Due persone che provano dolore a causa della cultura della competizione
Due persone che provano dolore a causa della cultura della
competizione
Mi racconta il suo dolore e l’ascolto. Sta male, ed è
sincero nel racconto della sua sofferenza. Mi dice che il reddito di
cittadinanza non gli è sufficiente, che se non ha lavoro è per le scelte che ha
fatto quando aveva una famiglia, quando ha preferito essere vicino ai figli
invece di emigrare al nord dove lo aspettava un incarico prestigioso e ben
remunerato.
Sta male. La ragione è culturale. Lui pensa che abbiano
ragione a non volergli bene, che è legittimo per la nostra cultura non amare un
uomo che non lavora.
Il dolore di quest’uomo è un dolore culturale. Se invece di
essere un uomo del 2019 fosse stato una donna del 1969 il fatto di non
lavorare, di accudire i figli, di stare a casa, non rappresenterebbe una
ragione per non essere giustamente amata. Una donna che decide di non lavorare,
che decide di essere una casalinga, è considerata da parte della nostra cultura
come legittima e quindi rispettata ed amata.
Non è così per un uomo.
Può essere ingiusta la cultura della competizione con i
maschi che vengono considerati come il genere che ha sempre vinto. Può essere
ingiusta la nostra cultura con un uomo che non desidera competere, che ha
scelto di collaborare. Può essere una diseguaglianza non poter fare il
casalingo al punto di provare dolore perché ci si accorge che i più cari ti
tolgono l’amore e tu ritieni che abbiano fatto bene a togliertelo perché nella
nostra cultura ci sei immerso sino al collo pure tu.
Ho avuto una conversazione con lui. Mi ha espresso tutto il
suo disagio. Io l’ho ascoltato. Ho accennato a qualche suggerimento sulla
possibilità che il reddito di cittadinanza sia un modo per entrare nel mercato
del lavoro. Dalle sue obiezioni ho capito che per quella persona, quel mercato
del lavoro, quello fondato sulla competizione, sarebbe stato motivo di un disagio
ancor più doloroso della sua disoccupazione.
Non gli ho più parlato di come si possa trovare lavoro. Gli
ho detto che se l’avesse trovato, se avesse dovuto vivere praticando la
competizione, il suo disagio sarebbe diventato insopportabile e forse il dolore
che avrebbe provato gli avrebbe potuto causare anche una privazione della sua
salute fisica.
A quel punto ho notato un rasserenamento e mi ha detto: “Lo
sai che penso anch’io quello che mi hai detto?”
Ho capito che non gliel’aveva mai detto nessuno fino ad
allora. L’ho capito da come mi ha guardato dopo quel nostro colloquio. Quando
lo incontro mi guarda con amicizia perché sa che io considero legittima la sua
vita, considero legittimo il modo in cui vive con il reddito di cittadinanza.
Io rispetto e considero legittimo quest’uomo.
Ogni giorno mi capita di ascoltare le persone che mi raccontano
le loro storie di dolore, e sempre, quel dolore, ha una causa di tipo
culturale.
Mi è capitato anche su Facebook con una ragazza che mi ha
scritto il motivo del suo dolore. Io l’ho sintetizzato in questi versi:
Ti amo da impazzire
Solo per il mio corpo
ti chiedo di aspettare
Me lo impedisce un credo
Non lo voglio profanare
E ti amo tanto
Ma non sino a lasciarmi andare
quel credo s’affaccia più vicino
Mi dice che posso
Ma solo quel mattino
Quando andrò in sposa
Amore mio vicino
E solo allora ciò in cui credo
Farà di me e te un unico sospiro
Amore mio aspettami
T’imploro non lasciarmi
Sarà quel giorno il nostro
E non è mai troppo tardi
Abbracciarsi e stringersi
Come tu sai fare
Perché è solo così
che io so amare
Per fare del mio corpo
promessa eterna
Per fare del mio cuore
la tua casa bella
In un sorriso tutto
ti dico amore mio
Non mi lasciare mai
E per questo prego Dio
#magicoalchimista
L’ho ascoltata e lei soffre perché l’uomo che ama le ha
tolto l’amore. Lei soffre perché la cultura della competizione ha sancito anche
la libertà di praticare l’intimità senza un legame stabile. Lei anche se
dichiara di appartenere ad una cultura che invece prevede l’intimità solo in
presenza di un legame stabile, appartiene alla cultura della competizione e
ritiene che l’amore le sia stato tolto per sua colpa, per non aver voluto praticare
l’intimità in assenza di un legame stabile. E per questo prova una dolorosa
sofferenza.
Mi ha cercato più volte perché io ho sinceramente ritenuto
legittimo quello che fa e l’ho rispettata e la rispetto. Ha provato sollievo anche
se ancora si chiede come mai quell’uomo che le ha tolto l’amore, la cerchi
ancora.
Tutti abbiamo un dolore o più dolori e sempre quel dolore ha
ragioni di tipo culturale. Parliamo con chi ci considera legittimi e ci rispetta.
Parliamo con chi si comporta come in quella famosa battuta che fa più o meno
così: “in caso tu sia colpevole di qualcosa gli unici che ti difenderanno e diranno
al mondo che sei innocente saranno tua madre e il tuo avvocato”.
Ecco la madre per cultura, e l’avvocato per professione,
considera legittimo e rispetta la persona che si sia macchiata di un qualche
atto che viola le regole della nostra esistenza sociale punibile dalla legge.
Io ho deciso di “conservare” il rispetto e il riconoscimento
della legittimità per le persone che hanno messo in atto comportamenti che
violano la “cultura della competizione” come quell’uomo e quella donna di cui
vi ho riferito in antecedenza.
Questo mio comportamento è conseguenza della mia scelta di avere
prevalentemente dei comportamenti incentrati sulla collaborazione, e nello
stesso tempo della riflessione che mi rende consapevole del desiderio di comportamenti
conseguenza della cultura della competizione in modo tale da farmeli cadere
dalle mani con un sorriso.
Antonio Bruno Ferro
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