinire il contenuto dell’offerta liberale
distinguendola da quella della destra salviniana.
La democrazia, che i partiti tradizionali
s’intestano, è muta. E, quando non è muta,
parla ma non dice. Perché o è senza idee, o
è reticente. Non a caso è scomparsa dal radar
del dibattito pubblico. Se pure avanza timidamente
con la parvenza di una qualche proposta,
basta una battuta del populista di turno
a farla ripiombare nell’irrilevanza.
Ma pure chi sta o si sente fuori dal populismo
e dagli sconfitti dal populismo commette
spesso un errore che è figlio dei tempi. Riconosce
la consustanziale identità di Salvini e
Di Maio. Disconosce il loro comune assistenzialismo,
statalismo, pauperismo, dirigismo
e giustizialismo. Crede che sia possibile un
racconto altro del paese, diverso da quello
“per estremi” dei due populismi di governo.
Intuisce che questo racconto vada costruito
oltre il recinto dei contenitori politici attualmente
sul campo. Ma sbaglia pensando di poterlo
proporre a partire dalla propria identità.
Così di questi tempi ritorna l’idea di rifare
la Democrazia cristiana, di rilanciare il partitino
dei liberali, di rispolverare il Craxismo,
di resuscitare il Renzismo, di inventare
il Calendismo, e chi più ne ha più ne metta.
Questa tentazione diffusa si fonda sulla convinzione
che sia possibile occupare con una
proposta alternativa al populismo uno spazio
indistinto che si apre al centro della contrapposizione
tra la Lega da una parte e i Cinque
stelle e il Pd dall’altra. E’ anzitutto un errore
tattico. Con una metafora calcistica potremmo
definirlo come il tentativo di puntare sull’uno
contro uno per bucare una difesa avversaria
arroccata in catenaccio, dribblando
tutti gli avversari per giungere alla porta.
Nessun Maradona della politica da solo oggi
potrebbe farcela. Riuscì a Berlusconi nel ’94,
ma contro un vecchio quadro partitico in disfacimento
e grazie a mezzi finanziari che raramente
la storia consegna a un capo politico.
Ma riuscì, soprattutto, perché il tycoon fece
della sua offerta liberale il punto di incontro
di culture diverse, presenti nella politica
e nella società italiana. Oggi questo sforzo di
sintesi pare assente in tutte le iniziative che
da più parti sembrano prendere corpo e annunciare
un nuovo soggetto politico, salvo
poi repentinamente fare marcia indietro. Da
Renzi a Parisi, passando per Calenda, dai socialisti
ai liberali, passando per i cattolici,
tutte le novità fin qui immaginate o immaginabili
patiscono di quello che potremmo definire
un deficit di rappresentatività. Parlano
a segmenti molto limitati della società italiana
e rischiano perciò di tradursi nelle urne
in fenomeni definibili da “zero virgola”.
Questa tentazione di professare una propria
identità antipopulista per fermare il populismo
è ciò che, purtroppo, può allungargli
la vita. Risponde a un riflesso contrappositivo
presente nella cultura politica di un paese
che viene da venticinque anni di bipolarismo
aggressivo. E accende di questi tempi l’illu -
sione di individuare tra le sacche di resistenza
del sistema politico o della società civile
l’anti Salvini che può ribaltare il corso della
storia. E’ lo stesso atteggiamento mentale che
ascrive la crisi delle opposizioni a una mancanza
di leadership. In realtà questo schema
duplica, in parziale inconsapevolezza, le
semplificazioni del populismo in una sua
brutta copia, priva peraltro, come tutte le
brutte copie, di qualunque forza seduttiva.
Cosicché l’anti Salvini è destinato a non arrivare
mai.
La sfida al populismo invece deve iniziare
dalla complessità che il populismo vuole ridurre.
Ciò vuol dire in primo luogo rivalutare
un istituto chiave della democrazia rappresentativa:
il compromesso. E’ il metodo per
rimettere in connessione alcune culture senza
voce del paese: i liberali, i cattolici e i riformisti,
con tutti gli accenti e le sfumature
che questi pensieri portano con sé. Ma è anche
una prima chiara differenza di segno rispetto
al populismo: perseguire il compromesso
come la sostanza di una propria offerta
politica significa tornare a far coincidere
l’identità con la rappresentatività. Che vuol
dire: noi siamo anzitutto quelli che si riconoscono
nel dialogo e nella sintesi tra la cultura
liberale, la cultura cattolica e la cultura riformista.
Ma non siamo più nessuna di queste
culture prese singolarmente. E ancora: noi
intendiamo con questo confronto rifondare il
patto rappresentativo che, disfacendosi, ha
aperto la strada alla nascita del populismo.
Tuttavia, se il compromesso è la forma e la
sostanza prima del mettere in dialogo liberali,
cattolici e riformisti, a quali risultati questo
dialogo approda? La risposta a questa domanda
è ineludibile se si vuole davvero costruire
un racconto della democrazia diverso
e alternativo a quello per estremi del populismo.
Formuliamola a partire dalla storia e
dalla geografia politica del nostro tempo: noi
siamo quelli che danno un giudizio critico
ma sostanzialmente positivo di due fenomeni
che segnano la contemporaneità: la globalizzazione
e l’Europa. E qui sta una prima netta
differenza con i populisti, i quali tutti, di destra
o di sinistra, della globalizzazione e dell’Europa
offrono un giudizio ugualmente liquidatorio.
Il populismo imputa alla globalizzazione
la crescita delle diseguaglianze e
all’Europa la morte della sovranità popolare.
Proviamo allora a definire un punto vista
comune alle culture che abbiamo messo in
dialogo rispetto ai due fenomeni. Se la globalizzazione
ha portato in venti anni la povertà
assoluta nel mondo da due miliardi a 800 milioni
di persone, se questa riduzione della
povertà è concentrata in aree del pianeta diverse
dall’Europa, se pure in Europa il potere
d’acquisto del cosiddetto ceto medio è diminuito,
non tanto rispetto a ciò che si ha,
quanto rispetto a ciò che si aspira a possedere,
se insomma tutta questa complessità ha
messo in crisi la democrazia liberale, i liberali,
i cattolici e i riformisti devono maledire
la globalizzazione o devono piuttosto sostenerla,
correggendone alcuni suoi effetti paradosso
e alcuni eccessi? La risposta è scontata.
E definisce la frontiera dove finisce la
democrazia e inizia il populismo. C’è nella
cultura liberale, cattolica e riformista una
quota di irriducibile cosmopolitismo che áncora
il giudizio di un’offerta politica all’avan -
zamento universale della condizione umana,
che legittima l’anelito a promuovere il modello
democratico e che impone di considerare
il problema della solidarietà pregiudiziale
rispetto a qualunque progetto politico e
civile. Il giudizio sulla globalizzazione non
può sfuggire a queste coordinate.
Allo stesso modo il giudizio sull’Europa
non verte sui vincoli imposti dall’esterno alla
nostra sovranità, ma anzitutto sulla responsabilità
che il paese assume verso le generazioni
future ed entro la quale va perseguito
l’interesse nazionale. Tale responsabilità è
tutt’uno con il nostro modo di intendere la
delega democratica. Questa non si esaurisce
nel voto, perché la legittimazione popolare,
per ampia che sia, non definisce per intero il
perimetro della sovranità. Che non è una scatola
vuota da riempire con le maggioranze di
turno, ma tiene insieme, invece, potere e sapere,
parlamenti e istituzioni non elettive, in
un bilanciamento che è la sostanza del patto
europeo, la forma più evoluta di democrazia
che si conosca. Non a caso la democrazia europea
è detta rappresentativa, in un senso
che il populismo non comprende e cerca perciò
di ridurre alla difesa di interessi di parte
e del momento, da perseguire contro il nemico
di turno.
Il giudizio sulla globalizzazione e sull’Eu -
ropa traccia una prima linea di demarcazione
tra la politica che vive e muore nel presente
e quella protesa verso il futuro. Ma per
quanto netta sia la distinzione tra queste due
prospettive, una nuova alleanza tra liberali,
cattolici e riformisti non può fermarsi ad essa.
Non può fermarsi a condividere una carta
degli ideali. Deve dare risposte complesse,
ma credibili, a problemi specifici del nostro
paese che il populismo taglia con l’accetta e
affronta con le sue false verità. E che qui di
seguito proveremo a tracciare in sintesi.
Il primo di questi problemi è connesso con
la nostra appartenenza all’Europa e riguarda
il modo con cui la politica economica affronta
il fardello del debito pubblico. La sua
riduzione, prima ancora che ai vincoli del
patto di stabilità, risponde all’obiettivo di ricomporre
una frattura generazionale che si è
aperta nella nostra società. Dichiarare questa
priorità significa segnare un prima necessaria
discontinuità da un’offerta politica distributiva
fondata su promesse non sempre
mantenibili, o mantenute perché finanziate
in deficit e caricate sul destino delle generazioni
future. Ma significa anche assumere un
impegno duplice: da una parte a ridurre la
spesa pubblica, totem intangibile di tutte le
politiche degli ultimi decenni, e dall’altra a
investire sulla crescita strutturale, sulla difesa
e promozione del capitale umano, sullo
spostamento della protezione sociale dai padri
ai figli e sulla riduzione del divario tra il
sud e il nord.
Senonché il taglio della spesa e le misure
per lo sviluppo sono due obiettivi potenzialmente
confliggenti o piuttosto convergenti, a
seconda del modo in cui si declinano. Se lo
statalismo populista li pone in aperta contraddizione,
ciò che può armonizzarli è uno
spirito riformatore che punti a ripristinare
una dialettica virtuosa tra pubblico e privato,
attraverso un arretramento dello stato
nell’economia. Di questo spirito, presente
nella tradizione del loro pensiero, liberali,
cattolici e riformisti laici sono chiamati a fornire
una sintesi. La stessa auspicata riduzione
delle tasse ha un senso solo se non è l’og -
getto di una mera promessa distributiva a favore
di determinate categorie – “far pagare
meno tasse a un bel po’ di gente”, come dice
Salvini –, ma se si collega alla liberazione di
energie che da un centro pubblico vanno verso
la società. Rimettere in moto questo flusso,
nella giusta misura e nella direzione di
una maggiore giustizia sociale, è la sfida che
abbiamo di fronte. E che il populismo ha del
tutto mancato.
Ma la responsabilità che la democrazia liberale
italiana deve assumere verso l’Euro -
pa riguarda anche l’impegno a costruire alleanze
per rimettere le politiche pubbliche,
nazionali e soprattutto sovranazionali, in
connessione con il ciclo economico, gestire
gli choc proteggendo le fasce più deboli e
promuovere la crescita e l’inclusione. Questo
impegno è credibile se muove da un’analisi
equilibrata e condivisa dei limiti e degli errori
tanto della costruzione europea, quanto
del ruolo che in questo processo ha giocato il
nostro paese e la sua classe dirigente.
Il secondo problema riguarda la riforma
dello stato, storica incompiuta della politica
italiana, a cui ha fatto seguito l’anarchia costituente
della maggioranza gialloverde, che
ha espropriato il Parlamento e lo stesso governo
della sua potestà decisionale, sostituendoli
con una diarchia pattizia e personalistica
che ha avuto per lungo tempo protagonisti
i leader dei due partiti di maggioranza.
Il punto di originalità e di convergenza tra liberali,
cattolici e riformisti è la ricomposizione
della delega: verso questo obiettivo va
indirizzata tanto una riforma dei poteri,
quanto la legge elettorale, quanto ancora il
sistema di finanziamento dei partiti e il linguaggio
di una nuova cultura politica. Che cosa
in concreto intendiamo per ricomposizione
della delega? Che la legge elettorale e il
finanziamento della politica, per fare due
esempi, devono rispondere all’obiettivo di ripristinare
un equilibrio tra rappresentatività
e governabilità, ma anche tra potere e sapere.
Perché non sono solo le leve per far funzionare
il sistema, ma anche lo strumento di
selezione e di formazione della classe dirigente
del paese. In concreto una legge elettorale
proporzionale, o maggioritaria, o mista,
non va valutata solo per la sua attitudine a
garantire il pluralismo o piuttosto a produrre
maggioranze stabili, ma anche per la sua capacità
di avvicinare alla politica le energie
migliori della società.
All’obiettivo di restituire alla politica la
maestà perduta si collega anche il recupero
di una visione nazionale, oggi estranea a quasi
tutte le forze presenti in Parlamento. Che
non significa centralismo, ma significa che
qualunque articolazione territoriale di poteri
e di funzioni va disegnata pensando sempre
l’Italia come un intero. Questo racconto
d’insieme impegna liberali, cattolici e riformisti
a ricostruire una pedagogia e una retorica
della responsabilità, capace di contrapporre
all’angustia di un’autonomia differenziata
pattiziamente concordata tra le regioni
più forti e il governo centrale un disegno organico,
in cui c’è spazio per premiare il protagonismo
dei territori, senza perdere l’obiettivo
di riavvicinare un paese diviso. E’
una sfida difficile, da costruire sul piano culturale
prima ancora che politico.
Il terzo problema riguarda la protezione
dell’opinione pubblica contro l’ubriacatura
plebiscitaria della società, diventata malattia
del consenso. Su questo tema di straordinaria
complessità, che non è sintetizzabile in
poche parole, c’è tuttavia una convergenza
naturale tra i liberali, i cattolici e i riformisti.
Riguarda la necessità di rifare le élite, cioè
di rifondare quella delega del sapere che il
populismo ha annientato. Il primo passo di
una reintermediazione civile è una pedagogia
della libertà e della qualità del pensiero,
fondata sul sistema educativo e formativo e
sull’informazione pubblica e privata. Una indifferibile
riforma della Rai s’inscrive pienamente
in questo progetto.
L’investimento sul sapere è da assumere
come un obiettivo di qualunque progetto riformatore
del sistema, ribaltando la china
burocratica che la questione del merito ha
assunto nel paese negli ultimi decenni. Si
tratta di ridefinire il metodo della qualità
nella pubblica amministrazione, nell’acca -
demia, negli ambienti pubblici della ricerca:
il merito deve tornare a essere l’esito e insieme
la ragione legittimante di un’autonomia
decisionale saldamente collocata dentro una
preesistente e condivisa gerarchia del sapere.
Si tratta di riaffidare alla responsabilità
delle élite il compito di riconoscere e tutelare
in concreto i diritti, evitando che il principio
di legalità, fondamento del potere in uno
stato di diritto, si traduca nell’adozione deresponsabilizzante
di regole asettiche e oggettive
e in un controllo ottusamente burocratico,
che peraltro non ha fin qui impedito al familismo
e al nepotismo di infiltrarsi nei meccanismi
di selezione del merito e di piegarli a
opachi interessi. Significa rilegittimare le
posizioni apicali, che nel settore pubblico sono
state espropriate della loro potestà discrezionale
e trasformate in centri di burocrazia
autoreferente, monopolizzati da corpi
intermedi trasformatisi in gruppi corporati -
vi. Significa, ancora, rimettere il magistero,
di qualunque disciplina, nella condizione di
valutare, in piena autonomia e senza conseguenze
giudiziarie, le promozioni nella scala
gerarchica funzionali allo sviluppo della democrazia.
Ciò vuole dire azzerare una narrazione
del paese scritta con il diritto penale e
surrogarla con una retorica pubblica centrata
sulla promozione dei doveri sociali e sull’obiettivo
di valorizzare i talenti e affidare
loro le sorti dell’Italia. E’ un’inversione di
rotta. Un compito difficile ma non impossibile:
sostituire la democrazia dei peggiori, che
nega le differenze in nome dell’egualitari -
smo ma finisce per sortire una giungla di privilegi
non legittimabili, con una democrazia
dei migliori, che riconosce le differenze e áncora
a queste la responsabilità sociale dei
primi nei confronti di tutti.
Il quarto problema riguarda la manutenzione
del rapporto tra diritti e doveri, a cui si
collega l’urgenza di una vera riforma della
giustizia. C’è nella cultura liberale, in quella
cattolica e in quella riformista una premessa
che le accomuna e le distanzia dal populismo
dei tempi: è l’idea che il diritto penale sia l’extrema
ratio della democrazia liberale e non
la sua lingua. Questa premessa è l’architrave
di una visione con cui ridefinire l’assetto e le
regole della giustizia, invertendo la tendenza
di un diritto penale no-limits, la cui pervasività
ha un impatto sociale ed economico non
debitamente considerato. In concreto occorre
convergere su un sistema di diritto sostanziale
che ritorni a mettere il fatto costituente
reato al centro, contro la tentazione dei tem- pi di sostituirlo con il reo, e un diritto processuale
che renda finalmente compiuto il sistema
accusatorio, garantendo così una effettiva
parità delle parti in giudizio. Allo stesso
modo è necessario ridefinire, senza ridurne
l’ampiezza, il senso di quell’indipendenza
del magistrato che una prassi distorsiva ha
tradotto in irresponsabilità, e connettere a
una recuperata responsabilità anche l’obbli -
gatorietà dell’azione penale, senza svuotarne
la funzione di garanzia per il cittadino. La
separazione delle funzioni e delle carriere
tra giudicanti e inquirenti è, di questo progetto,
la naturale conseguenza e non la premessa.
Ma il rapporto tra diritti e doveri è anche
l’occasione di ricostruire una dialettica non
divisiva tra laici e cattolici. Questa è la sintesi
insieme più difficile e più stimolante. Perché
rappresenta la pietra d’inciampo di tutti
i tentativi fin qui compiuti negli ultimi anni
per rimettere in connessione le libertà individuali
con le responsabilità collettive. Temi
come la protezione della famiglia o piuttosto
la promozione delle unioni civili e del matrimonio
gay, l’autodeterminazione e la libertà
di cura o piuttosto i diritti del nascituro, per
fare solo degli esempi, sono diventati il monopolio
di visioni radicali per la rinuncia del
pensiero moderato laico e cattolico ad affrontarli
e a transigere. C’è una frontiera ecologica,
figlia dei tempi, su cui è possibile e
urgente proiettare queste problematiche e
tornare riconoscerle come parte di una relazione
tra diritti e doveri, riannodando l’io al
noi, facendo della sostenibilità la formula
che regola il rapporto tra le aspettative di sviluppo
di una società e la responsabilità che
questa assume nei confronti di chi verrà dopo.
Il quinto problema riguarda il rapporto
con le altre culture, reso urgente dall’impat -
to civile e sociale delle migrazioni nelle nostre
società. La propaganda leghista ha avuto
l’effetto di schiacciare l’intera problematica
nello spazio simbolico del pathos, ribaltando
i rapporti di forza: per una minoranza che
coltiva il dirittismo universalista e cosmopolita
di un’Europa senza frontiere, ignorando
peraltro che non esiste politica senza un’idea
di spazio e che non esiste spazio politico senza
frontiere, c’è oggi in Italia una maggioranza
sovranista che le frontiere pretende di impermeabilizzarle,
ignorando che lì è in gioco
il rapporto tra le civiltà e perfino ciò che resta
della forza spirituale dell’Europa. Tra le
due posizioni estreme c’è il vuoto, cioè l’as -
senza pressoché totale di opzioni intermedie,
non in quanto genericamente terziste,
ma in quanto saldate a una complessità che
non si taglia con l’accetta. Così la polarizzazione
ha indotto quel che resta dei moderati
a inseguire la Lega sui suoi accenti xenofobi.
La sfida di liberali, cattolici e riformisti è
quella di ridefinire la misura della solidarietà,
il cui risultato inclusivo dipende dalla
concreta, e mai illimitata, capacità di accoglienza,
di riconoscimento e di scambio, in
condizioni di sicurezza. Ma questa misura sarà
tanto più saggia e immune ai rovesci della
storia, quanto più frutto di una convergenza
sul senso e sui limiti del dialogo tra culture e
fedi diverse. E qui si tratta di intendersi sulle
condizioni di questo dialogo, cercando un
punto di sintesi tra il cristianesimo e una laicità
non ideologizzata. C’è nelle culture considerate
una parola che, diversamente declinata,
definisce le condizioni di partenza: l’identità.
Si tratta di sottrarla alla storica contrapposizione
tra un modello di derivazione
illuministica, fondato sull’adesione a valori
condivisi, e un altro di derivazione romantica,
fondato sulla nascita e su una presunta
unicità etnicamente attribuibile all’indivi -
duo. Nella sintesi a cui sono chiamati i liberali,
i cattolici e i riformisti, l’identità va concepita
non più come “data una volta per tutte”,
ma come la costruzione di un’intera esistenza:
in quanto fondata su molteplici
appartenenze, alcune legate a una storia etnica
e altre no, alcune legate a una tradizione
religiosa e altre no, essa è sempre più la risultante
delle relazioni di socializzazione diretta
tra gli individui e tra gli individui e le
istituzioni. Concepire l’identità come un fattore
di inclusione e di trasformazione non significa
però rinunciare al diritto di una comunità,
quella europea, di difendere le condizioni
della propria riproducibilità sociale
e della propria continuità civile e amministrativa,
anche in momenti di rapidi cambiamenti.
Da queste coordinate è possibile riportare
l’intera problematica dell’immigra -
zione dal pathos al logos.
Il sesto e ultimo problema riguarda il rapporto
tra gli italiani e la storia. Se la mancanza
di una memoria condivisa è il contesto in
cui l’opinione s’impone sulla verità, non c’è
dubbio che il populismo ha scavato, con più
facilità qui che altrove, una breccia nella
permeabilità del racconto che il paese fa di
sé. Mani pulite resta la pagina più controversa
della sua storia recente, e allunga sul presente
tutte le contraddizioni irrisolte di un
stagione che ha cambiato irreversibilmente il rapporto tra magistratura e politica. Se ne
è avuta prova alla morte di Francesco Saverio
Borrelli, procuratore capo di Milano e di
quella stagione protagonista assoluto: la politica
e il giornalismo si sono divisi tra una
santificazione e una censura, rinunciando di
fatto a un’analisi dell’impatto che l’azione
della magistratura ha avuto sul destino della
delega. E’ da questa analisi che l’impegno comune
di liberali, cattolici e riformisti deve
ricostruire una memoria condivisa, da cui sola
può venire una risposta al quesito che Craxi
pose in Parlamento nell’ormai lontano
1992: come si riporta nella legalità il finanziamento
della politica? E cioè, come si regola il
rapporto tra poteri pubblici e interessi privati
o, piuttosto, come si giustifica un finanziamento
pubblico esaustivo dei costi del sistema,
di fronte alla crescente crisi di legittimazione
dei partiti?
I sei problemi qui descritti definiscono il
perimetro ideale di un’area di pensiero e sensibilità tanto ampia nella società italiana
quanto silenziata dalla mancanza di una rappresentanza
e di un linguaggio comune e adeguato
ai tempi. Entro quest’area è necessario
approfondire ulteriori punti di convergenza
per la definizione di una piattaforma civile
prima e di un programma politico poi, prima
ancora di cercare il personaggio nuovo, o
piuttosto il tycoon che può diventarlo, a cui
affidare la leadership dell’antipopulismo.
Si tratta in concreto di sperimentare la
prospettiva del compromesso come il contenuto
stesso dell’offerta politica e di costruire,
su queste basi, una pedagogia e una retorica
attraverso cui tornare a comunicare al
Paese quanto già detto all’inizio di questo articolo:
noi siamo quelli che si riconoscono
nel dialogo e nella sintesi tra la cultura liberale,
la cultura cattolica e la cultura riformista,
ma non siamo più nessuna di queste culture
prese singolarmente. E ancora: noi intendiamo
con questo ‘dialogo rifondare il
patto rappresentativo che, disfacendosi, ha
aperto la strada alla nascita del populismo.
A chi obietta che quest’area non è maggioritaria
nella società, rispondiamo con la seguente
domanda: quanto sarebbe diversa la
democrazia italiana se oggi, alla vigilia di
elezioni che possono consegnare il paese a
una sola polarità populista, esistesse un forza
politica liberale, popolare e riformista,
estranea ai vecchi contenitori, svincolata da
vassallaggi e autonoma rispetto alle future
alleanze, in grado di raccogliere anche solo il
dieci per cento dei consensi? A chi ancora
obietta che non c’è tempo per discutere di
idee e di programmi, perché i tempi stringono
ed è necessario armare gli eserciti, rispondiamo
che una prospettiva politica nuova
per la democrazia italiana ha una possibilità
di imporsi e di durare solo se è capace di
volare oltre l’urgenza dei tempi, di cui il populismo
è figlio. Non sono le prossime elezioni
l’imperativo a cui rispondere, ma l’idea
del paese che abbiamo coltivato al confronto
con l’immagine del paese che vediamo declinare
sotto i nostri occhi. Per questo chiunque
si riconosca nei principi qui enunciati è chiamato
ad assumere l’iniziativa, nei modi e con
i mezzi di cui dispone.
Come superare l’errore di fondo del “tutti contro i populisti” che dal 4 marzo tiene in stallo l’Italia. Sei coordinate per costruire un campo di idee, superando le piccole identità
di Alessandro Barbano
C’è un errore di fondo nella fittizia e impotente
alleanza del “tutti contro Salvini e
Di Maio”, e poi del “tutti contro Salvini”, che
tiene in stallo la democrazia italiana dal 4 marzo
2018 e che rischia di replicarsi alla vigilia di
nuove elezioni. E’ l’idea adolescenziale di costruire
consenso sul destruens, cioè sulla critica
radicale di un nemico comune. Racconta
una politica svuotata di ogni cultura politica.
Non a caso si ferma a una censura dell’avversa -
rio sostenuta da una mera condivisione tattica,
mai strategica. Per quanto divisi su tutto, i litigiosi
soci della maggioranza gialloverde hanno
potuto richiamarsi, almeno fino alla rottura, al
fantasma di un contratto di governo. Tutti quelli,
che gialloverdi non sono, tra di loro non hanno
fin qui dialogato e non si sono riconosciuti,
né nelle sedi parlamentari né in quel che resta
delle relazioni tra le segreterie dei partiti.
Hanno perpetrato un disconoscimento che ha
segnato il quarto di secolo della defunta Seconda
Repubblica.
Eppure tra di loro c’è chi adesso enfatizza
il pericolo del consolidarsi di un potere populista
dai tratti marcatamente autoritari,
paventando una regressione della democrazia
italiana verso forme illiberali. E’ strano
che questa preoccupazione non suggerisca
nessun passo concreto per cercare e condividere
punti di vista comuni nel campo che, a
torto o a ragione, si ritiene “non populista”. I
due principali soggetti di quest’area, il Partito
democratico e Forza Italia, sono sostanzialmente
rimasti arroccati dentro l’assetto
che aveva caratterizzato la loro storica contrapposizione
bipolare. Come se la democrazia
italiana fosse ancora maggioritaria. E, soprattutto,
come se il 4 marzo 2018 non fosse
accaduto nulla. Nessun confronto esterno, se
si eccettua i contatti delle ultime ore tra chi
vorrebbe impedire il ritorno al voto all’inse -
gna di un tatticismo disperato. Nessun autentico
sforzo trasformativo al loro interno. La
crisi di consenso li ha svuotati di energie vitali
e li ha paralizzati. Il Pd e Forza Italia a
quasi un anno e mezzo dalle ultime elezioni
sono morti viventi. Lo sanno bene anche quei
dirigenti democratici che pure hanno brindato,
il giorno delle Europee, alla pioggerellina
di voti piovuti nel loro recinto, come rimbalzo
di una tempesta che ha investito la leadership
di Di Maio. Non a caso il dibattito che
si è aperto all’interno riguarda, tra un’abiura
e un occhieggiare più o meno esplicito ai Cinque
stelle, il destino delle future alleanze e
non la sostanza dell’offerta riformista. Allo
stesso modo il conflitto che si è aperto nell’universo
berlusconiano riguarda il tentativo
di sottrarre con le primarie il potere di designazione
al vecchio leader, trasformandolo
in un innocuo padre nobile, mentre è marginale,
se non inesistente, la preoccupazione
di ridefinire il contenuto dell’offerta liberale
distinguendola da quella della destra salviniana.
La democrazia, che i partiti tradizionali
s’intestano, è muta. E, quando non è muta,
parla ma non dice. Perché o è senza idee, o
è reticente. Non a caso è scomparsa dal radar
del dibattito pubblico. Se pure avanza timidamente
con la parvenza di una qualche proposta,
basta una battuta del populista di turno
a farla ripiombare nell’irrilevanza.
Ma pure chi sta o si sente fuori dal populismo
e dagli sconfitti dal populismo commette
spesso un errore che è figlio dei tempi. Riconosce
la consustanziale identità di Salvini e
Di Maio. Disconosce il loro comune assistenzialismo,
statalismo, pauperismo, dirigismo
e giustizialismo. Crede che sia possibile un
racconto altro del paese, diverso da quello
“per estremi” dei due populismi di governo.
Intuisce che questo racconto vada costruito
oltre il recinto dei contenitori politici attualmente
sul campo. Ma sbaglia pensando di poterlo
proporre a partire dalla propria identità.
Così di questi tempi ritorna l’idea di rifare
la Democrazia cristiana, di rilanciare il partitino
dei liberali, di rispolverare il Craxismo,
di resuscitare il Renzismo, di inventare
il Calendismo, e chi più ne ha più ne metta.
Questa tentazione diffusa si fonda sulla convinzione
che sia possibile occupare con una
proposta alternativa al populismo uno spazio
indistinto che si apre al centro della contrapposizione
tra la Lega da una parte e i Cinque
stelle e il Pd dall’altra. E’ anzitutto un errore
tattico. Con una metafora calcistica potremmo
definirlo come il tentativo di puntare sull’uno
contro uno per bucare una difesa avversaria
arroccata in catenaccio, dribblando
tutti gli avversari per giungere alla porta.
Nessun Maradona della politica da solo oggi
potrebbe farcela. Riuscì a Berlusconi nel ’94,
ma contro un vecchio quadro partitico in disfacimento
e grazie a mezzi finanziari che raramente
la storia consegna a un capo politico.
Ma riuscì, soprattutto, perché il tycoon fece
della sua offerta liberale il punto di incontro
di culture diverse, presenti nella politica
e nella società italiana. Oggi questo sforzo di
sintesi pare assente in tutte le iniziative che
da più parti sembrano prendere corpo e annunciare
un nuovo soggetto politico, salvo
poi repentinamente fare marcia indietro. Da
Renzi a Parisi, passando per Calenda, dai socialisti
ai liberali, passando per i cattolici,
tutte le novità fin qui immaginate o immaginabili
patiscono di quello che potremmo definire
un deficit di rappresentatività. Parlano
a segmenti molto limitati della società italiana
e rischiano perciò di tradursi nelle urne
in fenomeni definibili da “zero virgola”.
Questa tentazione di professare una propria
identità antipopulista per fermare il populismo
è ciò che, purtroppo, può allungargli
la vita. Risponde a un riflesso contrappositivo
presente nella cultura politica di un paese
che viene da venticinque anni di bipolarismo
aggressivo. E accende di questi tempi l’illu -
sione di individuare tra le sacche di resistenza
del sistema politico o della società civile
l’anti Salvini che può ribaltare il corso della
storia. E’ lo stesso atteggiamento mentale che
ascrive la crisi delle opposizioni a una mancanza
di leadership. In realtà questo schema
duplica, in parziale inconsapevolezza, le
semplificazioni del populismo in una sua
brutta copia, priva peraltro, come tutte le
brutte copie, di qualunque forza seduttiva.
Cosicché l’anti Salvini è destinato a non arrivare
mai.
La sfida al populismo invece deve iniziare
dalla complessità che il populismo vuole ridurre.
Ciò vuol dire in primo luogo rivalutare
un istituto chiave della democrazia rappresentativa:
il compromesso. E’ il metodo per
rimettere in connessione alcune culture senza
voce del paese: i liberali, i cattolici e i riformisti,
con tutti gli accenti e le sfumature
che questi pensieri portano con sé. Ma è anche
una prima chiara differenza di segno rispetto
al populismo: perseguire il compromesso
come la sostanza di una propria offerta
politica significa tornare a far coincidere
l’identità con la rappresentatività. Che vuol
dire: noi siamo anzitutto quelli che si riconoscono
nel dialogo e nella sintesi tra la cultura
liberale, la cultura cattolica e la cultura riformista.
Ma non siamo più nessuna di queste
culture prese singolarmente. E ancora: noi
intendiamo con questo confronto rifondare il
patto rappresentativo che, disfacendosi, ha
aperto la strada alla nascita del populismo.
Tuttavia, se il compromesso è la forma e la
sostanza prima del mettere in dialogo liberali,
cattolici e riformisti, a quali risultati questo
dialogo approda? La risposta a questa domanda
è ineludibile se si vuole davvero costruire
un racconto della democrazia diverso
e alternativo a quello per estremi del populismo.
Formuliamola a partire dalla storia e
dalla geografia politica del nostro tempo: noi
siamo quelli che danno un giudizio critico
ma sostanzialmente positivo di due fenomeni
che segnano la contemporaneità: la globalizzazione
e l’Europa. E qui sta una prima netta
differenza con i populisti, i quali tutti, di destra
o di sinistra, della globalizzazione e dell’Europa
offrono un giudizio ugualmente liquidatorio.
Il populismo imputa alla globalizzazione
la crescita delle diseguaglianze e
all’Europa la morte della sovranità popolare.
Proviamo allora a definire un punto vista
comune alle culture che abbiamo messo in
dialogo rispetto ai due fenomeni. Se la globalizzazione
ha portato in venti anni la povertà
assoluta nel mondo da due miliardi a 800 milioni
di persone, se questa riduzione della
povertà è concentrata in aree del pianeta diverse
dall’Europa, se pure in Europa il potere
d’acquisto del cosiddetto ceto medio è diminuito,
non tanto rispetto a ciò che si ha,
quanto rispetto a ciò che si aspira a possedere,
se insomma tutta questa complessità ha
messo in crisi la democrazia liberale, i liberali,
i cattolici e i riformisti devono maledire
la globalizzazione o devono piuttosto sostenerla,
correggendone alcuni suoi effetti paradosso
e alcuni eccessi? La risposta è scontata.
E definisce la frontiera dove finisce la
democrazia e inizia il populismo. C’è nella
cultura liberale, cattolica e riformista una
quota di irriducibile cosmopolitismo che áncora
il giudizio di un’offerta politica all’avan -
zamento universale della condizione umana,
che legittima l’anelito a promuovere il modello
democratico e che impone di considerare
il problema della solidarietà pregiudiziale
rispetto a qualunque progetto politico e
civile. Il giudizio sulla globalizzazione non
può sfuggire a queste coordinate.
Allo stesso modo il giudizio sull’Europa
non verte sui vincoli imposti dall’esterno alla
nostra sovranità, ma anzitutto sulla responsabilità
che il paese assume verso le generazioni
future ed entro la quale va perseguito
l’interesse nazionale. Tale responsabilità è
tutt’uno con il nostro modo di intendere la
delega democratica. Questa non si esaurisce
nel voto, perché la legittimazione popolare,
per ampia che sia, non definisce per intero il
perimetro della sovranità. Che non è una scatola
vuota da riempire con le maggioranze di
turno, ma tiene insieme, invece, potere e sapere,
parlamenti e istituzioni non elettive, in
un bilanciamento che è la sostanza del patto
europeo, la forma più evoluta di democrazia
che si conosca. Non a caso la democrazia europea
è detta rappresentativa, in un senso
che il populismo non comprende e cerca perciò
di ridurre alla difesa di interessi di parte
e del momento, da perseguire contro il nemico
di turno.
Il giudizio sulla globalizzazione e sull’Eu -
ropa traccia una prima linea di demarcazione
tra la politica che vive e muore nel presente
e quella protesa verso il futuro. Ma per
quanto netta sia la distinzione tra queste due
prospettive, una nuova alleanza tra liberali,
cattolici e riformisti non può fermarsi ad essa.
Non può fermarsi a condividere una carta
degli ideali. Deve dare risposte complesse,
ma credibili, a problemi specifici del nostro
paese che il populismo taglia con l’accetta e
affronta con le sue false verità. E che qui di
seguito proveremo a tracciare in sintesi.
Il primo di questi problemi è connesso con
la nostra appartenenza all’Europa e riguarda
il modo con cui la politica economica affronta
il fardello del debito pubblico. La sua
riduzione, prima ancora che ai vincoli del
patto di stabilità, risponde all’obiettivo di ricomporre
una frattura generazionale che si è
aperta nella nostra società. Dichiarare questa
priorità significa segnare un prima necessaria
discontinuità da un’offerta politica distributiva
fondata su promesse non sempre
mantenibili, o mantenute perché finanziate
in deficit e caricate sul destino delle generazioni
future. Ma significa anche assumere un
impegno duplice: da una parte a ridurre la
spesa pubblica, totem intangibile di tutte le
politiche degli ultimi decenni, e dall’altra a
investire sulla crescita strutturale, sulla difesa
e promozione del capitale umano, sullo
spostamento della protezione sociale dai padri
ai figli e sulla riduzione del divario tra il
sud e il nord.
Senonché il taglio della spesa e le misure
per lo sviluppo sono due obiettivi potenzialmente
confliggenti o piuttosto convergenti, a
seconda del modo in cui si declinano. Se lo
statalismo populista li pone in aperta contraddizione,
ciò che può armonizzarli è uno
spirito riformatore che punti a ripristinare
una dialettica virtuosa tra pubblico e privato,
attraverso un arretramento dello stato
nell’economia. Di questo spirito, presente
nella tradizione del loro pensiero, liberali,
cattolici e riformisti laici sono chiamati a fornire
una sintesi. La stessa auspicata riduzione
delle tasse ha un senso solo se non è l’og -
getto di una mera promessa distributiva a favore
di determinate categorie – “far pagare
meno tasse a un bel po’ di gente”, come dice
Salvini –, ma se si collega alla liberazione di
energie che da un centro pubblico vanno verso
la società. Rimettere in moto questo flusso,
nella giusta misura e nella direzione di
una maggiore giustizia sociale, è la sfida che
abbiamo di fronte. E che il populismo ha del
tutto mancato.
Ma la responsabilità che la democrazia liberale
italiana deve assumere verso l’Euro -
pa riguarda anche l’impegno a costruire alleanze
per rimettere le politiche pubbliche,
nazionali e soprattutto sovranazionali, in
connessione con il ciclo economico, gestire
gli choc proteggendo le fasce più deboli e
promuovere la crescita e l’inclusione. Questo
impegno è credibile se muove da un’analisi
equilibrata e condivisa dei limiti e degli errori
tanto della costruzione europea, quanto
del ruolo che in questo processo ha giocato il
nostro paese e la sua classe dirigente.
Il secondo problema riguarda la riforma
dello stato, storica incompiuta della politica
italiana, a cui ha fatto seguito l’anarchia costituente
della maggioranza gialloverde, che
ha espropriato il Parlamento e lo stesso governo
della sua potestà decisionale, sostituendoli
con una diarchia pattizia e personalistica
che ha avuto per lungo tempo protagonisti
i leader dei due partiti di maggioranza.
Il punto di originalità e di convergenza tra liberali,
cattolici e riformisti è la ricomposizione
della delega: verso questo obiettivo va
indirizzata tanto una riforma dei poteri,
quanto la legge elettorale, quanto ancora il
sistema di finanziamento dei partiti e il linguaggio
di una nuova cultura politica. Che cosa
in concreto intendiamo per ricomposizione
della delega? Che la legge elettorale e il
finanziamento della politica, per fare due
esempi, devono rispondere all’obiettivo di ripristinare
un equilibrio tra rappresentatività
e governabilità, ma anche tra potere e sapere.
Perché non sono solo le leve per far funzionare
il sistema, ma anche lo strumento di
selezione e di formazione della classe dirigente
del paese. In concreto una legge elettorale
proporzionale, o maggioritaria, o mista,
non va valutata solo per la sua attitudine a
garantire il pluralismo o piuttosto a produrre
maggioranze stabili, ma anche per la sua capacità
di avvicinare alla politica le energie
migliori della società.
All’obiettivo di restituire alla politica la
maestà perduta si collega anche il recupero
di una visione nazionale, oggi estranea a quasi
tutte le forze presenti in Parlamento. Che
non significa centralismo, ma significa che
qualunque articolazione territoriale di poteri
e di funzioni va disegnata pensando sempre
l’Italia come un intero. Questo racconto
d’insieme impegna liberali, cattolici e riformisti
a ricostruire una pedagogia e una retorica
della responsabilità, capace di contrapporre
all’angustia di un’autonomia differenziata
pattiziamente concordata tra le regioni
più forti e il governo centrale un disegno organico,
in cui c’è spazio per premiare il protagonismo
dei territori, senza perdere l’obiettivo
di riavvicinare un paese diviso. E’
una sfida difficile, da costruire sul piano culturale
prima ancora che politico.
Il terzo problema riguarda la protezione
dell’opinione pubblica contro l’ubriacatura
plebiscitaria della società, diventata malattia
del consenso. Su questo tema di straordinaria
complessità, che non è sintetizzabile in
poche parole, c’è tuttavia una convergenza
naturale tra i liberali, i cattolici e i riformisti.
Riguarda la necessità di rifare le élite, cioè
di rifondare quella delega del sapere che il
populismo ha annientato. Il primo passo di
una reintermediazione civile è una pedagogia
della libertà e della qualità del pensiero,
fondata sul sistema educativo e formativo e
sull’informazione pubblica e privata. Una indifferibile
riforma della Rai s’inscrive pienamente
in questo progetto.
L’investimento sul sapere è da assumere
come un obiettivo di qualunque progetto riformatore
del sistema, ribaltando la china
burocratica che la questione del merito ha
assunto nel paese negli ultimi decenni. Si
tratta di ridefinire il metodo della qualità
nella pubblica amministrazione, nell’acca -
demia, negli ambienti pubblici della ricerca:
il merito deve tornare a essere l’esito e insieme
la ragione legittimante di un’autonomia
decisionale saldamente collocata dentro una
preesistente e condivisa gerarchia del sapere.
Si tratta di riaffidare alla responsabilità
delle élite il compito di riconoscere e tutelare
in concreto i diritti, evitando che il principio
di legalità, fondamento del potere in uno
stato di diritto, si traduca nell’adozione deresponsabilizzante
di regole asettiche e oggettive
e in un controllo ottusamente burocratico,
che peraltro non ha fin qui impedito al familismo
e al nepotismo di infiltrarsi nei meccanismi
di selezione del merito e di piegarli a
opachi interessi. Significa rilegittimare le
posizioni apicali, che nel settore pubblico sono
state espropriate della loro potestà discrezionale
e trasformate in centri di burocrazia
autoreferente, monopolizzati da corpi
intermedi trasformatisi in gruppi corporati -
vi. Significa, ancora, rimettere il magistero,
di qualunque disciplina, nella condizione di
valutare, in piena autonomia e senza conseguenze
giudiziarie, le promozioni nella scala
gerarchica funzionali allo sviluppo della democrazia.
Ciò vuole dire azzerare una narrazione
del paese scritta con il diritto penale e
surrogarla con una retorica pubblica centrata
sulla promozione dei doveri sociali e sull’obiettivo
di valorizzare i talenti e affidare
loro le sorti dell’Italia. E’ un’inversione di
rotta. Un compito difficile ma non impossibile:
sostituire la democrazia dei peggiori, che
nega le differenze in nome dell’egualitari -
smo ma finisce per sortire una giungla di privilegi
non legittimabili, con una democrazia
dei migliori, che riconosce le differenze e áncora
a queste la responsabilità sociale dei
primi nei confronti di tutti.
Il quarto problema riguarda la manutenzione
del rapporto tra diritti e doveri, a cui si
collega l’urgenza di una vera riforma della
giustizia. C’è nella cultura liberale, in quella
cattolica e in quella riformista una premessa
che le accomuna e le distanzia dal populismo
dei tempi: è l’idea che il diritto penale sia l’extrema
ratio della democrazia liberale e non
la sua lingua. Questa premessa è l’architrave
di una visione con cui ridefinire l’assetto e le
regole della giustizia, invertendo la tendenza
di un diritto penale no-limits, la cui pervasività
ha un impatto sociale ed economico non
debitamente considerato. In concreto occorre
convergere su un sistema di diritto sostanziale
che ritorni a mettere il fatto costituente
reato al centro, contro la tentazione dei tem- pi di sostituirlo con il reo, e un diritto processuale
che renda finalmente compiuto il sistema
accusatorio, garantendo così una effettiva
parità delle parti in giudizio. Allo stesso
modo è necessario ridefinire, senza ridurne
l’ampiezza, il senso di quell’indipendenza
del magistrato che una prassi distorsiva ha
tradotto in irresponsabilità, e connettere a
una recuperata responsabilità anche l’obbli -
gatorietà dell’azione penale, senza svuotarne
la funzione di garanzia per il cittadino. La
separazione delle funzioni e delle carriere
tra giudicanti e inquirenti è, di questo progetto,
la naturale conseguenza e non la premessa.
Ma il rapporto tra diritti e doveri è anche
l’occasione di ricostruire una dialettica non
divisiva tra laici e cattolici. Questa è la sintesi
insieme più difficile e più stimolante. Perché
rappresenta la pietra d’inciampo di tutti
i tentativi fin qui compiuti negli ultimi anni
per rimettere in connessione le libertà individuali
con le responsabilità collettive. Temi
come la protezione della famiglia o piuttosto
la promozione delle unioni civili e del matrimonio
gay, l’autodeterminazione e la libertà
di cura o piuttosto i diritti del nascituro, per
fare solo degli esempi, sono diventati il monopolio
di visioni radicali per la rinuncia del
pensiero moderato laico e cattolico ad affrontarli
e a transigere. C’è una frontiera ecologica,
figlia dei tempi, su cui è possibile e
urgente proiettare queste problematiche e
tornare riconoscerle come parte di una relazione
tra diritti e doveri, riannodando l’io al
noi, facendo della sostenibilità la formula
che regola il rapporto tra le aspettative di sviluppo
di una società e la responsabilità che
questa assume nei confronti di chi verrà dopo.
Il quinto problema riguarda il rapporto
con le altre culture, reso urgente dall’impat -
to civile e sociale delle migrazioni nelle nostre
società. La propaganda leghista ha avuto
l’effetto di schiacciare l’intera problematica
nello spazio simbolico del pathos, ribaltando
i rapporti di forza: per una minoranza che
coltiva il dirittismo universalista e cosmopolita
di un’Europa senza frontiere, ignorando
peraltro che non esiste politica senza un’idea
di spazio e che non esiste spazio politico senza
frontiere, c’è oggi in Italia una maggioranza
sovranista che le frontiere pretende di impermeabilizzarle,
ignorando che lì è in gioco
il rapporto tra le civiltà e perfino ciò che resta
della forza spirituale dell’Europa. Tra le
due posizioni estreme c’è il vuoto, cioè l’as -
senza pressoché totale di opzioni intermedie,
non in quanto genericamente terziste,
ma in quanto saldate a una complessità che
non si taglia con l’accetta. Così la polarizzazione
ha indotto quel che resta dei moderati
a inseguire la Lega sui suoi accenti xenofobi.
La sfida di liberali, cattolici e riformisti è
quella di ridefinire la misura della solidarietà,
il cui risultato inclusivo dipende dalla
concreta, e mai illimitata, capacità di accoglienza,
di riconoscimento e di scambio, in
condizioni di sicurezza. Ma questa misura sarà
tanto più saggia e immune ai rovesci della
storia, quanto più frutto di una convergenza
sul senso e sui limiti del dialogo tra culture e
fedi diverse. E qui si tratta di intendersi sulle
condizioni di questo dialogo, cercando un
punto di sintesi tra il cristianesimo e una laicità
non ideologizzata. C’è nelle culture considerate
una parola che, diversamente declinata,
definisce le condizioni di partenza: l’identità.
Si tratta di sottrarla alla storica contrapposizione
tra un modello di derivazione
illuministica, fondato sull’adesione a valori
condivisi, e un altro di derivazione romantica,
fondato sulla nascita e su una presunta
unicità etnicamente attribuibile all’indivi -
duo. Nella sintesi a cui sono chiamati i liberali,
i cattolici e i riformisti, l’identità va concepita
non più come “data una volta per tutte”,
ma come la costruzione di un’intera esistenza:
in quanto fondata su molteplici
appartenenze, alcune legate a una storia etnica
e altre no, alcune legate a una tradizione
religiosa e altre no, essa è sempre più la risultante
delle relazioni di socializzazione diretta
tra gli individui e tra gli individui e le
istituzioni. Concepire l’identità come un fattore
di inclusione e di trasformazione non significa
però rinunciare al diritto di una comunità,
quella europea, di difendere le condizioni
della propria riproducibilità sociale
e della propria continuità civile e amministrativa,
anche in momenti di rapidi cambiamenti.
Da queste coordinate è possibile riportare
l’intera problematica dell’immigra -
zione dal pathos al logos.
Il sesto e ultimo problema riguarda il rapporto
tra gli italiani e la storia. Se la mancanza
di una memoria condivisa è il contesto in
cui l’opinione s’impone sulla verità, non c’è
dubbio che il populismo ha scavato, con più
facilità qui che altrove, una breccia nella
permeabilità del racconto che il paese fa di
sé. Mani pulite resta la pagina più controversa
della sua storia recente, e allunga sul presente
tutte le contraddizioni irrisolte di un
stagione che ha cambiato irreversibilmente il rapporto tra magistratura e politica. Se ne
è avuta prova alla morte di Francesco Saverio
Borrelli, procuratore capo di Milano e di
quella stagione protagonista assoluto: la politica
e il giornalismo si sono divisi tra una
santificazione e una censura, rinunciando di
fatto a un’analisi dell’impatto che l’azione
della magistratura ha avuto sul destino della
delega. E’ da questa analisi che l’impegno comune
di liberali, cattolici e riformisti deve
ricostruire una memoria condivisa, da cui sola
può venire una risposta al quesito che Craxi
pose in Parlamento nell’ormai lontano
1992: come si riporta nella legalità il finanziamento
della politica? E cioè, come si regola il
rapporto tra poteri pubblici e interessi privati
o, piuttosto, come si giustifica un finanziamento
pubblico esaustivo dei costi del sistema,
di fronte alla crescente crisi di legittimazione
dei partiti?
I sei problemi qui descritti definiscono il
perimetro ideale di un’area di pensiero e sensibilità tanto ampia nella società italiana
quanto silenziata dalla mancanza di una rappresentanza
e di un linguaggio comune e adeguato
ai tempi. Entro quest’area è necessario
approfondire ulteriori punti di convergenza
per la definizione di una piattaforma civile
prima e di un programma politico poi, prima
ancora di cercare il personaggio nuovo, o
piuttosto il tycoon che può diventarlo, a cui
affidare la leadership dell’antipopulismo.
Si tratta in concreto di sperimentare la
prospettiva del compromesso come il contenuto
stesso dell’offerta politica e di costruire,
su queste basi, una pedagogia e una retorica
attraverso cui tornare a comunicare al
Paese quanto già detto all’inizio di questo articolo:
noi siamo quelli che si riconoscono
nel dialogo e nella sintesi tra la cultura liberale,
la cultura cattolica e la cultura riformista,
ma non siamo più nessuna di queste culture
prese singolarmente. E ancora: noi intendiamo
con questo ‘dialogo rifondare il
patto rappresentativo che, disfacendosi, ha
aperto la strada alla nascita del populismo.
A chi obietta che quest’area non è maggioritaria
nella società, rispondiamo con la seguente
domanda: quanto sarebbe diversa la
democrazia italiana se oggi, alla vigilia di
elezioni che possono consegnare il paese a
una sola polarità populista, esistesse un forza
politica liberale, popolare e riformista,
estranea ai vecchi contenitori, svincolata da
vassallaggi e autonoma rispetto alle future
alleanze, in grado di raccogliere anche solo il
dieci per cento dei consensi? A chi ancora
obietta che non c’è tempo per discutere di
idee e di programmi, perché i tempi stringono
ed è necessario armare gli eserciti, rispondiamo
che una prospettiva politica nuova
per la democrazia italiana ha una possibilità
di imporsi e di durare solo se è capace di
volare oltre l’urgenza dei tempi, di cui il populismo
è figlio. Non sono le prossime elezioni
l’imperativo a cui rispondere, ma l’idea
del paese che abbiamo coltivato al confronto
con l’immagine del paese che vediamo declinare
sotto i nostri occhi. Per questo chiunque
si riconosca nei principi qui enunciati è chiamato
ad assumere l’iniziativa, nei modi e con
i mezzi di cui dispone.
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