Sanremo e la gara che non serve
Sanremo e la gara che non serve
Ogni anno, puntuale come un orologio svizzero, arriva Sanremo. Il Festival della canzone italiana, lo spettacolo che tiene incollati milioni di telespettatori, che fa discutere, che divide. Eppure, ogni anno ci ritroviamo sempre con la stessa domanda: ha ancora senso la competizione nella musica?
Partiamo da un dato di fatto: la musica è emozione, è arte, è comunicazione. Non è sport, non è una corsa a chi arriva primo. Eppure, continuiamo a trattarla come se fosse una gara di atletica, con i podi, le medaglie, i vincitori e i vinti. Ma cosa vuol dire vincere in musica? Chi stabilisce che una canzone sia “migliore” di un’altra?
Ieri sera, come ogni anno, qualcuno ha vibrato per un cantante, qualcuno per un altro. Qualcuno si è emozionato sentendo una voce, qualcun altro ha preferito il testo di una canzone. Ed è così che dovrebbe essere: ognuno si porta a casa la propria emozione, il proprio momento di connessione con la musica.
Il problema nasce quando arriva il voto, la classifica, il verdetto. Perché una classifica, per definizione, esclude. Dice che uno vale più dell’altro, che chi è arrivato primo ha più valore di chi è arrivato ultimo. Ma se la musica è un linguaggio universale, se è un modo per unirci, perché la trasformiamo in un meccanismo che separa?
Sanremo è un evento straordinario, perché mette la musica al centro, perché dà spazio agli artisti, perché crea dibattito e spettacolo. Ma forse dovremmo iniziare a chiederci se il concetto di “gara” sia ancora necessario. Forse sarebbe ora di immaginare un Sanremo dove non si vince e non si perde, ma si partecipa. Un Sanremo dove la musica è musica, e basta.
Perché alla fine, la musica non si conta. Si ascolta. E si sente.
Sanremo è patriarcale perché conta le vibrazioni.
Eppure, la musica non si conta, si sente. Si è.
Ieri sera qualcuno ha vibrato, qualcuno no.
Qualcuno ha sentito un battito che somigliava al suo,
qualcun altro è rimasto in silenzio a guardare.
Ma poi arriva la cultura del numero, del podio,
del “più” che vale più del “bello”, del “vincere” che vale più del “sentire”.
E a che serve?
Perché chi vince esclude.
Perché se conti chi ha vibrato, smetti di ascoltare chi non è stato contato.
Eppure, chi ha sentito quella vibrazione non può essere escluso,
perché la musica non è un confine, è un abbraccio.
La competizione non serve.
La musica non è corsa, non è sfida, non è lotta.
La musica è il modo di stare insieme senza parlare,
è quel miracolo in cui per un istante ci si riconosce,
è quell’unisono che ci ricorda che siamo umani.
E allora perché ridurla a un trofeo?
Perché pesare l’invisibile, misurare l’immisurabile?
Non è forse l’amore la vibrazione più forte?
E l’amore, lo sappiamo, non si vince. Si vive.
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