Niklas Luhmann, Etica dell’economia – ma quale etica?
Lo devo dire fin da subito: io non sono riuscito a capire di che cosa dovrei esattamente parlare. La questione ha un nome: “etica dell’economia”. E un segreto, vale a dire le sue regole. Ma la mia supposizione è che si tratti di quel tipo di fenomeni, come pure la “ragion di stato” o la “cucina inglese”, che compaiono nella forma di un segreto, in quanto devono tener nascosto il fatto che in realtà non esistono.
Seguendo questa supposizione, imposto le mie analisi come farebbe un osservatore di secondo ordine. Ovvero: osservo e descrivo una comunicazione che dovrebbe presupporre implicitamente, o anche esplicitamente mettere in evidenza, il fatto che esista un’etica dell’economia in base alla quale ci si dovrebbe regolare. Ovviamente la forma di una norma serve a confermare il segreto e a nascondere in questo modo il fatto che lo sia, cioè serve a tenere nascosto lo stesso segreto. Questa forma consente quindi di ritornare a una posizione che sostiene che questa etica, se per caso non ci fosse, quanto meno dovrebbe esserci. E per questo si possono avanzare in effetti buone ragioni.
Ma a un sociologo interessato soltanto ai fatti tutto ciò appare piuttosto come una specie particolare di malattia. In linea di principio è una malattia innocua, comunque non costituisce in alcun modo un pericolo mortale; ma per colui che ne è colpito, di tanto in tanto è veramente dolorosa. Lo si vede dalle caratteristiche convulsioni e dalla veemenza e dall’insistenza con le quali il malato agisce e cerca di contagiare gli altri.
I.
In veste di osservatore di secondo ordine si è interessati all’ambiente, alle stranezze, ai tentativi di scoprire perché gli altri non vedono che non vedono ciò che non vedono.
In una rinnovata visione del tema è consigliabile porre la questione in modo differente. È meglio chiedersi, in altri termini, perché l’etica e in modo analogo anche la cultura siano oggi sulla bocca di tutti. Come mai, per esempio, dei fondi finanziari si chiamano “fondi etici”, come a suggerire che qui si può guadagnare del buon denaro in buona coscienza; e per quale ragione la gestione dell’economia non guarda solo in generale alle notizie di borsa, ai profitti e alle quote di mercato, ma ha anche il bisogno (al quale cede) di andare d’accordo, a parole, con l’opinione pubblica.
Queste ondate etiche si producono, fin dall’introduzione della stampa, ad ogni fine di secolo – come se fosse giunto il tempo di fare i conti con le tendenze del secolo attraverso una specie di sguardo retrospettivo di tipo profetico. La moralizzazione si fa particolarmente evidente proprio quando delle situazioni, per le quali sono responsabili degli altri, vengono considerate patologiche. Basti pensare qui all’ultima fioritura delle teorie dell’aristocrazia nella seconda metà del XVI secolo, che però non è riuscita a cavarsela né con il Concilio di Trento, né con la centralizzazione di tutta la sovranità decisionale nelle mani dello stato moderno. Oppure si pensi alla discrepanza sorta alla fine del XVII secolo fra pubblico e privato, rappresentazione e sincerità, fra gli affari di stato e la “liberty of the club” (Shaftesbury); oppure al crollo della società aristocratica visibile alla fine del XVIII secolo, suggellato dalla Rivoluzione Francese; oppure ancora alle questioni che si erano poste alla fine del XIX secolo circa la necessità di porre dei limiti alla tendenza economica al guadagno o all’imperialismo politico. E chi metterebbe in discussione che la situazione, oggi, certo in riferimento ad altri temi, sia effettivamente simile! E visto che non esiste alcuna profezia che sia in grado di guardare nel futuro, i teologi me lo confermeranno, si finisce per tornare a uno sguardo retrospettivo sui peccati del secolo.
Per quanto concerne in particolare l’economia, bisogna prima di tutto ricordare che già il tentativo fatto da Adam Smith di trattare l’economia come un caso applicativo della sua teoria della simpatia morale era fallito. In seguito Smith si era reso conto che è molto meglio offrire al calzolaio un prezzo ragionevole
piuttosto che affidarsi ai suoi sentimenti morali. Rimane un malessere diffuso – soprattutto perché alla teoria economica a quanto pare basta descrivere attori, azioni, oggetti, interazioni e i loro presupposti in termini quantitativi, facendo riferimento alla proprietà, quindi nella forma di capitale, margini di credito, prezzi e così via. Smith si era reso conto anche del fatto che è sufficiente, ed è persino razionale (il che aveva innervosito particolarmente Marx), bilanciare semplicemente i costi delle materie, i costi del denaro e i costi del lavoro, per vedere se e in che modo a determinate condizioni di mercato un’impresa possa essere condotta in modo redditizio. Ma come si dovrebbe – per amor del cielo! – correggere adesso tutto ciò con l’aiuto dell’etica? Con l’introduzione di un conto speciale nel bilancio, sotto la voce “etica”?
Un altro esempio potrebbe essere tratto dall’ambito delle organizzazioni del sistema economico. È chiaro che qui ogni gerarchia viene chiusa subito in modo circolare. Questo pone fine all’antica forma di dominio che secondo Hegel si basava sul fatto che solo il servo, e non il signore, doveva osservare come veniva osservato. Questi signori, che fungevano solamente da osservatori di primo ordine, e che perciò avevano a che fare solo con oggetti, oggi non esistono più, oppure se esistono, si presentano soltanto come anomalie, come anacronismi. I moderni docenti di management sottolineano che anche e soprattutto i capi dovrebbero imparare a osservare come vengono osservati. Ma resta la gerarchia di posizioni e di responsabilità; e questa aumenterà presumibilmente ancora di più nelle organizzazioni nelle quali si producono decisioni estremamente rischiose. Si può presumere, non senza buone ragioni, che nel corso di una tale osservazione di osservazioni e dei modi in cui si è osservati le organizzazioni diventeranno ancora più conservative di quanto esse comunque non lo siano già, e che perciò emergeranno dei problemi di rischio accompagnati da una specie di “illusion of control” di natura cospirativa.
Le teorie più aggiornate dal punto di vista logico dicono a questo proposito che in tali gerarchie evolute e strutturate in modo circolare si finisce nel problema di Gödel, cioè: nella assunzione di referenze esterne. Questo dovrebbe spiegare la
fascinazione esercitata dall’etica. «Effettuare un tale supergroviglio [...] creerebbe un [...] nuovo tipo di livello inviolabile» si legge in un libro che non a caso è diventato un best seller: Gödel, Escher e Bach di Douglas R. Hofstadter [Adelphi, Milano, 1994 p. 746]. Ronald Dworkin riversa una grande stima nella teoria del diritto, poiché ritiene che il sistema giuridico non si esaurisca con le regole, ma dovrebbe riferirsi anche a dei principi – e con questo si vuol dire: dei principi morali con un’immediata validità giuridica. Ma questo significa: un “jumping out of the system” è fuori discussione, perciò è ancor meno importante se questi “inviolate levels” esistano effettivamente o meno. Basta che ci si possa riferire ad essi all’interno del sistema – così come nella logica oggi tutto quello che non è dimostrabile può essere portato come assioma, anche nel caso in cui non si legittimi in base alla propria evidenza. Esso è indispensabile solo per la continuazione delle operazioni.
I manager allora vanno a convegni e corsi di formazione, si lasciano istruire sulla cultura e sull’etica o sul “pensiero totale”, si esercitano nella meditazione o nelle forme più curiose di survival training. Siccome è funzionale, funziona pure. Se questo poi eserciti in qualche modo un’influenza sulle decisioni, resta una questione aperta. Solo adesso ci si può chiedere se nei progetti di un’etica per “l’economia” ci si rivolga anche e in quote uguali agli azionisti, ai lavoratori, ai sindacalisti e ai consumatori, quindi direttamente o indirettamente ad ogni transazione economica che sia vincolata a dei pagamenti. O non si tratta piuttosto soltanto di consigli per l’autorappresentazione dei manager?
II.
Ovviamente questa analisi, più che altro incentrata sulla sociologia del sapere, lascia aperte tutte le questioni teoriche serie. Resta sempre la domanda, se l’etica sia quella forma teorica con la quale si può reagire adeguatamente alla condizione della società alla fine del XX secolo. Nelle buone intenzioni dei fans dell’etica si potrebbero nascondere delle conseguenze cattive, cioè una distrazione da tutti i
tentativi seri di concepire la società moderna e, in essa, il sistema funzionalmente differenziato dell’economia.
Non ci si dovrebbe fidare troppo del fatto che questo compito sia nelle mani migliori quando viene svolto da quelle scienze economiche che oggi hanno così tanto successo. Dal punto di vista distaccato della teoria sociologica ci si domanda piuttosto se non si potrebbe per caso raggiungere una descrizione dell’economia più aderente alla realtà di quanto non lo sia quella offerta dalla rappresentazione matematica (oggi dominante) di grandi aggregazioni di dati. E se la si potesse effettivamente raggiungere: una soluzione per le crisi di orientamento dell’economia non starebbe allora piuttosto nell’orientamento dell’economia alla stessa economia piuttosto che nell’orientamento all’etica?
Ma torniamo alla questione, se l’etica sia in questo caso l’indirizzo giusto da prendere. Si potrebbe pensare, se si tratta però di una referenza esterna, di introdurre di nuovo al suo posto il concetto tradizionale di “economia politica”. O meglio ancora: si potrebbe pensare che l’economia operi nella società come sistema di funzione e debba la sua autonomia, la sua chiusura operativa e la sua dinamica specifica proprio a questa condizione. Sullo sfondo di una internazionalizzazione che si intensifica rapidamente nei mercati finanziari, ma anche sul piano delle aziende, questa riflessione dovrebbe essere spostata dalla economia politica all’economia mondiale e quindi alla società-mondo.
I sostenitori dell’etica saranno tentati di cavarsela facilmente dicendo: questi non sono problemi nostri. Evaderanno nel mondo del “dovere”. Ma qui abbiamo a che fare con problemi reali. E ogni analisi, anche quella più superficiale, mostra che si tratta di problemi strutturali, che non possono essere risolti secondo i modi e i metodi dell’etica. L’etica si rivolge sempre al comportamento individuale – o in tutti i modi questa concezione è connessa fin dal Medioevo con il concetto di etica. Ma la teoria dell’organizzazione (anche nelle sua varianti derivanti dalla scienza economica) ha abbandonato già nell’ambito delle organizzazioni formali l’idea che vi sia qualcosa come una decisione d’impresa di carattere individuale.
Una decisione è ciò che emerge dai processi di comunicazione all’interno dei sistemi organizzati; e una decisione parziale è ciò che articola e promuove il processo decisionale sotto forma di episodi; e tutto ciò accade inevitabilmente nella modalità dell’osservazione di secondo ordine. Non c’è nulla che parli contro la possibilità di rivestire questi processi con una fodera fatta di valori di tipo etico concernenti il “dovere”; o anche, come nelle professioni, la possibilità di marcare e delimitare quanto meno il comportamento “non etico”.
Ma esiste già una tale etica, in grado di operare in modo aderente ai problemi? E se sì, si tratta di qualcosa di più di ciò che nella sociologia in passato si era indicato come “grassroots” o come “organizzazione informale”?
Sarei contento di sentire a questo proposito qualcosa di più e soprattutto: qualcosa di più preciso.
(ed. or. Wirtschaftsethik – als Ethik?, in Josef Wieland (hrsg.), Wirtschaftsethik und Theorie der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1993, pp. 137-147).
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