A Sternatia (Lecce) si collabora invece di competere


A Sternatia (Lecce) si collabora invece di competere


Al contrario di Nusco la democratica Sternatia non compete, collabora. Paradigma di grande suggestione Sternatia paese della provincia di Lecce che mette insieme chi, volontariamente, vuole dare il suo contributo per ottenere la realizzazione di un progetto comune. Certamente l'impresa richiederebbe più persone, più consiglieri, almeno dieci volte quanto saranno quelli che si prenderanno cura della Comunità. Ma se i dieci Consiglieri vorranno, potranno allargare l'invito. Ogni consigliere si faccia consigliare da tantissimi cittadini, quanti più sia possibile. Siano volontari, siano democratici.
Io scelgo il paradigma di Sternatia.


Antonio Bruno Ferro

LA DEMOCRAZIA È CONTARE LE TESTE E NON ROMPERLE
di GUIDO CALOGERO (1904-1986), tra
i fondatori del
Partito d’Azione,
è stato il filosofo
del dialogo per
eccellenza. Per la
sua intensa
attività civile,
politica e di
pensiero, è stato
uno fra i più attivi
e impegnati
intellettuali
del Novecento
italiano.
Pubblichiamo un
estratto del suo
libro “L’ABC di
della
democrazia ”,
uscito per
Chiarelettere con
una prefazione di
Maurizio Viroli
È stato detto che la democrazia è il sistema di contare
le teste invece che di romperle. Vediamo che
cosa implica questa definizione dall’aspetto bizzarro.
Anzitutto, per rompere o per contare le
teste ci vuole qualcuno che le rompa o le conti.
Ogni atto di questo genere è un atto di una determinata
persona.
Ecco dunque un primo punto, che è bene ricordare anche se può sembrare
inutile il farlo. La democrazia, e in genere la politica, non è una cosa
che stia per conto proprio, come una stella o come un pezzo di pane. La
democrazia è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di
Tizio o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro
gruppo riunito.
Non c’è la democrazia o la
non-democrazia, c’è l’uomo che agisce
più o meno democraticamente.
La domanda “Che cosa è la
democrazia?” si risolve perciò in
qu est’altra domanda: “Che cosa
debbo fare per essere un buon democratico?”.
“Tu devi – si risponderà
– non rompere le teste degli
altri, ma contarle”. Però, siccome
non capita tutti i giorni di rompere
le teste degli altri, e nemmeno di
essere sul punto di farlo o con la
tentazione di farlo, bisognerà capire
qual è il senso più generale di
questo consiglio, espresso in termini
così immaginosi.
Ora, se è raro che noi sentiamo
proprio il desiderio di eliminare a
colpi di bastone il fatto che un’altra
persona si opponga con la sua volontà
alla nostra volontà, è molto
meno raro, invece, che noi ci sentiamo
comunque spinti a non tener
conto di quella sua volontà, a fare in
modo che essa non ostacoli per
nulla il raggiungimento dei nostri
fini. Istintivamente, noi siamo dei
sopraffattori. Istintivamente, noi
siamo come i bambini, che devono
fare un certo sforzo per capire che
non debbono mangiarsi tutta la
torta se ci sono altri bambini che ne
desiderano un po’ anche loro. E
tanto più ci allontaniamo dalla barbarie
della fanciullezza, tanto più
cessiamo di essere piccoli cuccioli
di una specie di animali un po’ più
intelligenti degli altri e diventiamo
uomini, uomini civili, quanto più
comprendiamo che c’è una altrui
volontà, quanto più cerchiamo di tenerne conto.
Questo è dunque, intanto, l’atteggiamento fondamentale dello spirito
democratico: il tener conto degli altri. Per che motivo io ne tenga
conto, è un’altra questione, è una grossa questione di filosofia o di morale
o di religione o comunque si voglia dire; e si potrà anche rispondere
che la persona veramente civile, l’uomo davvero buono e onesto e disinteressato,
è quello che non ha bisogno di nessun altro motivo per
sentirsi indotto a tener conto della volontà altrui, giacché sente di doverlo
fare per se stesso, perché è una cosa che va fatta e basta. In ogni
modo derivi questo mio atteggiamento di considerazione e di rispetto
della volontà altrui dal fatto che io lo sento doveroso senz’altro, oppure
da quello che lo ritengo dettato da certi ragionamenti teorici o suggerito
da ragioni di convenienza pratica o ordinato da precetti e comandamenti
religiosi, quel che caratterizza lo spirito democratico è che questo
atteggiamento abbia luogo. Al di sotto di questo atteggiamento possono
stare le sue varie giustificazioni teoriche: ma la democrazia comincia
col suo manifestarsi.
L’unità della democrazia è l’unità degli uomini che, per qualunque
motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda, e di tenere reciprocamente
conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze. Ma
come si tiene conto della volontà degli altri? Anzitutto, ascoltandoli. Prima
ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie. La vera
democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori. Naturalmente,
perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno parli:
ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per nulla
si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni attenti. La
democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio. E qui vediamo subito
che gli uomini di scarso senso democratico son già coloro che tendono a
sopraffare gli altri nella conversazione, che non stanno a sentire quello
che gli altri dicono, che tagliano loro la parola prima che essi abbiano
finito di esporre il loro pensiero.
La realtà è che la democrazia vera consiste tanto nel diritto di parlare,
quanto nel dovere di lasciar parlare gli altri. È un dovere tanto più delicato,
in quanto molto spesso le persone più riflessive, e quindi più capaci
di dir qualcosa di utile, sono anche le più riguardose e le meno disposte
a compiere un atto di forza per inserirsi nell’eloquenza dell’interlocutore
e strappargli la parola. Così i mediocri verbosi riescono spesso a sopraffare
gl’intelligenti timidi. Ma naturalmente
questo non va inteso come
una specie di giustificazione
per i timidi. Chi è timido deve imparare
a non esserlo, non foss’altro
per abituare l’interlocutore a moderare
la sua invadenza, allo stesso
modo che si ha il dovere di far valere
i propri diritti per non avvezzar
male i prepotenti. E d’altra parte
bisogna anche evitare quella che
potrebbe dirsi la pigrizia oratoria,
o l’astensionismo dell’o pi n i on e :
cioè l’atteggiamento di chi s’i n t eressa
sì alle opinioni altrui ma non
fa nessuno sforzo per pensare con
la propria testa e prendere la responsabilità
delle sue idee e contribuire
con esse al miglioramento
delle idee comuni. A certe persone
lo spirito democratico ordina di
parlare un po’ di meno, a certe altre
consiglia di parlare un po’ di più.
C’è una scuola anche in questo, per
raggiungere quell’equilibrio del
colloquio, quell’armonico contemperamento
fra intervento proprio
e cordiale attenzione per l’i ntervento
altrui, che è, per così dire,
la cellula elementarissima della
democrazia.
Prima regola quindi: parlare solo
se si ha veramente qualcosa da
dire, cioè qualcosa che possa efficacemente
contribuire al dibattito
e non soltanto soddisfare l’a mbizione
dell’oratore desideroso di
esservi intervenuto.
Seconda regola: contenere il
proprio intervento in quei limiti di
tempo, per cui si possa presumere
che anche gli altri partecipanti al dibattito abbiano la stessa possibilità
d’intervento.
Terza regola: cercar d’esprimere il proprio punto di vista non solo in
forma chiara e concisa, ma anche con quella compiutezza che possa
rendere meno necessario e prevedibile un secondo intervento nella discussione.
Quarta regola: rinunciare senz’altro a parlare tutte le volte in cui il
proprio punto di vista sia stato già adeguatamente espresso da un precedente
oratore, o tutt’al più limitarsi a dichiarare il proprio consenso
con esso.
L’osservanza di queste regole presuppone naturalmente non solo la
buona volontà di rispettarle, ma anche una certa capacità personale, che
è dovere democratico cercare di accrescere con l’esercizio.

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