Viaggio nella Putèa te Mieru

 


Viaggio nella Putèa te Mieru

Ci sono luoghi che sopravvivono al tempo, non per la loro bellezza, non per la loro magnificenza architettonica, ma per l'anima che li abita. Il Salento ne custodisce uno, forse il più sincero, il più verace: la putèa te mieru. Un nome che sa di terra e di popolo, di mani callose e di vino versato senza troppi convenevoli. In questi angoli senza tempo, dove l’allegria si mischia al profumo intenso del mosto, si celebra un rito antico: quello della convivialità, dello stare insieme senza filtri, senza sovrastrutture.

Le putèe non sono semplici botteghe di vino. Non sono ristoranti e nemmeno taverne. Sono piuttosto focolari collettivi, palcoscenici della vita di ogni giorno. Qui, il contadino si stringe al bracciante, l’artigiano discute con il poeta, il turista curioso si perde tra i racconti degli anziani, mentre il vino scorre e la lingua si scioglie. Una volta dentro, il mondo esterno sbiadisce, lasciando spazio solo a quel momento presente, fatto di bicchieri colmi e voci che si intrecciano.

C’era un tempo in cui la putèa era l’unico vero rifugio dopo una lunga giornata nei campi o in bottega. Non serviva prenotare, non c’erano menù stampati, bastava un cenno, un sorriso del proprietario, e il vino arrivava, rosso, spesso, sincero. Ad accompagnarlo, cibo essenziale, quasi un pretesto per bere ancora un sorso: trippa fumante, involtini di interiora, fegato arrostito, polenta ruvida, peperoni verdi fritti. E poi, il sovrano incontrastato della tavola: i pezzetti te cavallu, stufati lentamente, speziati e avvolgenti, compagni inseparabili del mieru.

Non era solo una questione di gusto, ma di appartenenza. Entrare in una putèa significava essere parte di una comunità, accettare le sue regole non scritte. Si giocava a scopa e a tressette, si rideva forte, si discuteva, si cantava. Ogni tanto scoppiava una lite, ma bastava un altro bicchiere e tutto tornava come prima. In queste mura spartane, con il bancone di marmo consumato dal tempo, il lavandino in rame rosso, le panche di legno sostituite, col tempo, da sedie più moderne, si consumava una liturgia laica, quella della semplicità, della schiettezza.

Ma il progresso ha il suo prezzo. Negli anni del boom economico, il Salento ha iniziato a guardare altrove, ad abbracciare cucine esotiche, a lasciarsi sedurre da ristoranti più raffinati. La pasta alla carbonara e la cotoletta alla milanese sono diventate nuove regine delle tavole, mentre le vecchie putèe iniziavano a svanire. Eppure, la memoria resiste. In alcuni angoli del Salento, la tradizione si aggrappa con le unghie alla modernità. La Festa te lu mieru a Carpignano Salentino e la Festa de lu focu a Zollino sono il segno che il passato non si lascia dimenticare facilmente.

Oggi, le putèe sopravvissute sono diventate una sorta di reliquie viventi, dove giovani e anziani si ritrovano per respirare un’aria d’altri tempi. E nei ristoranti più attenti, i piatti della tradizione tornano in auge, rivisitati quel tanto che basta per sedurre nuovi palati, senza tradire le proprie radici.

E allora, chi si trova a camminare per le strade del Salento, dovrebbe fermarsi in una putèa, sedersi, lasciarsi servire un bicchiere di vino scuro, ascoltare una storia, ridere senza motivo. Perché in fondo, è qui che batte il cuore autentico di questa terra: tra le pareti umili di una bottega del vino, dove il tempo si ferma e la vita si fa più lieve, almeno per il tempo di un sorso.

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