Qualche osservazione sugli scritti di Mauro Bonazzi e Massimo Recalcati


Al Prof. Mauro Bonazzi
Al Dott. Massimo Recalcati



Gentile Prof. Bonazzi,
Grazie per l’opportunità della lettura del suo densissimo saggio che ha pubblicato Sette.Corriere del 20.03.2020 che riporto di seguito. Per certi versi mi ha ricordato l’articolo di Massimo Recalcati “La nuova fratellanza” pubblicato dal giornale “La Repubblica” sabato 14 marzo 2020.
Desidererei riferirle le mie osservazioni sull’articolo di Recalcati (che legge per opportuna conoscenza) che così come mi accade sempre quando ascolto parlare o leggo parole su questi argomenti, devo ahimè osservare la proposta di parole senza l’indicazione dei necessari propositi. Tutto questo accade perché, invece di guardare in faccia la realtà della cultura in cui viviamo, ci si ferma all’anelito, al desiderio senza la decisione di decidere, una volta per tutte, cosa vogliamo conservare, perché è quello che decidiamo di conservare, che rende il desiderio realizzabile.
Non è nuova questa conversazione, la stessa che lei cita sia avvenuta con sir Thomas More, nel 1516 quando stigmatizzò con la parola Utopia, che divenne uno scritto, la descrizione della vita su un’isola in cui si era realizzato il sogno umanistico di una società giusta e solidale.
Io mi sono chiesto il perché nonostante tutti, ma proprio tutti, desideriamo vivere alla maniera dell’isola di Utopia, poi ci ritroviamo a vivere come viviamo, ovvero in una società piena di ingiustizie e di diseguaglianze e in cui la solidarietà, è l’eccezione e non la regola.
Io me lo sono chiesto e ho osservato che non viviamo in una cultura in cui ci si sente responsabili, anzi viviamo in una cultura che ci deresponsabilizza! Ho preso atto che non viviamo in una cultura che ci fa sentire la responsabilità delle conseguenze dei nostri comportamenti, dei nostri atti, così come tanto bene ha descritto Massimo Recalcati nel suo articolo.
Mi dispiace doverlo osservare, ma anche a scuola accade la deresponsabilizzazione pianificata a livello scientifico. A scuola invece di promuovere la solidarietà tra i nostri figli, i valori a cui sono formati e informati ed istruiti quotidianamente, sono quelli che derivano dalla meritocrazia che li spinge alla competizione con gli altri studenti. È come nelle aziende, tutti noi umani siamo in competizione perché il valore che ci guida, non è la collaborazione nel rispetto reciproco e nel riconoscimento reciproco della legittimità di ognuno. I valori a cui siamo educati, anche a scuola, sono quelli del successo e della ricchezza e da qui la meritocrazia. Possibile che non si capisca che questi valori educano i nostri figli proprio alla deresponsabilizzazione delle loro azioni? Possibile che non si capisca che stiamo formando e abbiamo formato dei consumatori e non dei cittadini? Per ottenere il successo, siamo in competizione gli uni con gli altri e non  ci aiutiamo, perché vogliamo vincere, vogliamo arrivare ai primi posti. E che dire della scuola e della corsa ai voti? I nostri figli non collaborano e non si aiutano tra loro perché ognuno vuole un voto in più dell’altro. E allora perché mai dovrebbero collaborare? Per quale oscura ragione dovrebbero aiutare i compagni di scuola? Per fare arrivare prima loro al posto dei nostri figli?
Massimo Recalcati mi ha dato l’impressione di Alice nel Paese delle Meraviglie. Pensi che addirittura spera che in questa cultura della competizione, sia la politica ed i politici a promuovere la solidarietà. Ma stiamo scherzando? Se i politici si sono organizzati in manipoli decisi di donne e uomini che si combattono con una ferocia e con violenza senza limiti per vincere ed escludere i perdenti. E lo fanno per conquistare il potere, che gli darà la sottomissione e l’ubbidienza degli altri, che gli farà avere il benessere che provano quando hanno IL PIACERE DI ESSERE SERVITI.
La vita in una società giusta e solidale non si ottiene con gli auspici e con le melense e belle parole di Massimo Recalcati che lasciano il tempo che trovano. La vita in una società giusta e solidale si ottiene con un desiderio personale. Il desiderio che ci fa ottenere quella vita è quello di abbandonare la cultura della competizione. Una volta che la abbandoneremo potremo osservare che, in modo spontaneo e naturale, emerge la cultura della collaborazione, che è quella che dà a tutti noi quel languore che fa scrivere gli articoli come quelli di Massimo Recalcati. E che fa scrivere i saggi come il suo che ha pubblicato Sette.Corriere del 20.03.2020.
Possiamo farlo tutti. È solo una questione di desiderio.
Cordialmente
Antonio Bruno Ferro


 
Pro. Mauro Bonazzi

Il “lato b” dell’utopia di Tommaso Moro 
di Mauro Bonazzi
Utopia è una parola greca inventata da un inglese, sir Thomas More, nel 1516. Dopo lunghe esitazioni, dopo numerose discussioni con Erasmo da Rotterdam, l’amico di una vita, More aveva deciso che questo era il titolo appropriato per il suo piccolo libro:  descriveva la vita su un’isola in cui si era realizzato il sogno umanistico di una società giusta e solidale. Da quel momento il concetto di utopia ha fatto il suo ingresso nel regno del pensiero politico. Non proprio un ingresso trionfale, se si pensa ai giudizi che nel corso del tempo hanno spesso irriso chi aspirava a un mondo diverso. Solo tre anni prima, del resto, nel 1513, Machiavelli aveva scritto Il Principe, insegnando che la politica la si analizza e la si fa in un altro modo.
È la lezione del realismo: in politica si deve guardare alla realtà per quello che è e non per come vorremmo che fosse. «E molti si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere (perché è tanto diverso come si vive da come si dovrebbe vivere), che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina sua che la preservazione». Costruire improbabili castelli per aria in cui tutti vivono felici e contenti a cosa dovrebbe servire di preciso? «Uno uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».
Dura quanto si vuole, la lezione dei realisti – la lista è lunga da Tucidide a Machiavelli, da Karl Marx a Carl Schmitt – non manca di una sua verità. Ma quando pretende di spiegare tutto, si trasforma in un’illusione. Davvero gli uomini sono solo volpi o leoni, e nella storia contano soltanto interesse e forza? Davvero il desiderio di giustizia, il bisogno di pace sono il sogno di uomini ingenui e basta? L’opposizione tra essere e dover essere, tra come le cose sono e come noi vorremmo che fossero, è solo una parte del problema, del resto, e forse neppure la più importante. Perché c’è anche il regno del possibile, di ciò che può essere. La sfida del pensiero utopico, scrive Roberto Mordacci (Ritorno a utopia, Laterza), è quella di chi non accetta che le cose debbano andare sempre allo stesso modo: la realtà può cambiare, possiamo cambiarla. Il potere, in fondo, consiste proprio in questa possibilità di poter fare, cambiare, migliorare. I realisti finiscono troppo spesso per giustificare ideologicamente la realtà, cristallizzando la situazione corrente come se fosse immutabile, come se le cose non potessero andare che come vanno. Ma la storia cambia. E pensare a quello che non c’è serve anche a svelare, per contrasto, i mali e le ingiustizie che affliggono le nostre società, aiutandoci a capire cosa vogliamo e cosa no. Inizialmente More aveva pensato ad altri termini per descrivere la sua città ideale.
Se alla fine aveva coniato questo neologismo è perché si prestava aunaduplice lettura: utopia è un luogo (-topos) chiamato non luogo (ou in greco indica la negazione), che allo stesso tempo è anche un buon luogo (eu-). Pensare il futuro come una possibilità buona, ecco in poche parole il cuore dell’utopia. Trascurare l’attrito della realtà in politica è sempre un errore. Dimenticare che, per quanto dura, questa realtà può sempre essere migliorata è forse un errore ancora più grande.

Il dott. Massimo Recalcati



Massimo Recalcati
La nuova fratellanza
La Repubblica, sabato 14 marzo 2020



I nazisti ci hanno insegnato la libertà, ha scritto una volta Jean Paul Sartre all’indomani della liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Per apprezzare davvero qualcosa come la libertà, bisognerebbe dunque perderla e poi riconquistarla? Ma non sta forse accadendo qualcosa di simile con la tremenda pandemia del coronavirus? La sua spietata lezione smantella in modo altamente traumatico la più banale e condivisa concezione della libertà. La libertà non è, diversamente dalla nostra credenza illusoria, una sorta di “proprietà”, un attributo della nostra individualità, del nostro Ego, non coincide affatto con la volubilità dei nostri capricci. Se così fosse, noi saremmo oggi tutti spogliati della nostra libertà. Vedremmo nelle nostre città deserte la stessa agonia a cui essa è consegnata. Ma se, invece, la diffusione del virus ci obbligasse a modificare il nostro sguardo provando a cogliere tutti i limiti di questa concezione “proprietaria” della libertà? È proprio su questo punto che il Covid-19 insegna qualcosa di tremendamente vero.
Questo virus è una figura sistemica della globalizzazione; non conosce confini, Stati, lingue, sovranità, infetta senza rispetto per ruoli o gerarchie. La sua diffusione è senza frontiere, pandemica appunto. Da qui nasce la necessità di edificare confini e barriere protettive. Non però quelle a cui ci ha abituati il sovranismo identitario, ma come un gesto di solidarietà e di fratellanza. Se i nazisti ci hanno insegnato ad essere liberi sottraendoci la libertà e obbligandoci a riconquistarla, il virus ci insegna invece che la libertà non può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio. Lo insegna, paradossalmente, consegnandoci alle nostre case, costringendoci a barricarci, a non toccarci, ad isolarci, confinandoci in spazi chiusi. In questo modo ci obbliga a ribaltare la nostra idea superficiale di libertà mostrandoci che essa non è una proprietà dell’Ego, non esclude affatto il vincolo ma lo suppone. La libertà non è una manifestazione del potere dell’Ego, non è liberazione dall’Altro, ma è sempre iscritta in un legame. Non è forse questa la tremendissima lezione del Covid-19? Nessuno si salva da solo; la mia salvezza non dipende solo dai miei atti, ma anche da quelli dell’Altro.
Ma non è forse sempre così? Ci voleva davvero questa lezione traumatica a ricordarcelo? Se i nazisti ci hanno insegnato la libertà privandocene, il coronavirus ci insegna il valore della solidarietà esponendoci all’impotenza inerme della nostra esistenza individuale; nessuno può esistere come un Ego chiuso su se stesso perché la mia libertà senza l’Altro sarebbe vana. Il paradosso è che questo insegnamento avviene proprio attraverso l’atto necessario del nostro ritiro dal mondo e dalle relazioni, del nostro rinchiuderci in casa. Si tratta però di valorizzare la natura altamente civile e profondamente sociale, dunque assolutamente solidale, di questo apparente “isolamento” che, a ben guardare, tale non è. Non solo perché l’Altro è sempre presente anche nella forma della mancanza o dell’assenza, ma perché questa auto-reclusione necessaria è, per chi la compie, un atto di profonda solidarietà e non un semplice ritiro fobico-egoistico dal mondo. In primo piano non è qui tanto il sacrificio della nostra libertà, ma l’esercizio pieno della libertà nella sua forma più alta. Essere liberi nell’assoluta responsabilità che ogni libertà comporta significa infatti non dimenticare mai le conseguenze dei nostri atti. L’atto che non tiene conto delle sue conseguenze è un atto che non contempla la responsabilità, dunque non è un atto profondamente libero.
L’atto radicalmente libero è l’atto che sa assumere responsabilmente tutte le sue conseguenze. In questo caso le conseguenze dei nostri atti investono la nostra vita, quella degli altri e quella del nostro intero Paese. In questo modo il nostro bizzarro isolamento ci mette in rapporto non solo alle persone con le quali lo condividiamo materialmente, ma con altri, altri sconosciuti e fratelli al tempo stesso. La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza senza la quale libertà e uguaglianza sarebbero parole monche. In questo strano e surreale isolamento noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia della polis. In questo modo siamo davvero pienamente sociali, siamo davvero pienamente liberi.






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