Cambiare il punto di vista: circolarità della vita e pratiche filosofiche
Cambiare
il punto di vista: circolarità della vita e pratiche filosofiche∗
Rossella
Mascolo
Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Cagliari
“[…] esporremo un’interpretazione che non concepisce il conoscere
come una
rappresentazione del ‘mondo là fuori’, bensì
come permanente produzione di un
mondo attraverso il processo stesso del vivere” (Maturana e Varela
1999, 31).
“[…] è un invito ai lettori, perché abbandonino le loro
abitudinarie certezze e in tal
modo pervengano a un’altra visuale di quello che costituisce
l’umano” (Ivi, 33).
Riassunto
Riflettendo attraverso l’orizzonte conoscitivo della teoria della
complessità e dei sistemi
autopoietici, possiamo guardare in modo nuovo alle varie
situazioni di pratica filosofica, sia che si
tratti di quelle fra filosofo e consultante, sia fra persone che
si incontrano creando uno spazio
circolare, come accade nella Philosophy for Children o nel Circolo
Riflessivo di Humberto
Maturana o ancora nel Dialogo di Bohm.
Cercheremo qui di tratteggiare, riservandoci di approfondire in
seguito, il punto di vista che sorge
considerando che ognuno di noi è un sistema autopoietico e che
ogni azione innesca una rete di
relazioni inestricabilmente parte di una dinamica sistemica, ove i
nodi della rete interagiscono e
ciascuno influenza ed è influenzato da ogni altro, e ove cade il
concetto di causalità lineare e con
esso qualsiasi tentativo di controllo sugli esseri umani e
qualsiasi intervento istruttivo. Abbracciamo
la via conoscitiva dell’ “oggettività” tra parentesi, che dà
uguale dignità a tutti i possibili multiversi,
rendendo vano il desiderio di cambiare l’altro e facendoci sentire
responsabili per le nostre azioni.
Se nessun punto di vista prevale sull’altro e noi siamo il e nel
nostro sistema autopoietico,
percezione e illusione non possono essere distinte nel momento
dell’esperienza, con importanti
conseguenze che riguardano anche l’impossibilità da parte di
chiunque di arrogarsi il diritto di
discriminare fra ciò che è e ciò che non è. Noi scegliamo di
ascoltare l’altro senza pregiudizio,
essendo inoltre consci della imprescindibile coloritura emozionale
dell’altrui e del nostro
comportamento e che non ci sono patologie nel dominio biologico e
il dolore è sempre
culturalmente condizionato.
Rifletteremo sulle modalità di creazione di relazioni con il
“Dialogo”, qui chiamato “polimorfo”,
volendo mettere l’accento sul suo svilupparsi attraverso
molteplici componenti, in una processualità
che coinvolge l’interezza dell’individuo e in cui sono
inseparabili l’aspetto emozionale da quello
razionale, la mente dal corpo, e che si evolve nel tempo finché la
situazione di mal-essere non si sia
dissolta. Durante il dialogo polimorfo nel linguaggio sorge la
nostra intersoggettività, come un’area
dove possiamo e dobbiamo negoziare la nostra comunicazione
continuamente, con un
∗ Relazione presentata in
occasione della IX International
Conference on Philosophical Practice, Carloforte, 16 - 19
luglio 2008.
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atteggiamento fenomenologico, ascoltando e guardando ciò che si
mostra in quest’area di
condivisione creata continuamente insieme, con un atteggiamento di
amore, l’emozione che ci
permette di agire secondo le modalità del comportamento sistemico,
nell’armonia sistemica di ciò
che ciascun essere umano è.
Parole
Chiave
Autopoiesi, Complessità, Dialogo, Relazione, Circolarità.
Oltre
la frammentazione del mondo
Come già in altri tempi, forse di più ora, in questa era di
“comunicazione globale”, può capitare che
in luoghi lontani del pianeta sorgano pensieri che segnano una via
che prima non c’era, aprendo
orizzonti diversi e nuove visuali, e può essere interessante
costruire una sinergia fra tali pensieri,
qualora appaia che le loro strade si muovano verso la stessa meta.
È quel che si proverà a fare qui, attraverso alcune idee del pensiero
filosofico di pensatori,
provenienti da aree del sapere distanti, se tradizionalmente
intese, i quali, a dispetto di tali
tassonomie, hanno evoluto una loro visione del mondo comune. Forse
espressione di un’unica
esigenza, quella di avvolgere con uno sguardo d’amore un pianeta
distrutto dalla frammentazione e
dalle guerre, essi, prendendo le mosse da aree del sapere, come la
fisica quantistica e la biologia,
che potrebbero non sembrare adatte a tal fine, hanno argomentato a
favore di una “realtà” senza
limiti o confini rigidi e permanenti fra differenti aree della
conoscenza. Il loro intento e quello di chi
scrive è quello di dissolvere semplicemente le vecchie categorie
costruendo i pensieri agendo, nel
tentativo di non farsi intrappolare in rigide strutture
precostituite. Questo può riportare al mondo
precategoriale di husserliana memoria, là dove, alla ricerca di
una riappropriazione di senso della
propria vita, l’obiettivo del fenomenologo era quello di muoversi
da un’analisi del nostro mondo
della vita, permeato di scientificità, tornando all’ “originale” o
“pre-dato” mondo della vita, nel
quale le divisioni fra differenti aree della conoscenza non hanno
significato (Varela, Thompson e
Rosch 1991, 18) e nel quale conta il nostro vivere-agire-conoscere.
Come fa notare Bohm, nella nostra società l’intera conoscenza è
frammentata e questo processo di
divisione è diventato “un modo di pensare riguardo alle cose”. Il pensare
in questo modo
frammentario conduce inevitabilmente ad uno stato di malessere interiore,
cui può attribuirsi il
nome di nevrosi, e quando la frammentazione viene ritenuta oltre i
limiti “normali”, quando diventa
insostenibile, gli individui nei quali essa si manifesta possono
venire classificati come paranoidi,
schizoidi, psicotici, ecc. (Bohm 1980, 1-3).
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Se per Bohm pensando diamo forma alle cose che conosciamo e
viviamo in una stretta circolarità
fra colui che pensa e ciò che egli pensa, che finisce con il
retroagire su se stesso, per Maturana e
Varela e la loro teoria dell’autopoiesi, per la quale gli
organismi sono sistemi che si creano e si
automantengono1
(Maturana e Varela 1999;
2001), l’intero nostro vivere è un agire e l’agire è
conoscere, in un circolo inscindibile, in cui la cognizione è
l’azione che si effettua con il vivere, per
cui il mondo non è qualcosa che ci è dato, ma qualcosa che noi
assumiamo vivendo e conoscendo.
La complessità di questo concetto merita alcune considerazioni2.
Quando due sistemi autopoietici interagiscono in maniera
ricorrente fra di loro, dando luogo a
mutui cambiamenti, secondo una modalità che diviene ontogenetica,
essi entrano in accoppiamento
strutturale. Da notare che i cambiamenti possono essere innescati
sia dalle interazioni connesse con
la dinamica interna dell’unità autopoietica sia da quelle
generantesi a causa dell’interazione fra le
unità autopoietiche (Maturana e Varela 1999). Fra queste ultime si
possono verificare incontri
strutturali, che innescano reciproci cambiamenti strutturali,
incontri che, se protratti nel tempo,
possono dar luogo a dei veri e propri accoppiamenti strutturali
(Maturana 2006).
Un tale processo sarebbe all’origine delle interazioni sociali. È
ben noto ad esempio il caso di
individui che vivono in coppia per tutta la vita e che muoiono al
morire di uno dei due componenti
la coppia stessa, tanto sono forti le compenetrazioni vitali che
si sono create durante la storia del
loro accoppiamento strutturale. Ma Maturana e Varela parlano di
accoppiamento strutturale, con
tutto quanto da ciò deriva nei termini delle reciproche
modificazioni della struttura delle entità in
interrelazione, più in generale ogniqualvolta che, con
l’accettazione dell’altro nella convivenza, si
realizzi un fenomeno sociale, quella socializzazione senza la
quale non ci sarebbe umanità
(Maturana e Varela 1999, 203-204). I sistemi sociali umani,
secondo i nostri autori, possiedono una
loro chiusura operativa, in quanto comunità umane formate
dall’accoppiamento strutturale dei suoi
componenti, il quale si attua in un dominio tipicamente umano,
quello del linguaggio; tutta la storia
evolutiva dell’essere umano è associata ai suoi comportamenti
linguistici e la sua plasticità
comportamentale ontogenetica, che in tali domini si è sviluppata,
li rende anche possibili. In un
1 La parola autopoiesi, letteralmente “autocreazione”, coniata dallo
stesso Maturana, è costituita dalle parole greche
autos, che significa “sé”, e poiein, che significa “produrre, creare” (Maturana e
Poerksen 2004, 97), volendo indicare
così la principale caratteristica dei sistemi viventi, che è
quella di produrre e sostenere se stessi all’interno di una
dinamica circolarmente chiusa, in cui non c’è separazione fra
produttore e prodotto (Maturana e Varela 1999).
2 Tralasciamo in questa sede
di approfondire un’importante questione epistemologica, che riguarda
l’individuazione
della cosiddetta terza via della conoscenza, come via che corre
sul crinale fra il soggettivismo e quindi il solipsismo e
l’oggettivismo. Maturana e Varela propongono una loro soluzione,
che conserva la “contabilità logica”, ponendo
l’accento sulla posizione dell’osservatore, il quale appare
situato in un orizzonte che gli consente di guardare sia
all’unità autopoietica in quanto tale, dal punto di vista della
sua dinamica interna, sia agli effetti della sua interazione
con quello che lui stesso definisce l’ambiente: «Mantenendo chiara
la nostra contabilità logica, questa complicazione
scompare, ci facciamo carico di questi due punti di vista e li
mettiamo in relazione tra loro in un dominio più ampio da
noi stabilito» (Maturana e Varela 1999, 124).
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sistema sociale, dunque, gli individui interagiscono nel
linguaggio e, grazie alla loro plasticità
strutturale, che deriva dal loro essere dotati di un sistema
nervoso complesso, vivono in coerenza e
in armonia (Ivi, 174-175).
Maturana continua mettendo subito in campo un altro concetto
saliente nella filosofia sua e di
Varela, che è quello dell’unitarietà mente-corpo, dell’impossibilità
per noi di un operare astratto,
che non riguardi la nostra corporeità, anche nel linguaggio.
«Il bambino impara a parlare senza cogliere i simboli,
trasformandosi nello spazio di convivenza configurato nelle sue
interazioni con la madre, con il padre e con gli altri bambini e
adulti che costituiscono il suo mondo. In questo spazio di
convivenza il suo corpo va cambiando come risultato di questa
storia e seguendo una direzione contingente a questa
storia. E il bambino che non è esposto a una storia umana e non
vive trasformando in essa il fatto di vivere in essa, non
è umano» (Maturana 2006, 71-72).
Noi incorporiamo, letteralmente, i nostri valori e le nostre
abitudini e la difficoltà che abbiamo nel
cambiarli, dopo che si è vissuti a lungo in un certo modo, dipende
dall’ “inerzia corporea”, che però
non va vista come un limite, poiché noi viviamo attraverso il
corpo, che è “la nostra possibilità e
condizione di essere” (Ivi, 72).
In particolare, poi, un sistema autopoietico è sempre in
accoppiamento strutturale, secondo una
congruenza strutturale necessaria, rispetto all’ambiente, visto anche
come altro sistema
autopoietico, secondo la logica interna dell’unità autopoietica
stessa e dell’ambiente.
«In queste interazioni la struttura dell’ambiente innesca
solamente i cambiamenti strutturali delle unità autopoietiche
(non li determina nè li “istruisce”) e lo stesso avviene per
l’ambiente. Il risultato sarà una storia di mutui cambiamenti
strutturali concordanti finchè non si disintegreranno: ci sarà
cioè accoppiamento
strutturale» (Maturana e Varela 1999,
80).
Maturana, in un suo recente lavoro già citato, esprime molto
chiaramente l’importanza di quella che
lui ora chiama “congruenza” fra l’organismo e l’ambiente. Anzi la
storia dei cambiamenti
strutturali, che avvengono per mantenere la congruenza fra noi e
l’ambiente, il quale cambia in
interrelazione con noi finchè esistiamo, traccia il corso della
nostra vita. Noi viviamo il nostro
presente che si va generando continuamente come trasformazione
dell’orizzonte di congruenze cui
apparteniamo con l’ambiente e con gli altri con i quali stabiliamo
di volta in volta un campo di
68
coordinazioni comportamentali, che si trasformano in congruenze
con il procedere della storia della
nostra vita (Maturana 2006, 73-77).
L’argomentazione circolare, forse difficoltosa da seguire,
espressa tramite un linguaggio
ugualmente circolare, rispecchia la circolarità stessa del
dispiegarsi dell’esistenza e del suo rotolare
disegnando la storia, come conseguenza del determinismo
strutturale che individua l’identità di
ciascun sistema autopoietico che noi siamo, senza che nessuno
esterno a noi possa specificare ciò
che ci accade, assumendo al più per noi la valenza di una
coincidenza storica.
«Anche in una conversazione […] ognuno ascolta a partire da se
stesso; e costitutivamente, in ragione del proprio
determinismo strutturale, non può che ascoltare a partire da se
stesso» (Ivi, 75-76).
Le parole stesse che state leggendo ora sono, secondo Maturana, un’alterazione
che scatena in
ciascuno di voi un cambiamento strutturale determinato in voi,
rispetto al quale chi scrive è solo la
contingenza storica per cui voi vi ritrovate a pensare quello che
state pensando. Quindi, tutto quanto
ci accade, in senso stretto, non accade in maniera casuale, ma,
come sostiene anche Bohm (1996),
«tutto ci capita in un presente interconnesso […]. Al tempo
stesso, niente di quello che facciamo o pensiamo è banale o
irrilevante, perché tutto quello che facciamo ha conseguenze nell’ambito
dei cambiamenti strutturali cui apparteniamo»
(Maturana 2006, 76).
Non è possibile, in una tale visione, una qualsivoglia concezione
dualistica, proprio perché tutto è
interconnesso nell’azione del nostro vivere. Anche il nostro
stesso pensiero non è privo di
conseguenze. Il nostro mondo si delinea durante i cambiamenti
strutturali che si generano
continuamente nell’interazione fra noi e l’ambiente in funzione di
come noi siamo, che è funzione
dell’organizzazione del nostro sistema autopoietico.
A questo punto, Varela, mostrando la forte impronta fenomenologica
che caratterizza il suo
pensiero, introduce un interessante gioco di punti di vista: fa
un’importante distinzione fra
l’ambiente del sistema vivente, così come esso appare
all’osservatore e senza riferimento all’unità
autopoietica, che lui chiama semplicemente “ambiente”, e
l’ambiente come esso si dà per il sistema
autopoietico, che si definisce nello stesso movimento che fa
sorgere la sua identità e che esiste
soltanto in quella mutua definizione, che egli chiama “mondo”
dell’unità sistemica. Il surplus di
significazione che abita il “mondo” è legato all’intenzionalità
che esprime il sé dell’unità
69
autopoietica e questo avviene sempre, secondo Varela, ex nihilo: la significazione che viene
costantemente effettuata è quella che noi possiamo descrivere come
una mancanza permanente nel
vivente, non è pre-data o pre-esistente. Ogni atto di
significazione si manifesta come una
perturbazione nell’autopoiesi, un “breakdown”, un momento di rottura,
che può essere visto come
l’iniziazione di un’azione riguardante ciò che sta mancando in una
certa parte del sistema in modo
che questo possa mantenere la sua identità, e quindi il suo
accoppiamento strutturale, facendo nello
stesso tempo sorgere un mondo distinto (Varela 1992b, 7-8), la
propria visione del mondo
attraverso quello specifico atto conoscitivo.
Francisco Varela afferma che l’individuo e il mondo si creano l’un
l’altro (Poerksen 2004, 86) e,
inoltre, in sintonia con Maturana, che la conoscenza è concreta,
incorpata, incorporata nel corpo,
vissuta, situata e la sua storicità e il suo contesto non sono un
rumore che occulta un’astratta
configurazione nella sua vera essenza, ma noi operiamo sempre in
una sorta di immediatezza in una
data situazione e il nostro mondo vissuto è così, pronto, alla
mano, senza che ci possa da parte
nostra essere alcuna deliberatezza su cosa esso sia e su come noi
lo abitiamo (Varela 1992a, 12).
Considerata in questo modo, la filosofia può essere soltanto
filosofia nella vita, nella quale la
riflessione stessa si manifesta e vive come forma di esperienza e
la riflessione teoretica non può non
tener conto della dimensione corporea da cui dipende (Varela,
Thompson e Rosch 1991, 28). La
pratica filosofica, figlia della filosofia così intesa, è, allora,
la professione del filosofo.
Il
multiverso
Il pensare secondo la teoria dei sistemi autopoietici, conduce
Maturana a disegnare un nuovo modo
di vedere, che tiene conto delle operazioni attraverso cui sorge
l’esperienza e del fatto che credere
in una realtà esistente indipendentemente da noi corrisponde alla
credenza nella possibilità di
affermazioni universalmente valide, quelle alle quali ci si
riferisce ad esempio usando espressioni
come “obiettivamente è così” o “la tal cosa è oggettivamente
valida o vera”, per cui nessuno può
sottrarsi alla loro autorità. Questo modo di fare può essere usato
per gettare discredito su certi tipi di
esperienze, come spesso avviene nella nostra cultura, basata sul
potere, sulla discriminazione e sul
controllo, fornendo la giustificazione per forzare le altre
persone ad assoggettare se stesse al proprio
punto di vista. Egli, invece, propone un multiverso nel quale sono
valide numerose realtà secondo
differenti criteri di validità e l’unica cosa che si può fare è
invitare l’altro a pensare a quanto si
crede e si ritiene valido per se stessi (Maturana 2004, 54-55).
Questo atteggiamento è quello che
segue la via della conoscenza che egli chiama dell’ “oggettività
tra parentesi”, la cui base
emozionale, posto che qualsiasi nostro agire si svolge in un
substrato emozionale, è il provare gioia
70
per la compagnia di un altro essere umano e nella quale
l’osservatore diventa l’origine di tutte le
realtà e, con un motivo che sembra riprendere Bohm, tutte le
realtà sono create attraverso
operazioni di distinzione dell’osservatore, il quale è però
cosciente di questo. Infatti è molto
interessante che, se noi decidiamo di seguire questa via di
spiegazione,
«siamo consci che non possiamo in alcun modo essere in possesso de
“la verità”, ma che ci sono numerose possibili
realtà. Ciascuna di esse è pienamente legittima e valida sebbene,
naturalmente, non ugualmente desiderabile. Se
seguiamo questa via di spiegazione, non possiamo domandare la
sottomissione dei nostri compagni esseri umani, ma li
ascolteremo, cercheremo la loro cooperazione e converseremo con
loro» (ivi, 55-56, traduzione mia).
Un’altra implicazione di questo modo di argomentare è l’insolito
modo di considerare la razionalità,
che non è più, come tradizionalmente intesa nella società
occidentale e come sarebbe seguendo la
cosiddetta via dell’ “oggettività senza parentesi”, una proprietà
costitutiva dell’osservatore che gli
consente di conoscere principi universali e a priori, in guisa di una
categoria di kantiana memoria,
permettendogli di accedere tramite la conoscenza a qualcosa che
esiste “oggettivamente”; non è
quella ragione alla quale le emozioni non danno contributi se non
in senso negativo, obnubilandola;
non è quella ragione che svela la verità attraverso una
rivelazione del reale rinviando in modo
trascendentale a ciò che è come se fosse indipendente dall’osservatore
e da ciò che egli fa3. La
razionalità è vista da Maturana solo come l’espressione della
nostra coerenza operativa nel
linguaggio in un particolare dominio di realtà e come tale, per
lui, essa ha una posizione centrale in
tutto ciò che facciamo, poiché noi argomentiamo razionalmente su
tutto, anche sulla ragione stessa,
per mezzo del nostro operare nel linguaggio. Come fenomeno di tale
operare essa ha un fondamento
biologico, per cui le diverse culture non differiscono nella
razionalità, ma nell’accettazione
emozionale implicita o esplicita delle premesse non razionali
sotto le quali hanno luogo i loro
differenti tipi di discorsi, azioni e giustificazioni per le
azioni. Nella via esplicativa dell’
“oggettività tra parentesi” l’osservatore sa che un suo
cambiamento emozionale o d’umore
comporta un cambiamento delle premesse operazionali sotto le quali
ha luogo la sua prassi di
vivente, ossia di quelle premesse che a un osservatore appaiono
come accettate a priori e da cui
discendono i suoi argomenti spiegati razionalmente (Maturana 1988,
14-16). Un esempio che
comprova in modo semplice il discorso di Maturana è la differenza
nelle risposte che riceviamo se
ci rivolgiamo alla stessa persona trovandola di cattivo o buon
umore.
3 Feyerabend argomenta in modo
convergente rispetto a quanto fa Maturana, sia per quanto riguarda il concetto
di
“oggettività”, che quello di “Ragione”. Si veda, ad esempio:
Feyerabend Paul Karl, 2004 - Addio alla ragione.
Armando Editore, Roma.
71
Gli esseri umani vivono interazioni ricorrenti attraverso il
“languaging” e si crea un sistema sociale
come una rete di coordinazioni di azioni in un sistema chiuso dove
tutti i suoi membri operano con
l’emozione di mutua accettazione, l’amore (ivi, 39). Con
un’argomentazione che non può non
richiamare quella di Antonio Damasio in L’errore di Cartesio4, Maturana illustra come la ragione
agisca in noi soltanto attraverso le emozioni che sorgono nel
corso delle nostre conversazioni o
riflessioni all’interno del flusso del nostro produrre linguaggio
e del nostro “emozionare”, con un
andamento di ricorsività continuo.
Per di più, anche se consideriamo il fondamento biologico delle
emozioni, proprio della nostra
corporeità, e il fatto che la cultura non costituisca le nostre
emozioni, dobbiamo ricordarci che il
corso del nostro “emozionare” è principalmente culturale (Ivi,
43), come il dualismo
ragione/emozione.
Multiversi
e rispetto per l’altro
Come riassume Varela, l’intero discorso sui sistemi viventi
autopoietici dispiega un profondo significato
etico.
«Nel nostro interesse dovremmo accettare pienamente la situazione
notevolmente diversa e più difficile di esistere in un
mondo dove nessuno in particolare può vantare una migliore
comprensione in senso universale. Una cosa è davvero
interessante: che l’empirico mondo del vivente e la logica dell’autoreferenza,
che l’intera storia naturale della circolarità
indichino nell’etica – tolleranza e pluralismo, distacco dalle
proprie percezioni e valori per fare spazio anche a quelli
degli altri – il vero fondamento della conoscenza e anche il suo
punto di arrivo. A questo punto, le azioni sono più
chiare delle parole» (Varela 2006, 270-271).
Superando l’atteggiamento tradizionale che ritiene che
l’esperienza debba essere o oggettiva, con
riferimento ad un mondo che esiste ed è a noi accessibile nella sua
realtà, o soggettiva, qualora si
creda che tutto dipenda dalla nostra soggettività, Varela invita a
seguire il filo conduttore della
circolarità, nella differente prospettiva della partecipazione e
dell’interpretazione, in cui il soggetto
e l’oggetto sono inseparabilmente mescolati e il mondo si dà a noi
in una trama plastica, né
soggettiva né oggettiva (Varela 2006, 270).
In modo analogo, come abbiamo visto, il mettere “l’oggettivà tra
parentesi” di Humberto Maturana
porta avanti un cambiamento radicale da un universo unico e
oggettivo, dove la realtà è la stessa per
4 Da notare che la famosa
opera di Antonio Damasio è stata pubblicata per la prima volta nell’edizione
inglese nel 1994,
in edizione italiana nel 1995, mentre l’articolo cui ci riferiamo
qui è del 1988 (Antonio Damasio, 1994 - Descartes'
Error: Emotion,
Reason, and the Human Brain.
Avon Books, 1994. Traduzione italiana: L’errore di Cartesio.
Emozione, ragione e
cervello umano. 1995, Editore Adelphi,
Milano).
72
chiunque, a un multiverso, nel quale ogni mondo costruito
dall’osservatore è ugualmente valido e
unico relativamente agli altri.
Un’importante conseguenza di tutto questo è che percezione ed
illusione non possano essere
distinte, quantomeno al momento dell’esperienza, e anche quando vi
riflettiamo sopra si crea una
circolarità autoreferenziale, poiché possiamo solo confrontare la
nostra esperienza con un’altra
nostra esperienza e così via.
Non si vuole in questo modo affermare che viviamo in un mondo di
illusioni, perchè per dire ciò
dovremmo rimanere nella via conoscitiva dell’oggettività senza
parentesi, poiché dovremmo poter
fare riferimento almeno da ultimo ad una “realtà”; dovremmo,
infatti, poter spezzare alla fine il
cerchio della nostra serie di esperienze confrontando l’ultima con
un riferimento ad una “realtà” che
ci dica una volta per tutte che ogni cosa è un’illusione,
consegnandoci nelle mani la Verità.
Ovviamente non è questo il nostro modo di argomentare. Maturana ad
esempio fa semplicemente
notare che noi viviamo all’interno del flusso della nostra
esperienza, all’interno del quale una certa
stabilità, di cui abbiamo bisogno, ci è data dalla coerenza
operativa del nostro sistema biologico, a
cui appartiene la nostra “logica” argomentativa la cui coerenza è
perciò intersoggettivamente
condivisa. Non possiamo, però, mai sapere in anticipo se ciò che
ci sembra una percezione certa
oggi, ci apparirà, invece, come un’illusione domani, se non a
posteriori come riflessione di un
essere umano vivente nel linguaggio (Maturana e Poersken,
134-135).
Pertanto, sottolineiamo ancora, adottando la via di spiegazione
dell’ “oggettività tra parentesi”,
l’osservatore deve accettare l’altro anche riguardo alla sua
inabilità di distinguere nel corso
dell’esperienza fra illusione e percezione (Maturana 1988, 4-7).
Quanto detto fin qua implica la credenza nella possibilità
comunque di comunicare con l’altro,
costruendo la relazione nell’azione dialogica. Proviamo a
considerare ora cosa un osservatore
esterno a tale relazione ritiene sia un atto comunicativo. Può
essere utile introdurci a tale questione
prendendo in esame il significato della parola “comunicazione”, la
quale come è noto, deriva dal
latino ed è formata dalla parola commun e dal suffisso “ie”, che,
come fa notare Bohm, è simile a
“fie” e quindi sta per “fare, costruire”. Dunque, “comunicare”
potrebbe essere inteso come “mettere
qualcosa in comune”, ad esempio trasmettere l’informazione o la
conoscenza da una persona ad
un’altra nel modo più accurato possibile, ma non solo (Bohm 1996,
2). Si potrebbe subito notare
che se “comunicare” può essere inteso come “mettere qualcosa in
comune”, dovremmo presupporre
l’esistenza in sé di quel qualcosa che viene messo in comune e
questo ci riporterebbe alla divisione
soggetto/oggetto che qui stiamo proponendo di superare, come hanno
ampliamente argomentato nei
loro lavori gli autori cui ci stiamo riferendo.
73
Ad esempio, la comunicazione non può essere definita come un
processo di trasferimento da un
mandante a un ricevente con l’uso di un mezzo nel quale
l’informazione comunicata è compresa da
entrambi, secondo il punto di vista dei sistemi autopoietici, che
sono incompatibili con le
informazioni istruttive, poiché come sappiamo
«niente di esterno ad un sistema determinato strutturalmente può
specificare i cambiamenti strutturali ai quali va
incontro come conseguenza di un’interazione. Un agente esterno che
interagisce con un sistema strutturalmente
determinato può soltanto innescare in esso cambiamenti strutturali»
(Maturana 1988, 10-11, traduzione mia)
i quali sono però funzione del suo determinismo strutturale, ossia
dipendono dalla sua specifica
identità come unità autopoietica. Anche nella vita di ogni giorno
è evidente che il parlare non
assicura l’ascolto, poiché
«ogni persona dice ciò che dice o ascolta ciò che ascolta secondo
la propria determinazione strutturale. Dal punto di
vista di un osservatore, c’è sempre ambiguità in un’interazione
comunicativa» (Maturana e Varela 1999, 169,
traduzione mia).
Di questa ambiguità5
Bohm coglie la dinamica
processuale, in maniera eccellente, con la sua
trasformazione in un’area di costruzione intersoggettiva. Se
proviamo, infatti, a guardare ad una
situazione dialogica, caratterizzata dalla mancanza di pregiudizi
e dalla libera disposizione
all’ascolto dell’altro, atteggiamenti che, come vedremo, vengono
ripetutamente richiesti anche da
Humberto Maturana, potremmo facilmente concordare sul fatto che
«quando una persona dice qualcosa, l’altra persona non risponde in
generale con esattamente lo stesso significato come
questo viene inteso dalla prima. Al contrario, i significati sono
soltanto simili, non identici. Così, quando la seconda
persona replica, la prima persona vede una differenza tra quello che egli intendeva dire e quello che
l’altra persona
[come appare a lui] ha capito. In considerazione di questa
differenza, egli è in grado di dire qualcosa di nuovo, che è
rilevante sia per i propri punti di vista sia per quelli
dell’altra persona» (Bohm 1996, 2, traduzione mia).
Questo processo, altalenante fra gli individui in dialogo,
prosegue con la continua emergenza di
nuovi contenuti, comuni ai suoi partecipanti.
«Così, in un dialogo, ciascuna persona non tenta di mettere in comune certe idee o oggetti di informazione che gli
siano
già noti. Si può, invece, affermare che le due persone stanno
facendo qualcosa in comune, ad esempio stanno creando
qualcosa di nuovo insieme» (Bohm 1996, 2, traduzione mia).
5 Come non ricordare a
proposito del concetto di “armonia” lo splendido “Ambiguità e armonia” di Paul
Karl
Feyerabend? (vedi Feyerabend Paul Karl, 1999 – Ambiguità e armonia. Editori Laterza, Roma-Bari).
74
Se, però, mancano le premesse di apertura comunicativa e ciascuno
vuole imporre all’altro le
proprie idee o i propri “oggetti” comunicativi, sorgono
inevitabili problemi di comunicazione (Ivi,
3).
Detto questo, anche se apparirà ovvio, è importante mettere in
evidenza che, in questo modo di
intendere la pratica filosofica, il filosofo non è considerato
estraneo alla relazione, ma è egli stesso
parte della situazione in cambiamento insieme al consultante.
Dal punto di vista della pratica filosofica questo implica un
differente modo di agire, che non pone
il filosofo nella posizione privilegiata di colui che crede nell’esistenza
di un universo assoluto al
quale egli solo possa accedere, un po’ come il filosofo della Repubblica di Platone, attingendo ad
una verità che egli può trasmettere al consultante. Nel nostro
multiverso il filosofo non vede se
stesso come un depositario della verità, ma considera ugualmente
validi tutti i punti di vista, tutti i
versi del multiverso; non ama cambiare l’altro e sa che non può
forzarlo attraverso la ragione ad
accettare come razionalmente valido un argomento che l’altro non
accetti implicitamente come
valido, tenendo anche conto del dominio emozionale nel quale si
entra al momento del dialogo
(Maturana 1988, 14).
Non possiamo fornire “input” che entrino all’interno del sistema
autopoietico che è la persona che
sta di fronte a noi, ma ciascun individuo reagisce a quelli che
sono per lui solo “stimoli esterni”, in
dipendenza del proprio assetto autopoietico o della propria causa
formativa, come direbbe Bohm.
Egli riprende il concetto aristotelico di causa formale, come
attività formante che è causa dello
sviluppo e della differenziazione delle cose e suggerisce di
chiamarla, con un linguaggio più
moderno, “causa formativa”, per evidenziare che tale processo
causale non è imposto dall’esterno
all’individuo, ma sorge al suo interno come movimento che è
essenziale per l’attuarsi della sua
identità, implicando, fra l’altro, in tal modo la causa finale
(Bohm 1980, 15).
Ciascuna persona sarà sempre caratterizzata dalla propria
identità, nella propria corporeità, limite,
ma anche possibilità di vita e conoscenza, e tramite le sue
interazioni dialogiche, in accoppiamento
strutturale con un’altra o con altre, tenderà comunque ad
esprimere il proprio implicito o esplicito
“progetto di vita”. In ultima analisi non ci saranno cambiamenti
drastici nel suo modo particolare di
dare significato alla propria esperienza, poichè qualsiasi nostra
esperienza è tale perché è vissuta da
noi attraverso il nostro essere come siamo come sistema
autopoietico che si autoalimenta nel suo
vivere-agire-conoscere, nel quale un’azione esterna ad esso può di
certo innescare cambiamenti
strutturali, ma per l’appunto solo innescare cambiamenti che si
manifestano seguendo il
determinismo strutturale, causa formativa dell’esplicitarsi del
nostro “progetto di vita”. Non si
tratta, però, di alcun tipo di teleologia, poiché ciascuno di noi
come unità autopoietica reagisce
75
secondo la propria specificità di momento in momento alle
sollecitazioni ricevute; solo un
osservatore esterno potrà interpretare la storia delle sue modificazioni
manifeste come un
estrinsecarsi di un suo “progetto di vita”.
Dunque, in una situazione di pratica filosofica, qualsiasi
cambiamento emergente nel sistema del
consultante è sempre una riorganizzazione della propria
esperienza, che si verifica in funzione di
come è il consultante stesso e non è determinato dal filosofo;
anche quest’ultimo non è indenne dai
cambiamenti strutturali, che anche in lui come sistema
autopoietico vengono innescati dal suo
interagire con il consultante. Ripetiamo che l’essere umano non
può essere controllato e non può
esservi intervento istruttivo, come vorrebbe il principio di
causalità lineare e un certo tipo di
concezione terapeutica, che si basa su di essa; d’altro canto,
qualsiasi intervento del filosofo può
innescare una serie di cambiamenti nel consultante e, come detto
sopra con Bohm, in se stesso, che
non possono essere previsti dal filosofo e che proseguono ben
oltre la situazione dialogica,
situandosi e rivelandosi anche nell’ambito della rete delle
relazioni socio-ambientali cui il
consultante appartiene. Al filosofo si impone una grande
assunzione di responsabilità ed egli deve
diventare cosciente che la qualità delle sue azioni guidate dalle
sue intenzioni dipende dalla sua
saggezza, la quale si manifesta nell’abilità di ascoltare senza
pregiudizio, con mente aperta e
mostrando attitudine al lasciar fare6 (Maturana e Poersken 2004,
114).
Così, durante una situazione di pratica filosofica, il filosofo
può solo ascoltare in piena disponibilità
l’altro, limitandosi ad offrire un sostegno di tanto in tanto ai
suoi ragionamenti, sempre comunque
tenendo conto della reciprocità della relazione comunicativa e del
fatto che non ci può essere un
intervento istruttivo, come abbiamo visto sia con Bohm che con la
teoria dei sistemi autopoietici di
Maturana e Varela. Poi
«un giorno […] il cliente
si sentirà trasformato e ricomincerà a gestire la sua vita senza aiuto esterno»
(ivi, 125).
Anche per le situazioni di pratica filosofica di gruppo si possono
fare considerazioni simili. In
ciascun gruppo, costituito dai singoli sistemi autopoietici degli
individui che lo compongono,
emerge la propria organizzazione autopoietica.
6 Il discorso di Maturana si
rivolge ad un certo tipo di terapeuti e, in generale, a «tutti coloro che affermano
di conoscere
una procedura universalmente valida per liberare la gente dal
dolore e dalla sofferenza», per quanto riguarda la sua
critica alla possibilità di controllare deterministicamente
l’essere umano (Ibidem). La sua filosofia è stata in qualche
modo recepita nell’ambito di alcuni indirizzi psicoterapici, come
quello costruttivista e quello sistemico-relazionale
(AA. VV, 2007 – Fondamenti comuni e diversità di approccio in psicoterapia. Editore Franco Angeli, Milano). D’altro
canto, certe sue descrizioni delle dinamiche relazionali fra
terapeuta e paziente riteniamo si adattino anche alla relazione
o alle relazioni che si costruiscono nelle pratiche filosofiche e
in particolare nella situazione dialogica duale.
76
Accenniamo solo brevemente ad una pratica di gruppo piuttosto
diffusa nel mondo, anche se ancora
non molto in Italia, la “Philosophy for Children”7, durante la quale tipicamente si costituisce una
“comunità di ricerca”, dove i suoi componenti si scambiano le
idee, apertamente e con rispetto
reciproco. Basta fare l’esperienza di qualche sessione successiva
di P4C per notare come la
comunità di ricerca si evolva, seguendo una propria specifica
identità sistemica, che emerge
dall’accoppiamento strutturale che si realizza nel tempo fra i
membri che la costituiscono e questo
sempre più in modo indipendente dal facilitatore e dal testo
stimolo8.
Qualcosa del tutto simile avviene nel Circolo Riflessivo di
Maturana:
«Un “circolo riflessivo” è uno spazio costituito da persone
invitate a riflettere e a conversare, ad ascoltarsi
reciprocamente, ad avere opinioni su un tema, in questo caso
realizzando una collaborazione, cospirazione-coispirata
come fenomeno concettuale, biologico»9.
Durante questo tipo di esperienza, si crea, imparando, lo spazio
relazionale della propria esistenza
biologico-culturale, - che, per quanto detto sinora, non può che
essere tale, senza peraltro farsi
sopraffare dalle attribuzioni negative che certi filosofi danno al
termine “biologico” - concepito
come dominio esperienziale di riflessione e interazione, che evoca
e realizza la possibilità di
responsabilità etica in un mondo di co-esistenza collaborativa.
Quasi nello stesso modo, David Bohm suggerisce di vivere la sua
filosofia attraverso il suo
“Dialogo”, come un modo per esplorare e capire ogni sorta di
processo che frammenta e interferisce
con la comunicazione, usando non soltanto i prodotti del nostro
intelletto cosciente, ma anche il
nostro “feeling”, le emozioni, le intenzioni e i desideri, quel
“fiume di significazione10” che fluisce
fra, attraverso e in mezzo a noi.
Con la sua natura esplorativa, senza regole ferme impartite da
un’autorità e il suo apprendere che si
dispiega in un processo di partecipazione creativa fra pari, il
dialogo, così inteso, crea un
“significato condiviso” nel gruppo e tiene il gruppo insieme.
7 La letteratura di
riferimento è ampia. Suggeriamo qui il bel saggio di Fabio Mulas, “Philosophy for
Children.
Riferimenti teorici, curricolo e applicabilità”, reperibile
facilmente on line in http://www.phronesis.info/RivistaI4.html.
8 La scrivente, che ha
frequentato per due volte il seminario estivo di formazione di Acuto (FR) per
diventare
facilitatore, ha realizzato alcune esperienze di Philosophy for
Children sia con adulti che con bambini della scuola
elementare.
9 http://www.transmediale.de/site/programm/overview/february2/. L’autrice di questa saggio prese parte ad un
Circolo
Riflessivo con Humberto Maturana e Ximena Davila, il primo
febbraio del 2008 a Berlino in Germania.
10 Bohm usa il termine meaning, che è letteralmente “significato”, ma
preferisco tradurre con “significazione”, per
rendere la concezione dinamica che egli stesso mostra di avere di
questo processo.
77
Il
dialogo polimorfo
Una riflessione particolare merita ora il termine “dialogo”. Per
questo ci rifaremo a David Bohm, il
quale ricorda che esso, dal greco antico “dialogos”, è composto da
“logos”, che significa in una
prima accezione “la parola” o nel nostro caso piuttosto “significato
della parola”, e “dia”, che
significa “attraverso”. Questa seconda parte è particolarmente
importante, poiché non fa riferimento
a “due” sole persone, per cui il dialogo può essere concepito
svolgersi fra un qualunque numero di
persone (Bohm 1996, 6), come conversazione fra pari.
Volendo evidenziare come si svolge il processo dialogico nella
dinamicità della relazione,
definiamo qui “polimorfo” il dialogo, per mettere in luce il suo
svolgersi costruendosi attraverso
molteplici dimensioni, coinvolgendo la persona nella sua
interezza, senza separare la componente
emozionale da quella razionale, impedendo la separazione
corpo-mente, ed evolvendosi travolgendo
eventuali nodi problematici e la relativa situazione di malessere,
che finisce con il trasformarsi o
addirittura con il dissolversi. Le parole stesse hanno a tal fine
una loro efficacia, poiché esse
«sono azioni, non sono cose che si spostano da qui a là. […] è la
rete di interazioni linguistiche quella che ci rende come
siamo. […] è all’interno del linguaggio stesso che l’atto
conoscitivo, nella coordinazione comportamentale che
costituisce il linguaggio, ci offre il mondo a portata di mano. Ci
realizziamo in un mutuo accoppiamento linguistico,
non perché il linguaggio ci permetta di dire quello che siamo, ma
perché siamo nel linguaggio, in un continuo essere
immersi nei mondi linguistici e semantici con i quali veniamo a
contatto» (Maturana e Varela 1999, 195-197).
Nell’interrelazione linguistica, ritroviamo e scopriamo noi stessi
in divenire, in continua
trasformazione, mentre costruiamo il nostro mondo linguistico
insieme con altri esseri umani (Ivi,
197) e ciò è possibile solo se ci muoviamo nel dominio
dell’accettazione dell’altro, senza voler
imporre il nostro punto di vista.
Come abbiamo visto, ogni sistema razionale ha una base emozionale
e questo spiega perchè non è
possibile convincere nessuno con un argomento logico, nonostante
la coerenza logica sia in qualche
modo insita nel nostro essere esseri biologici, dotati di
organizzazione, come dicono Maturana e
Varela, se non vi è stata una precedente accettazione a priori.
La forza di un’argomentazione
“logica” ci imprigiona, ci mette al muro, ma non ci convince, non
ci lascia quella sensazione di
soddisfazione che si ha solo se comunichiamo nell’area
dell’intersoggettività emotiva. Spesso,
inoltre, senza che ce ne rendiamo conto, subiamo le resistenze
imposteci dalla cultura o culture del
nostro o nostri gruppi di appartenenza, che si manifestano a
livello emotivo, facendoci sentire che
qualcosa è così “vero” che non possiamo fare a meno di cercare di
convincere l’altro della nostra
“verità” (Bohm 1996, 11-12). D’altro canto, noi come filosofi,
nella consapevolezza di un simile
78
rischio, non agiremo con arroganza, né però ci appelleremo alla
logica per ricondurre alla ragione
l’altro.
«Tutto quello che possiamo fare in una conversazione nella quale
non c’è un accordo implicito precedente è sedurre il
nostro interlocutore in modo che egli accetti come valide le
premesse implicite che definiscono il dominio nel quale il
nostro argomento è operazionalmente valido» (Maturana 1988, 16).
Dobbiamo, infatti, accettare le emozioni degli altri dialogando
con loro o meglio, tramite la
condivisione emozionale di comuni premesse, creare i presupposti
alla realizzazione e alla
costruzione del dialogo stesso.
È interessante il termine “languaging” che Maturana conia per
descrivere la relazione dinamica e
funzionale che accade nell’esperienza immediata e nella
coordinazione delle azioni consensuali con
gli altri; “languaging” corrisponde all’espressione dell’umana
temporalità: ogni cosa che accade nel
linguaggio, nel qui e ora, costruendosi per mezzo della relazione
tra emozioni e linguaggio. Si
rovescia, perciò, il punto di vista cognitivista che vede il
linguaggio come una semplice
trasmissione di informazione da un individuo ad un altro, usando
soltanto la ragione, distillata dal
pensiero non si sa da chi e non si sa come.
Ogni azione linguistica non resta senza effetto, creando un legame
fra esseri umani nell’ambito
della loro reciproca plasticità strutturale, legame che ci porta a
riflettere sulla presenza dell’altro,
svelando un profondo significato etico. Di ciò dobbiamo essere
coscienti durante il dialogo delle
pratiche filosofiche, così come, considerando specifiche
situazioni dialogiche, del fatto che
«compiamo un’operazione su un metalivello poiché abbiamo l’abilità
di usare il linguaggio e di far sì che siamo consci
di un evento e delle sue conseguenze. In questo atto di diventare
coscienti, i fenomeni con i quali abbiamo a che fare si
trasformano in oggetti di contemplazione. Noi guadagnamo una forma
di distanza che ci manca quando siamo
completamente immersi nelle nostre attività e situazioni»
(Maturana 2004, 73, traduzione mia).
Del resto, mentre dal dominio generico della comunicazione, come
«mutua induzione di
comportamenti coordinati che si verifica fra i membri di una unità
sociale» (Maturana e Varela
1999, 167), si giunge a quello linguistico, qualora facciamo, come
osservatori, «una descrizione
dell’ambiente comune agli organismi che interagiscono» (Ivi, 179),
mediante la riflessione sullo
stesso dominio linguistico, si produce il linguaggio, con la
comparsa del dominio semantico creato
dal nostro operare linguistico, nell’ambito del quale noi
esistiamo come osservatori e «facciamo
descrizioni delle descrizioni che facciamo», come stiamo facendo
ora con quanto stiamo scrivendo,
con una ricorsività circolare, dalla quale ancora una volta è
impossibile uscire. Il linguaggio è parte
79
della nostra ontogenesi individuale, influenzando tutto di noi,
«dall’andatura agli atteggiamenti, fino
alla politica» (Ivi, 179-180).
Perdipiù
interagenti, i cambiamenti
strutturali degli organismi che interagiscono nel linguaggio sono una funzione
di ciò che ha
luogo nel loro “languaging”
e viceversa» (Maturana 1988, 20, traduzione mia).
Maturana, dopo aver fatto
un’ulteriore specificazione, chiamando
«“conversazione” quel
flusso di coordinazioni di azioni e di emozioni della vita di ogni giorno che
noi come osservatori
distinguiamo aver luogo tra
esseri umani che interagiscono ricorrentemente nel linguaggio» (Maturana 1988,
23,
traduzione mia),
fa notare ancora più
chiaramente che
«ogni conversazione alla
quale noi partecipiamo ha conseguenze sulla nostra corporeità e ogni cosa che
accade nella
nostra corporeità ha
conseguenze sulla conversazione alla quale partecipiamo» (ivi, 38, traduzione mia).
Per tutto quanto detto
finora, appare evidente che noi siamo responsabili delle nostre azioni, che si
realizzano nel dominio
delle relazioni umane in una rete sistemica, ove ogni parola e ogni pensiero
innescano modificazioni
strutturali negli individui, poiché esistiamo nel linguaggio. Proprio questo
esistere nel linguaggio ci
consente di riflettere e, nello spazio della distanza fra noi e i nostri
vissuti
quotidiani,
«di distinguere le
conseguenze delle nostre azioni per gli altri esseri viventi, classificandole
come responsabili o
irresponsabili. In questo
modo, il nostro prenderci cura degli altri guadagna la presenza – e sorge la
possibilità di
un’azione responsabile»
(Maturana 2004, 72, traduzione mia).
La
costruzione della situazione problematica
A causa, quindi, di questa rete inscindibile mente-corpo, la
conversazione può avere conseguenze
negative, creando nodi problematici, che coinvolgono anche la
nostra fisicità, quando non è
armonica rispetto al sistema autopoietico delle persone coinvolte,
infatti
«poiché la nostra presenza come esseri umani è sempre un nodo in
una rete di conversazioni, frequentemente scopriamo
noi stessi in situazioni che noi viviamo come contraddizioni
emozionali, poiché esse nascono come intersezione nella
80
nostra corporeità come realizzazioni di conversazioni che hanno
luogo in domini contraddittori di azioni. Quando
questa situazione diventa ricorrente, si instaura la sofferenza»
(ivi, 25, traduzione mia).
Se noi consideriamo osservatore ed osservato come aspetti
interpenetrantesi di una “realtà”
sistemica, che costruiamo vivendola e vivendola nel linguaggio,
possiamo, con Maturana, dire che i
problemi non esistono al di fuori dell’osservatore che li produce
nel e con il linguaggio e
l’osservatore stesso, con tutte le sue operazioni di riferimento e
individuazione delle entità, sorge
nel linguaggio ed è conscio di non esistere al di fuori del
linguaggio (Maturana 1988, 17; 30).
Del resto, come ricorda Bohm e come già detto con Maturana e
Varela, anche il pensiero produce
effetti, ma essi non vengono presi in considerazione e spesso noi
pensiamo di avere un problema,
senza renderci conto che è il pensiero stesso il nostro problema
(Bohm 1996, 10-11).
In una simile situazione trova un’ottima possibilità di azione il
dialogo filosofico, che, invitando
alla riflessione, può aiutare ad acquisire consapevolezza sulla
circolarità di tale processo generativo
del nostro pensiero, innescando nell’individuo sofferente una
sorta di processo di “guarigione”.
Non si può poi non tener conto del fatto che in un dialogo le
persone provengono da differenti
culture o sotto culture, che predispongono a molte differenti
assunzioni ed opinioni delle quali al
momento del dialogo non abbiamo coscienza (Bohm 1996, 11). Non
dobbiamo, quindi, dimenticare
durante esso il potere formativo della cultura, per cui, come
sostiene Maturana, e, poichè comunque
ogni azione è inserita in una dinamica di relazioni
inestricabilmente parte di una dinamica
sistemica, non possiamo ignorare il contesto dei comportamenti
culturali delle persone in dialogo
con noi, ossia l’insieme dei comportamenti che vengono acquisiti
ontogeneticamente in un gruppo
sociale e trasmessi attraverso le generazioni (Maturana e Varela
1999, 171).
La cultura condiziona e forma il concetto stesso di “patologia”.
Egli ritiene che non esistano
patologie nel dominio biologico e che il dolore che diventa
manifesto nel corso di una terapia è
sempre culturalmente condizionato, figlio di una cultura
patriarcale (Maturana e Poersken 2004,
122), regolata da affermazioni di possesso e costante negazione
degli altri esseri umani, come
sostiene anche Varela (Varela 2004, 94-95), seguendo la via dell’
“oggettività senza parentesi”. In
quest’ottica è, pertanto, necessario che si sia consapevoli del
potere formativo della cultura per
avere consapevolezza di come agiamo e di cosa accade in noi
(Maturana e Poersken 2004, 122).
Quando uno psicoterapeuta dice del paziente che ha allucinazioni, perché
ha perso la sua
“connessione con la realtà”, usa una formula diagnostica
contaminata ontologicamente, poiché basa
la sua diagnosi implicitamente su una realtà che suppone possa
essere conosciuta (ivi, 122-123). Ma
81
«non ci sono patologie nel dominio biologico. Il gatto non è una
tigre sottosviluppata; una tigre non
è un gatto patologicamente arrogante. […] Per quelli che hanno
scelto la via dell’ “oggettività tra
parentesi”, la patologia non è una caratteristica del mondo
esistente indipendentemente da un
osservatore: una malattia appare come una condizione che gli
osservatori – a seconda della loro
inclinazione – possono considerare indesiderabile.
Corrispondentemente, essere normali e in salute
significa che non si fa alcuno sforzo nel fiume della vita a
cambiare la propria situazione con un
aiuto esterno. Non c’è una “patologia come tale”, non ci sono
“problemi come tali” e non c’è
malattia indipendente dai desideri e dalle predilezioni di un
osservatore» (ivi, 123).
Secondo Maturana
«l’obiettivo da perseguire è il raggiungimento di un’adeguata
coscienza della responsabilità connessa alla descrizione di
alcune condizioni come “malato” o “normale”: tale attribuzione
riposa su una decisione per la quale non c’è una ragione
più alta, nè una legittimazione assolutamente valida, e neanche
alcuna giustificazione osservatore-indipendente» (ivi,
123, traduzione mia).
In quest’ottica, è possibile spingere il discorso filosofico in
un’area considerata da molti non di sua
pertinenza, forse soprattutto per le incrostazioni semantiche che
nel tempo ha acquisito il termine
“terapia”, finendo con il medicalizzarsi eccessivamente,
intendendo a sua volta con
“medicalizzazione” tutto ciò che è più legato all’utilizzo
deterministico di tecniche farmacologiche.
Se, invece, riflettiamo sull’etimologia della parola “terapia”,
che deriva dal greco antico θεραπεία,
dove aveva il significato di cura, recupero, rimedio, trattamento,
come chiunque può trovare in un
dizionario specializzato, l’azione del filosofo può avere effetti
“terapeutici” e anche
un’intenzionalità “terapeutica” nel momento in cui nella
situazione di pratica filosofica egli decide
di prendersi cura, pur con un atteggiamento di estrema apertura,
senza intenti di prevaricazione o di
informazione, come detto finora, della persona che gli si rivolge.
Il consultante, dal canto suo,
ricercherà il suo intervento evidentemente spinto dall’esigenza di
sciogliere qualche suo nodo
interiore che, alterando la propria percezione di equilibrio della
propria organizzazione autopoietica,
produrrà in lui un malessere di diversa entità. Il filosofo, nel
dialogo, potrà fornire al consultante
quel sostegno di cui questi ha bisogno in funzione della propria
organizzazione autopoietica, magari
anche riflettendo sui condizionamenti culturali. Potrà, come effetto,
aversi lo scioglimento del nodo
problematico e quindi il ritrovamento dell’equilibrio, con
conseguente riconquista dello stato di
benessere.
82
Ciascuna persona possiede e mantiene nel corso della propria vita
un senso di unicità individuale e
personale attraverso la propria attività autopoietica. Noi siamo
quel che siamo come risultato della
nostra storia di interazioni con il mondo e non con la nostra
storia passata, nel senso che come non
possiamo individuare una teleologia nel realizzarsi di ciascun
sistema autopoietico, ma solo una sua
continua e imprevedibile risistemazione strutturale, così
procedendo a ritroso non sembra palusibile,
come osservatore, delineare una causalità lineare che motivi il
nostro vissuto presente; noi siamo il
presente e ci prepariamo a perpetuare noi stessi. Così quando il
filosofo come facilitatore cerca di
innescare un dialogo, non dovrebbe preoccuparsi di ricercare con
il consultante la causa efficiente
dei di lui problemi, quanto piuttosto di aiutare il consultante a
mantenersi all’interno della
situazione nel suo momento presente. Il senso di non adeguatezza,
di spaesamento, di non
appartenenza consapevole alla situazione che si sta vivendo creano
sofferenza. Può essere più utile,
consentendone un’alleviazione, ricercare la causa formativa che
specifica il sistema autopoietico del
consultante e quindi il suo “progetto di vita” riguardante ed
esplicato in quel certo vissuto, e
inclinare il dialogo verso la riflessione su di esso, magari
relativamente a quella certa situazione
problematica che ha spinto il consultante a richiedere l’incontro
con il filosofo.
Il
dialogo polimorfo ci permette di danzare insieme
Se noi viviamo nel linguaggio e siamo in esso e accettiamo la
molteplicità dei punti di vista della
via di spiegazione dell’ “oggettività tra parentesi”, per la quale
l’emozione base è l’amore,
rientriamo in quello che secondo Maturana è un sistema di umani.
L’amore è l’emozione che
specifica il dominio di azioni nei quali i sistemi viventi co-ordinano
le loro interazioni in modo da
implicare mutua accettazione, rispetto per l’altro e di se stessi,
senza che ci si aspetti di giustificare
la propria esistenza, cosicché possano dirsi sistemi sociali e
formare una comunità (Maturana 1988,
35; Maturana e Poersken 2004, 117).
Con un atteggiamento d’amore possiamo reinterpretare armonicamente
ciò che noi viviamo,
radicando qualsiasi esperienza nel nostro mondo della vita, e
possiamo anche evitare che si instauri
una situazione di sofferenza. Emblematico è l’esempio che Maturana
trae dalla storia della sua vita
familiare:
«Un inverno il mio piccolo nipote di cinque anni venne a farmi
visita. A causa della sua scarsa vista, egli deve indossare
occhiale con spesse lenti. Quel giorno egli era anche impacchettato
in molti vestiti per tenerlo caldo. Mentre giocava in
giardino, scivolò nella parte profonda della mia piscina. Andò
sotto, ma fu respinto in superficie a causa dell’aria che si
era imprigionata nei suoi vestiti. Disperatamente si afferrò al bordo
della piscina e cominciò a gridare aiuto. Corsi al
bordo della piscina, lo tirai fuori e gli dissi: “Congratulazioni
– tu hai salvato te stesso!”» (Maturana e Poersken 2004,
120, traduzione mia).
83
Così Maturana, guidato dall’amore verso il nipote, usò una
ristrutturazione della situazione,
consentendo al bambino di ricordare per sempre come formativo,
facendogli addirittura acquisire
fiducia in se stesso, un episodio che altrimenti lo avrebbe reso
timoroso per tutta la vita.
La disposizione positiva verso l’altro, un atteggiamento d’amore
durante l’ascolto possono anche
favorire l’espressione dell’epistemologia di coloro che dialogano
con noi (ivi, 121), ponendoci
reciprocamente in sintonia. Maturana afferma che l’amore può avere
effetti terapeutici (ivi, 122).
Questo atteggiamento nella relazione comunicativa porta alla
produzione di un pensiero narrativo,
descrittivo, calato nell’umana esperienza, e in quanto tale utile
alla comprensione dell’esperienza
stessa. Mostriamo di essere filosofi alla ricerca della saggezza
se ascoltiamo con quante più
orecchie è possibile, senza permettere al pregiudizio o
all’inclinazione personale di rendere cieca la
nostra percezione, consapevoli della coloritura emozionale di ciò
che ascoltiamo, e lasciamo che
qualsiasi cosa si manfesti in una relazione dialogica venga
percepita nella maniera in cui appare,
con un atteggiamento fenomenologico (ivi, 116). Con il
“languaging” creiamo la nostra intersoggettività
come un’area dove noi negoziamo continuamente la nostra comunicazione
costruendola
insieme, nell’accoppiamento dei nostri sistemi autopoietici quali
siamo, per creare una forma di vita
più umana.
La cultura nella quale viviamo, probabilmente risentendo ancora
dell’influenza del neopositivsmo,
spinge alla ricerca di un metodo che consenta di generare
risultati predicibili nella maniera più
efficiente. Tutti i ragionamenti fatti fin qui, accettando di
percorrere la via dell’ “oggettività tra
parentesi” di Maturana, ci mostrano che un metodo di ingegneria
umana di tal fatta, funzionante
universalmente, non può essere ottenuto in alcuna circostanza,
come i lavori scientifici di Maturana
e Varela hanno mostrato (Maturana e Poersken 2004, 125). Invece,
accettando tale punto di vista,
muovendoci attraverso l’orizzonte conoscitivo della filosofia
della complessità, ciò che possiamo
dire è che, durante il dialogo polimorfo
«noi incontriamo l’altro essere umano in un dominio di fondamentale
incertezza e tutto quello che possiamo fare è
cercare di ottenere e creare una forma di esistenza, che ci
permetta di danzare insieme» (Ivi, 125, traduzione mia).
84
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