E finalmente vedo il cielo
Si inizia a intravedere la possibilità di tornare gradualmente
a lavorare, alla vita di prima di questa pandemia che ha fermato tutto e tutti.
Chi di noi poteva immaginare che sarebbe accaduto? Io sinceramente no, non mi
sono mai posto questo problema e non ci ho pensato nemmeno quando sono cominciate
a giungere le prime notizie dalla Cina. È così lontana la Cina, pensavo tra me
e me, e nonostante le immagini di ospedali costruiti a tempo di record, non mi
passava proprio lontanamente nella mente che sarebbe potuto accadere qualcosa
del genere qui, nella penisola che si immerge nel grande lago salato.
Poi la consapevolezza che sarei dovuto stare a casa, la
paura del contagio, le preoccupazioni dei familiari, di mia moglie, delle
persone a cui voglio bene e che mi vogliono bene. Ho paura, certo che ho paura!
Ho paura di perdere la vita, così com’è successo a tante donne e uomini che, a migliaia,
sono morti sotto i nostri occhi, senza che potessimo fare nulla, nonostante gli
ospedali, nonostante i medici, nonostante la scienza.
Siamo un popolo di formiche come scriveva Tommaso Fiore descrivendo
il Sud Italia, il mio Sud. Ma siamo tutti Sud, anche il Nord Italia, anche il
Mondo che adesso con il Virus si è trasformato in Sud Globale. Vedere le scene
che arrivavano dalla laboriosa Lombardia e dall’operoso Veneto, mi ha ricordato
la stessa identica densità di dolore delle immagini del Sud di prima del boom
economico anni 60, le stesse immagini di chi affolla il mediterraneo rischiando
la vita in cerca di un posto in cui vivere bene.
Siamo un popolo di formiche che vanno e vengono per
costruire un luogo che poi una folata di vento spazzerà via, come questo virus più
simile al vento che nessuno sa da dove viene e dove va, ma senti sulla mano
quando la metti fuori dal finestrino della tua auto in corsa, o sulla faccia quando
te la sferza una bufera in riva al mare.
Passa la bufera, lo sappiamo tutti. E forse sta passando
anche questo virus continuando a lasciare sul terreno ancora troppi morti ogni
giorno. Già! I morti, quel numero che ascoltiamo, hanno uno dopo l’altro, un
volto! Uno diverso dall’altro e ognuno di quei volti ha una famiglia che piange
la loro scomparsa. Le centinaia di morti di ogni giorno sono le decine di
migliaia di persone che non hanno nemmeno la possibilità di salutarli per l’ultima
volta. Interi Mondi ed Universi che scompaiono, spazzati via senza una parola,
e comunicati al mondo nascosti in quel numero quotidiano di quel signore in
divisa, che snocciola morti e vivi come fosse il suono di una chiesa piena di
donne, che recitano il rosario.
Che senso ha tutto questo? Nessuno! Tutti si sforzano di
dare una spiegazione, di cavare degli insegnamenti. Altri si arrampicano sulla
vetta del futuro per illustrare visioni di vita nuova, più etica, piena di
robot e collegamenti smart working che qualcuno ha tradotto in “lavoro agile”
come se quello che facciamo adesso sia un “lavoro goffo”. Abbiamo bisogno nuovamente
di certezze e i sacerdoti della scienza e tecnica celebrano liturgie quotidiane
che prospettano Mondi sicuri, solidi, granitici. Ma il Mondo è traballante e
precario come un castello di sabbia che scompare alla prima onda. Le certezze
sono solo artificiali e fragili rispetto alla potenza dell’ambiente nel quale
siamo immersi, di cui facciamo parte e che è uno con noi.
Questa Torre di Babele che avevamo costruito competendo uno
con l’altro è caduta giù travolta da un virus. Lo capite si o no? Sociologi, scienziati
della comunicazione preti laici e preti veri questo dicono senza dirlo, magari
vogliono nasconderlo anche a loro stessi, vogliono continuare a credere che
siamo al sicuro, che siamo di nuovo al sicuro.
Nessuno è al sicuro, nessuno lo è mai stato e nessuno mai lo
sarà. Il nostro è un continuo trasformarci nella trasformazione continua nella
quale siamo immersi, nessuno di noi è mai come un minuto prima né come sarà un
minuto dopo.
La buona notizia è che se io non sono quello che ero, posso
essere quello che voglio. E allora quella cappa di predestinazione all’infelicità
si dilegua, evapora per lasciarci finalmente guardare quel cielo blu e il sole
che ci da la forza di essere finalmente felici.
Antonio Bruno Ferro
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