I jeans nel paese più bello del Mondo
Nel 1968 arrivarono le scuole medie e con loro un nuovo modo
di vestirsi. Come mi vestivo? Indossavo quello che indossavano tutti ovvero pantaloni
e maglione oppure la giacca o se faceva freddo il cappotto. Poi arrivarono dei
pantaloni di tela blu che si chiamavano blue jeans che si vendevano al mercato.
E tutti i ragazze e le ragazze erano ossessionati da questi pantaloni che era
avversati in ogni modo dai genitori. Proprio questa ostilità dei genitori
rafforzò il fascino che questo modo di vestire esercitava su di me.
Negli anni 70 arrivarono le griffe, i jeans firmati.
Andavano fortissimo i blue jeans fiorucci con le impunture rosse. Erano unisex,
potevano essere indossati indifferentemente dai ragazzi e dalle ragazze. Avevano
il logo con gli angioletti. Poi dopo un po’ il logo fiorucci cambiò.
Siccome i miei genitori non volevano farmi acquistare i blue
jeans io misi da parte i soldi e andai in un negozietto in Via 140° Regimento
Fanteria. Il negozio si chiamava Woodstock e quando ci andai fui inondato dall’odore di un
profumo oleoso di nome paciulli. Si tratta di un profumo la cui essenza è ricavata
dalle foglie essiccate di patchouli o pasciulì, che è una pianta nativa delle
regioni tropicali dell'Asia, che vengono macerate in acqua e poi distillate. Io
non so perché ma ero inebriato da quel profumo, ma adesso che ci penso era perché
lo usava una ragazza che allora mi piaceva tanto. Anche il paciulli era un profmo unisex, un profumo utilizzato sia dalle
ragazze che dai ragazzi.
Entrai da solo per fare l’acquisto e presi un paio di BAKAMAK
a zampa di elefante. Era il mio primo acquisto fatto tutto da solo, senza la
consulenza di mamma che furoreggiò negli anni delle elementari e medie e senza quelle di mia sorella. La
consulenza di quest’ultima mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, mia sorella
Daniela mi consigliava sulla pettinatura
dei capelli e sull’abbigliamento e metteva becco sulle ragazze che mi
piacevano.
La zampa d’elefante la faceva da padrone e noi incedevamo
con questi jeans che coprivano interamente le scarpe. Sembravamo degli
equilibristi.
I capelli lunghi erano un altro motivo di scontro con mio
padre che non sopportava che io non li tagliassi corti. Non ho mai ottenuto di
farli crescere dietro, c’erano i miei amici che li portavano lunghi sino alle
spalle. Io non potevo e allora li facevo tagliare dietro, ma non sopra,
ottenendo di assomigliare a uno dei cugini di campagna. Ma non c’era modo di
ottenere altro da mio padre. Era lui che decideva e dopo che aveva deciso, non
c’era modo di fargli cambiare idea.
C’era baruffa nell’aria in quegli anni, con i genitori, con
i professori, con il Mondo intero. Noi ragazzi eravamo agitati, era una voglia
di protagonismo contagiosa ma senza contenuti. Non avevamo un progetto, sapevamo
solo che ciò che c’era non andava bene e che andava cambiato. Alla fine non ci importava
nemmeno come dovesse cambiare, sapevamo solo che tutto ciò che era stato, ed
era in atto, non andava bene.
Ad esempio io ho sempre frequentato un ambito
ultraconservatore che era il Mondo dell’Azione Cattolica di Lecce e un mio amico
di quel tempo, che aveva gli occhiali e che sembrava schivo e timido, durante
uno di quei campi scuola che si tenevano d’estate nell’oasi di Roca, invento un
canto che faceva “Sacquegna ulimu la svolta, Sacquegna ulimu la svolta". Cantavamo
tutti assieme a lui ripetendo la richiesta di questa svolta all’allora
presidente diocesano Reno Sacquegna. Antonio D’Ambrogio, così si chiamava quel
ragazzo, chiedeva un mutamento decisivo di direzione ma
non diceva quale dovesse essere la direzione da prendere. Antonio non lo sapeva,
non sapeva quale era la nuova direzione da prendere, non lo sapeva nessuno di
noi in quale direzione andare; ma tutti, proprio tutti, sapevamo che la
direzione in cui stavamo andando non era quella giusta perché ci stava stretta,
non ci sentivamo a nostro agio, non
stavamo bene in quel viaggio che ci proponevano; anche se il treno, tutto
sommato, ci piaceva. Il treno era l’accogliente e rilassante clima della
parrocchia con i movimenti giovanili, le ragazze, le gite, le prediche, le sale
parrocchiali, il tempo libero e il ping pong.
Poi non ci andò bene più nemmeno quello e ci rifugiammo in
un posto tutto nostro che si chiamava club. Si, negli anni 70 con i blue jeans
arrivarono anche i club, dove finalmente autogestirci senza la presenza di
preti e monache.
Quando ci penso mi viene da ridere. Hanno scritto trattati
sugli anni 68 – 70 sui giovani e sui movimenti degli studenti senza mai dire la
cosa essenziale che è quella che si trattava di ragazzi con poche idee ma ben
confuse che aprivano un club, partivano in viaggio da soli in autostop e
giocavano a fare politica.
Tutto questo reso possibile dalla scuola dell’obbligo e
dalla istruzione superiore aperta a tutti, un diploma alla fine l’avremmo avuto
tutti e, con quel pezzo di carta in mano, un posto fisso o l’accesso all’università.
Ma la sera dopo aver trascorso una giornata intera a scuola,
in parrocchia e in piazza, dopo aver tolto i jeans, prima di prendere sonno,
una domanda arrivava sempre, ogni sera, tutte le sere, per anni ed era questa: “chi
sarà l’amore della mia vita?”.
La domanda dava luogo a un Mondo immaginario fatto di
dolcezza ed amore e dopo questa folle e languida allucinazione mi addormentavo, certo che il
giorno dopo, quei jeans, sarebbero stati li ad aspettare che io li indossassi
di nuovo.
Antonio Bruno
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