Qualche osservazione sugli scritti di di Mario Buscicchio, Stefano Cristante e Antonio Errico (in ordine alfabetico).


Al Dott. Claudio Sgamardella
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Gentile Direttore,
ho letto oggi domenica 22 marzo 2020 ne il quotidiano tre interventi molto interessanti. Sono quelli di  Mario Buscicchio, Stefano Cristante e Antonio Errico (in ordine alfabetico). Tutti e tre gli scritti tratteggiano un dopo Covid 19 che a loro dire dovrebbe risultare diverso da quello di prima della pandemia. Una frase che ho preso in prestito da Stefano Cristante adattandola, dovrebbe contenere le ragioni che i tre autori ritengono essere la causa di quello che prevedono essere il cambiamento. La frase è quella che segue:

“D’improvviso, dopo essere stati invogliati e pungolati in ogni modo a competere per essere superiori agli altri, ci scopriamo tutti diversi, ognuno diverso da tutti gli altri, ma comunque tutti quanti, l'intera UMANITA', nella stessa barca.”
Ho riflettuto molto su questa frase e mi sono chiesto se è vero che tutti noi, in quanto esseri umani, siamo stati in ogni modo pungolati e invogliati a competere per essere superiori a tutti gli altri esseri umani. La mia risposta è affermativa. E questa risposta non prende in esame la vita sociale degli anni del dopoguerra, ma riguarda l’intera cultura dell’occidente e dell’oriente che, come noto a tutti, è basata sulla competizione. Questa cultura è nota come PATRIARCALE ed è caratterizzata da conversazioni fondamentali che informano ciò che facciamo nella nostra vita quotidiana.
Noi conviviamo nella cultura patriarcale in modo tale da considerare che sia legittimo e normale tra noi che ci siano la guerra, la competizione, la lotta, le gerarchie, l'autorità, il potere, la procreazione, la crescita, l'appropriazione delle risorse e la giustificazione razionale del controllo e dominio degli altri attraverso l'appropriazione della verità.
Il linguaggio che utilizziamo, le stesse parole che lo compongono confermano quanto scritto prima. Infatti, nella nostra cultura patriarcale, parliamo di lotta alla povertà e agli abusi quando vogliamo correggere ciò che chiamiamo ingiustizie sociali, o diciamo che dobbiamo combattere l' inquinamento quando parliamo di ripulire l'ambiente, affermiamo che dobbiamo affrontare "l'aggressione" della natura quando siamo di fronte a un fenomeno naturale che per noi costituisce un disastro, e viviamo come se tutte le nostre azioni richiedessero l'uso della forza, e come se ogni occasione in cui siamo chiamati a fare un'azione fosse una sfida.

Nella nostra cultura patriarcale non ci fidiamo gli uni degli altri e quindi viviamo nella sfiducia e cerchiamo la nostra sicurezza e la certezza nel controllo del mondo naturale, nel controllo degli altri esseri umani e nel controllo di noi stessi.

Se ci riflettiamo possiamo notare che non facciamo altro che parlare continuamente di controllare il nostro comportamento o le nostre emozioni. Inoltre facciamo molte cose, mettiamo in atto molti accorgimenti, per controllare la natura o il comportamento degli altri, tutto ciò nel tentativo di neutralizzare quelle che chiamiamo forze antisociali e naturali distruttive che invece hanno comportamenti che derivano dalla loro autonomia.

Nella nostra cultura patriarcale non accettiamo disaccordi come situazioni legittime che costituiscono punti di partenza per un'azione concertata di fronte a uno scopo comune, e dobbiamo convincerci e correggerci a vicenda, e tolleriamo solo il diverso nella fiducia che alla fine saremo in grado di portarlo a convincersi dell’unico modo buono che è il nostro. Continuiamo a fare forzature nel tentativo di ridurre l’altro ad obbedire. Se non riusciamo, escludiamo questa persona irriducibile giustificandoci che è sbagliato quello che questa persona irriducibile pensa, dice e fa.

Nella nostra cultura patriarcale viviamo nell'appropriazione di tutto e agiamo come se fosse legittimo stabilire, con confini che proteggiamo con l’uso della forza, la mobilità degli altri in certe aree che prima della nostra appropriazione erano nel loro libero accesso. Inoltre, lo facciamo mentre manteniamo per noi stessi il privilegio di muoverci liberamente in quelle aree, giustificando che noi abbiamo titolo ad appropriarci di quelle aree utilizzando argomenti basati su principi e verità di cui ci siamo appropriati. Così parliamo di risorse naturali in un atto che ci acceca, tanto da non riuscire a vedere l’altro e lo neghiamo in quanto è un’implicazione del nostro desiderio di appropriazione.

Ecco che se ci riflettiamo possiamo osservare che nella nostra cultura patriarcale, viviamo provando diffidenza nei confronti dell'autonomia degli altri. Di fatto ci appropriamo sempre del diritto di decidere ciò che per gli altri, è legittimo oppure no, e lo facciamo in un continuo tentativo di controllare le loro vite. Nella nostra cultura patriarcale viviamo nella gerarchia che richiede obbedienza, affermando che la convivenza ordinata richiede autorità e subordinazione, superiorità e inferiorità, potere e debolezza o sottomissione, e siamo sempre pronti ad affrontare tutte le relazioni, umane o meno, in quei termini. Quindi, giustifichiamo la competizione, cioè un incontro nella negazione reciproca, come modo per stabilire la gerarchia dei privilegi sotto la pretesa che la competizione promuova il progresso sociale consentendo ai migliori di noi, di apparire e prosperare.

Nella nostra cultura patriarcale siamo sempre pronti a trattare i disaccordi come dispute o lotte, utilizzando gli argomenti come armi, e siamo altrettanto pronti a descrivere una relazione “armoniosa” come pacifica, cioè come un’assenza di guerra, come se la guerra fosse l'attività umana fondamentale.

Queste riflessioni mi portano ad affermare che, tutte le buone intenzioni contenute negli articoli di Mario Buscicchio, Stefano Cristante e Antonio Errico, rappresentano un languore che non è solo di questi tempi di Covid 19, ma che è presente in tutti i tempi in cui abbiamo vissuto nella cultura patriarcale.
Dopo ogni guerra gli esseri umani si sono detti che nel dopo guerra la vita sarebbe stata diversa, che tutto sarebbe cambiato. Lo hanno detto anche dopo le innumerevoli epidemie e pandemie che hanno decimato la popolazione mondiale nei tempi passati.
Tutti questi propositi si sono infranti sugli scogli della cultura patriarcale. E posso essere facile profeta nel dire che altrettanto accadrà anche dopo il Covid 19 se non decidiamo di abbandonare questa cultura.
Le parole sono importanti. Noi viviamo nel linguaggio e nulla esiste al di fuori del linguaggio. Ecco perché dobbiamo essere consapevoli che, il languore che sentiamo di una società giusta e solidale, è impossibile si realizzi nella cultura patriarcale.
Ho sentito il dovere di scrivere queste parole perché sono rivolte esclusivamente a chi pratica la cultura patriarcale, tutte persone che comunque io rispetto. In virtù di questo rispetto io ritengo non si possano obbligare queste persone ad abbandonare la cultura patriarcale, anche se è storicamente provato che tale cultura determina una società piena di ingiustizie e di diseguaglianze e in cui la solidarietà è l’eccezione e non la regola.
Grazie per l’attenzione e, siccome non ho gli indirizzi e mail dei tre autori, mi farebbe piacere che foste voi a recapitare questa mia scrittura.
Cordialmente
Antonio Bruno Ferro
Stefano Cristante

Punto di vista

LA NUOVA SOCIALITÀ DA INVENTARE
Di Stefano CRISTANTE
A mano a mano che l’idea della gravità della condizione pandemica si diffonde e si radica nell’immaginario mondiale e nazionale, noi acquisiamo razionalmente la convinzione che ci troviamo in una situazione eccezionale, mai accaduta prima. Forse nessuno aveva ipotizzato che avremmo potuto contare gli anni con la dicitura “prima o dopo” il coronavirus.
Nelle epoche precedenti alla nostra, era quasi sempre la guerra a fare da spartiacque e, in anni più vicini, le generazioni europee che non hanno vissuto esperienze belliche hanno adottato soglie diverse, dalle pesanti crisi economiche (Wall Street 2008) agli attentati del terrorismo fondamentalista (11 settembre) a eventi più leggeri, come Olimpiadi o Campionati di calcio.
L’emergenza Covid-19 è la prima vera sciagura che si abbatte su di noi e che ci obbliga a una rivoluzione della nostra vita. Stiamo vivendo ore e giornate e settimane del tutto particolari: per i più sfortunati sono momenti terribili, e per tanti è il momento di un inaspettato e tragico lutto collettivo. In realtà tutti condividono questo lutto quando, alla fine di ogni giornata, la tv comunica le cifre dei decessi. Inevitabilmente avvertiamo un groppo in gola: la diffusione ha colpito persone come noi, come i nostri familiari, come i nostri colleghi di lavoro, come i nostri amici. D’improvviso, dopo essere stati invogliati e pungolati in ogni modo a essere unici e possibilmente superiori agli altri, ci scopriamo tutti nella stessa barca. E in effetti a una barca assomiglia la nostra casa, il luogo che è diventato il simbolo e la misura della nostra condizione. La nostra casa assomiglia a una barca perché siamo in pericolo di fronte a un mare in tempesta che ci sovrasta, e, pur fermi nel nostro guscio, siamo squassati da onde di notizie che ci dicono il cambio del mondo. I capi che facevano spallucce e sottovalutavano il virus ora stanno massimamente allertando le proprie nazioni e i confini stanno ritornando anche mentalmente nazionali, sebbene la contraddizione sia evidente: con una pandemia la situazione d’emergenza è mondiale e quindi sia la cooperazione scientifica sia il governo della crisi difficilmente potranno evitare un confronto allargato e decisioni congiunte sovranazionali.
La pandemia viaggia dagli scenari mondiali alla nostra casa, perché lì noi siamo e da lì condividiamo le norme sociali, che raccomandano in modo categorico di uscire se non per mera sopravvivenza a una gran parte della popolazione. Chi si era illuso di poter semplicemente rallentare i ritmi e ridurre i propri spostamenti ora deve farsi una ragione della stretta stanzialità.
Perciò eccoci in casa, h24. Durante infezioni, pandemie e pestilenze lo si è sempre fatto. La nostra specie ha sempre cercato di sfuggire al contagio attraverso l’isolamento. Ora per noi è più facile avere cibo ed eventuali medicine senza dover vagare nelle città chissà per quanto. E le nostre case sono in genere dotate di ciò che serve per l’igiene, l’alimentazione, lo svago, il riposo. Ora, anche per il lavoro. Perché ciò che la nostra generazione ha sperimentato per la prima volta, cioè le connessioni digitali di massa, forniscono la materia prima e non solo il canale di un nuovo modo di vivere e di agire. Noi sappiamo di essere composti di una parte interamente nostra e di una parte sociale e di specie. E abbiamo sempre ritenuto sensata la definizione di essere umano come “animale sociale”. Immaginiamo per un momento di non avere internet, o di non avere né radio né televisione: cosa ne sarebbe del nostro isolamento? Era la situazione delle società che si trovarono a vivere le grandi pestilenze nel passato.
Pura segregazione, con in più l’aggravante di doversi procurare il cibo più di frequente a causa dell’assenza di efficaci metodi di conservazione degli alimenti.
Per noi la sfida non è solo sopravvivere, ma inventarci una socialità che non può passare che dagli schermi: alcune generazioni hanno conosciuto la voce direttiva della radio e l’immagine totemica della televisione. Adesso noi ci protendiamo verso il digitale on line, che è già abitato da piattaforme diversificate, e che ha bisogno di essere lavorato da ognuno di noi. Rispettare le norme anti-contagio ci spinge in casa: ma, se la casa è connessa, il mondo non è solo un mare in tempesta. Mentre fuori, negli ospedali e nelle produzioni indispensabili, i lavoratori mettono ogni energia nelle loro tante ore di assistenza e di attività, noi possiamo sforzarci di riflettere su cosa ci capita ogni giorno e su come ci appare la nostra società. Per esempio: ora sappiamo che i tagli alla sanità e all’istruzione comportano un abbassamento delle difese immunitarie dell’intera società. E quando arriva un agente aggressivo, le basse difese immunitarie si riflettono nei posti letto mancanti, nel numero di medici insufficiente, nella morte di tanti, nella precarietà di tantissimi. E ancora: ci stiamo accorgendo che le piattaforme digitali e i social rappresentano un ambiente decisivo per riuscire a mandare avanti il lavoro generale di elaborazione delle informazioni e anche per continuare ad avere un permanente contatto con gli altri. Si tratta di funzioni delicatissime ed essenziali per tutti, un bene comune come è stato più volte detto. Non è venuto il tempo per rivedere il sistema di creazione di agenzie di collegamento tra gli individui di questa portata? La dimensione pubblica dell’importanza di un settore strategico dovrebbe essere sancita sia dall’ampliamento di ruolo delle istituzioni scientifiche e universitarie sia dalla possibilità di orientare l’azione digitale verso compiti essenziali per l’intera società. Ma la riflessione potrebbe proseguire: mentre aumenta la stretta per evitare il contagio e per spingere a questo scopo al maggiore isolamento, possiamo pensare che le abitudini e i sacrifici che stiamo facendo ci servano a capire che il modo in cui abbiano vissuto sinora non era l’unico possibile, e che se vorremo vivere meglio occorre rivedere le cose in profondità, senza attendere che un’altra emergenza ci trovi impreparati per ragioni già note.
Stefano Cristante
Mario Buscicchio


L’analisi
LA RINASCITA PUÒ PARTIRE SOLO DALL’IMPRESA
di Mauro BUSCICCHIO
Viviamo scene di un film che sinora abbiamo visto solo davanti a uno schermo e invece, giorno dopo giorno, ci rendiamo consapevoli di una realtà a cui non eravamo preparati e che mai avremmo immaginato di esserne protagonisti in prima persona. Ogni momento che passa è accompagnato da scene e dati drammatici.
La mente, come per spirito di difesa e sopravvivenza, al periodo in cui ne usciremo con la sconfitta o l’isolamento del virus, la scoperta di un farmaco specifico o di un vaccino.
Vero, prima o poi finirà, ma il tempo è un fattore essenziale sia per la nostra salute sia per riprendere il trascorrere quotidiano e ordinario delle nostre vite di cui, forse, avremo maggiore coscienza del loro valore.
Questa situazione di estremo disagio e di grande emergenza, sta mettendo a dura prova anche il sistema economico e produttivo del nostro Paese e del mondo intero, con effetti che ancora oggi non siamo in grado di poter prevedere e stimare. Le necessità contingenti sono giustamente focalizzate a dare il maggior supporto possibile all’intero sistema sanitario e alle misure di contenimento sempre più rigide e proporzionate alla diffusione del contagio.
Assistiamo, quindi, alla chiusura forzata di quasi tutte le attività e alla limitazione di altre con conseguenze che, come un virus, si propagano su settori che sono le fondamenta di un intero sistema su cui si basa l’economia e la ricchezza del nostro Paese.
La chiusura delle attività determina il crollo dei consumi, di conseguenza il rapporto di lavoro dipendente viene sospeso o cessato e l’imprenditore non può continuare a produrre margini necessari anche per il suo stesso sostentamento. Il Governo ha sinora previsto la cassa integrazione per quasi tutte le categorie di lavoro dipendente, ma pensiamo a quelle che non vi rientrano (es. lavoratori precari) e alle famiglie degli imprenditori, soprattutto delle imprese familiari, che devono affrontare una serrata inaspettata. Il Governo ha disposto una serie di interventi per la moratoria dei prestiti delle imprese che potranno essere sospesi o non revocati sino a fine settembre, oltre ad una serie di interventi sempre mirati a “congelare” le varie situazioni debitorie, anche di natura fiscale. Si è concentrato, quindi, agli aspetti di natura finanziaria e a salvaguardare, in qualche modo, il reddito dei lavoratori.
Queste misure, oltre che essere temporanee, non incidono, almeno per ora, sulla gestione della ripresa, cioè non hanno una visione che va oltre la situazione contingente.
Fermare il Paese, come è stato necessariamente disposto, presuppone, però, che la ripresa delle attività deve essere fortemente accompagnata da una serie di misure ben più consistenti di quelle attuali, che devono far riprendere fiducia e prospettiva a chi, dopo un periodo di tempo che ad oggi non conosciamo ancora, ha dovuto fermare tutto e deve riprendere un’attività che partirà con il peso dei debiti “congelati” e allungati, che non sono solo quelli nei confronti degli istituti finanziari e del fisco, ma anche quello dei tributi locali e dei propri fornitori tra cui i fitti delle locazioni immobiliari, tenendo conto anche della circostanza che le eventuali liquidità detenuti all’inizio della crisi sono servite anche per far fronte alle esigenze contingenti o che per tale fine sono ulteriormente aumentati i debiti.
La ripresa e il suo trend di crescita dipenderanno, quindi, dalla capacità dei nostri imprenditori di rimettere in moto le attività produttive e commerciali, ma soprattutto dalla ripresa dei consumi locali e internazionali. I primi, troveranno dei freni iniziali dovuti al clima di incertezza che regna e ad una diversa scala dei bisogni che in via naturale ogni consumatore rivedrà alla luce della tremenda esperienza trascorsa, ma anche dalla mancanza dei redditi di coloro che avranno perso il lavoro per la chiusura di alcune attività, delle famiglie imprenditrici e da una domanda dei non residenti rappresentata dal flusso turistico, che sarà fortemente compromesso almeno per quest’anno, e dagli ordini dall’estero che avranno gli stessi problemi che noi accuseremo al nostro interno, perché l’epidemia e i suoi drammatici effetti avranno interessato tutto il mondo.
Il recente annuncio da parte di rappresentanti del Parlamento europeo di sospendere il patto di stabilità, consentirà di assumere tali decisioni di finanza pubblica senza, però, dimenticare che il peso enorme del nostro debito pubblico rappresenta una zavorra che frena la crescita del Paese e il suo ulteriore aumento non può che far peggiorare, almeno nel medio/lungo termine lo svantaggio competitivo dell’economia nazionale.
A ciò si aggiunge la circostanza che la flessione del fatturato delle imprese, conseguente alla crisi sanitaria, la diminuzione dei consumi e la sospensione del pagamento dei tributi porteranno ad una significativa riduzione delle entrate fiscali e quindi ad un ulteriore sbilancio delle uscite rispetto alle entrate pubbliche, che dovrà essere finanziato con ulteriore debito.
Alla fine, è vero che lo scioglimento del laccio europeo ci consentirà di incrementare le spese e gli investimenti pubblici, ma questi dovranno essere ben finalizzati ad una decisa spinta delle attività produttive e commerciali, ad un significativo incremento della base occupazionale e a quelle attività didattiche e di ricerca che possono creare i presupposti per una robusta visione del futuro.
Ritengo che, seppur non potendo fare stime più precise sui tempi e sugli effetti, una volta passata l’ondata del contagio occorrerà vincere anche la sfida della ripresa che, probabilmente, sarà ancora più lunga e che dovrà essere stimolata con importanti interventi da parte del Governo e delle amministrazioni regionali e locali, non solo con significativi supporti di natura finanziaria (contributi in conto capitale e interessi, garanzie sui finanziamenti ed altro) ma anche con una decisa e radicale semplificazione degli adempimenti burocratici e dell’apparato amministrativo, dalla cui efficienza e trasparenza dipendono gran parte della ripresa stessa. Ciò presuppone una illuminata visione programmatica e strategica del futuro del nostro Paese e una capacità di realizzazione concreta, veloce ed efficace.
Questo periodo buio sta insegnando a tutti quanto siano importanti, da una parte la tutela della salute in termini di prevenzione e cura e dall’altra l’utilizzo diffuso di tecnologie digitali che consentono di poter lavorare, effettuare operazioni e adempimenti vari con un PC o smartphone e un collegamento internet.
Da domani la nostra vita dovrà cambiare, soprattutto nel modo in cui utilizzeremo il nostro tempo sempre più prezioso, facendo ricorso ai mezzi che la tecnologia offre e che tutti gli operatori economici devono poter utilizzare, così come le amministrazioni pubbliche devono attrezzarsi e fornire tutti i servizi on line in modo veloce e trasparente.
In ultimo, un cenno al sistema bancario nazionale, che dopo la crisi del 2008 e dopo aver superato la fase di unione bancaria europea, si trova ad essere un attore fondamentale e indispensabile per il sostegno finanziario di imprese e famiglie, seppur in un mutato e peggiorato scenario di rischiosità dell’economia in generale. Il suo supporto non potrà mancare e dovrà essere gestito con una strategia ed un indirizzo diversi rispetto al passato, molto più votato all’analisi e alla valutazione delle prospettive di ripresa delle attività e dei piani d’investimento. Nel prossimo futuro, forse, ci si dovrà abituare a dare maggiore valore al sostegno del welfare, agli obiettivi sociali e ambientali, nell’ambito di un’attività d’impresa che non può mirare sempre e solo alla mera crescita del profitto, ma dovrebbe essere meglio sviluppato il concetto di “crescita sostenibile”.
Si spera, che il ritrovato spirito nazionale si consolidi e cresca in tutti e che l’azione politica sia soprattutto incentrata sul benessere e lo sviluppo della collettività e non solo di fazioni o correnti d’interesse.
Mauro Buscicchio

 
Antonio Errico

Riflessioni
La speranza nelle nuove generazioni
Antonio ERRICO
Si chiama Jim Lovell. La notte del 13 aprile del 1970, a bordo dell’Apollo 13, dal mondo della Luna disse così: Houston, abbiamo avuto un problema. Era esploso un serbatoio di ossigeno danneggiandone un altro. Quella notte Jim Lovell aveva quarantadue anni. Adesso ne ha novantadue.
Emilio Cozzi per il “Corriere della sera”, ricorda di quando dall’Apollo 8 vide la Terra per la prima volta. Un pianeta piccolissimo, che spariva dietro a un dito appoggiato al finestrino. Tutto quello che conosceva era dietro il suo dito, dice.
Milioni di persone, montagne, foreste. Tutto dietro il suo dito. Dice che è stato in quel momento che si è reso conto di quanto il genere umano sia fortunato a vivere su un pianeta come la Terra, che ci dà aria, acqua e tutto quello di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.
Nessuno sa se negli sconfinati universi esista un luogo come la Terra e creature fortunate di vivere in quel luogo. Nessuno è riuscito a saperlo fino ad ora.
Quello che possiamo e dobbiamo sapere noi è che non sempre si ha consapevolezza della fortuna, per cui questa Terra non di rado la maltrattiamo, non di rado diamo per scontato che debba darci tutto senza che noi le si dia niente, non di rado deturpiamo la sua bellezza.
L’attenzione che a questi argomenti si rivolge negli ultimi tempi, che senza alcun dubbio ha una straordinaria importanza, forse però non basta.
Forse occorrerebbe prendere coscienza civile, sociale, e quindi culturale, di alcune posizioni: per esempio di quelle assunte con forza da Edgar Morin.
La più forte tra le forti posizioni di Morin, probabilmente è quella che si sintetizza nel concetto di umanità come destino planetario che sostanzialmente riguarda la relazione inevitabile ed essenziale fra l’individuo e la specie umana nella sua totalità.
Per cui, in sostanza, si pone l’urgenza dello sviluppo di una coscienza comune e di una solidarietà planetaria del genere umano, perché la condizione dell’umano non è più soltanto una dimensione ideale ma si è trasformata in comunità di destino.
Solo la coscienza di questa comunità di destino può consentite all’umanità di realizzare una comunità di vita, che significa, molto semplicemente, acquisire conoscenza di quello che deve essere fatto da ciascuno per tutti, da tutti per ciascuno, da soli e con gli altri, per se stessi e per gli altri. Con le competenze, le arti, le scienze, che si hanno; con le esperienze e le passioni che si hanno. Perché non c’è più nulla che si faccia per se stessi che direttamente o indirettamente non riguardi anche gli altri; non c’è più nulla che riguardi una comunità, la più piccola comunità, che non coinvolga con i suoi effetti il pianeta per intero.
Dobbiamo imparare a “esserci” sul pianeta, dice Morin. Imparare a vivere, convivere, condividere, comunicare, essere in comunione.
L’identità dell’uomo non può essere che terrestre.
Certo, ci sono tante cose che non vanno da queste parti, e tutto quello che non va dev’essere attribuito alla circostanza particolare, che spesso viene ritenuta inevitabile e adottata come giustificazione, che, alla fine dei conti, siamo soltanto uomini.
È una cosa che ha già detto, in modo proverbiale, un po’ di tempo fa, un tale di nome Terenzio nel “Punitore di se stesso”.
C’è Menedemo che sta lavorando il suo campo. Cremete gli si avvicina e gli chiede com’è che alla sua età e con tutti i servi che ha, se ne sta a spaccarsi la schiena nel campo.
Menedemogli risponde di farsi i fatti suoi, per cui Cremete si giustifica dicendo homosum, nihil humani a
mealienum puto.
Morin, allora, sostiene che per compensare la giustificazione, si rivela necessaria, indispensabile, una politica dell’uomo, una politica di civiltà, una riforma del pensiero, un’antropoetica, un vero umanesimo, e, forse soprattutto, la coscienza di una Terra-Patria. Che significa, anche in questo caso molto semplicemente, comprendere veramente che si appartiene ai deserti, ai mari, a tutto l’esistente, non al proprio angolo di mondo. Poi significa anche comprendere veramente che un altro posto dove andarsene non c’è e non ci potrà essere mai. Prendiamone atto.
Facciamocene una ragione. Una bella storia è quella che raccontano le generazioni che stanno venendo, il loro prendersi a cuore le sorti della Terra. Abbiamo fiducia di loro. Ci affidiamo. Ci fidiamo. Siamo convinti che in qualche modo riusciranno a salvare questa cosa piccola piccola che Jim Lovell poteva far sparire dietro un dito appoggiato al finestrino.
D’altra parte lo aveva detto anche Pirandello: non è che “un’invisibile trottolina, cui fa da sferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo”. Anche se i pianeti vaganti per l’infinito sono tanti, un altro su cui poterci rifugiare non esiste. Ma se pure esistesse, se pure fosse perfetto, non potrà mai essere più bello di questo mondo così imperfetto.
Nessuna civiltà potrà mai essere più intelligente di questa stupida civiltà. Nessuna vita senza affanno potrà essere così affascinante di questa nostra vita tanto affannata. In questo mondo imperfetto, stupido, a volte crudele, ci sono creature che ad ogni istante fanno sforzi incredibili, indicibili, per renderlo migliore, per fare il dono ai suoi abitanti di un po’ di serenità. Allora, in fondo, stiamo bene qui dove stiamo, perché abbiamo la speranza di poterci stare meglio.
Antonio Errico

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