IL NEOLIBERISMO PUO’ DETERMINARE LA FINE DELL’AMBIENTE COSI’ COME LO CONOSCIAMO NOI

 

IL NEOLIBERISMO PUO’ DETERMINARE LA FINE DELL’AMBIENTE COSI’ COME LO CONOSCIAMO NOI

ALESSANDRO PENATI (*) ha scritto un articolo pubblicato dal quotidiano DOMANI di oggi 2 ottobre 2023 in cui descrive tutte le criticità che impediscono di fatto un modo di vivere sostenibile che salvaguardi l’ambiente ed il territorio dall’inquinamento con il conseguente percolo di perdere la casa comune Pianeta Terra.

Il Prof. Penati per ottenere di conservare l’ambiente suggerisce quanto segue:

“serve un massiccio intervento pubblico, finanziato col debito: le future generazioni dovranno sopportare il peso del maggior debito ereditato, ma in cambio di un ambiente sostenibile.”

TRADOTTO SIGNIFICA CHE IL LIBERO MERCATO CAPITALISTA CONSEGUENZA DEL NEOLIBERISMO ECONOMICO NON PUO’ CONSERVARE L’AMBIENTE E CHE SE NON CI SARA’ LO STATO POTREMMO PERDERE L’AMBIENTE COSI’ COME LO CONOSCIAMO ORA.

Che aspettiamo a farlo?

Buona riflessione

(*) ALESSANDRO PENATI Presidente di Quaestio Capital Management. È fondatore della società di gestione del risparmio Quaestio Capital SGR. Ph.D in Economics dall’Università di Chicago, nel 1998 ha fondato Epsilon Associati SGR, una società di gestione specializzata in gestione quantitativa di portafogli azionari per investitori istituzionali. Ha inoltre lavorato come economista all’IMF e come consulente in varie istituzioni internazionali. È stato professore di Finanza all’Università Cattolica di Milano, alla Wharton School, alla University of Pennsylvania, all’Università Bocconi, all’Università di Padova e al Fame di Ginevra.

Domani
Lunedì 2 ottobre 2023
ERRORI STRATEGICI
Vizi di fondo e scelte sbagliate La transizione ecologica frena
Le azioni dei governi per ridurre i danni ambientali sono spesso inefficaci o controproducenti
La logica sottostante è a volte viziata e si ignorano gli incentivi che determinano gli investimenti
ALESSANDRO PENATI economista
Per l'opinione pub-blica, la transizio-ne ambientale è una priorità; per le future generazioni, un imperativo. Ma rende necessari cambiamenti nelle strategie delle imprese, sot-to la pressione degli investitori, e politiche fiscali efficaci e coe-renti. Nonostante la generale condivisione dell'obiettivo, le azioni dei governi e degli inve-stitori sono troppo spesso ineffi-caci, o addirittura controprodu-centi, sia perché la logica sotto-stante è a volte viziata, sia per-ché non tengono conto degli in-centivi che determinano il com-portamento delle imprese, dei costi della transizione e di chi li debba sopportare. Tra gli investitori è diffusa la pratica di orientare gli investi-menti verso imprese con un ele-vato rating Esg (Environmental, Socio! and Governance). Trascu-rando gli abusi (gestori che non seguono i criteri di investimen-to dichiarati; rating Esg calcola-ti arbitrariamente; adozione so-lo di facciata dei criteri) l'adozio-ne degli Esg ha l'o-biettivo di pena-lizzare le società che producono emissioni noci-ve, scoraggiando gli investimenti nei loro titoli, e aumentando in tal modo il loro costo del capita-le. Equivale quin-di a una «tassa», imposta però dai soci
Risultati scarsi
L'esperienza mostra però come il risultato sia spesso contrario al desiderato. La prima ragione è che la transizione tende ad au-mentare il valore delle attività inquinanti in quanto, a fronte di una domanda di energia fos-sile che rimarrà elevata per tan-ti armi ancora (basti pensare al-le industrie energivore, ai siste-mi di riscaldamento, alla gene-razione di elettricità e alla vita prolungata dei mezzi di traspor-to), gli investimenti in ricerca e sviluppo di fonti fossili e nella loro lavorazione, sono crollati proprio perché in un prossimo futuro perderanno valore. Quindi, a fronte di una forte do-manda c'è un'offerta rigida, con due conseguenze: l'aumento del costo del capitale che gli in-vestimenti Esg vogliono impor-re alle imprese inquinanti inci-de poco sulle loro decisioni di in-vestimento, in quanto sfrutta-no in prevalenza capitale già in-stallato; inoltre, nella misura in cui le attività inquinanti hanno un elevato valore, le aziende quotate hanno tutto l'interesse a migliorare la propria valuta-zione Esg cedendole a investito-ri poco soggetti alle pressioni de-gli investitori (come il private equity) o conferendole in una società separata, e usando l'in-casso per distribuire dividendi agli azionisti. Ma, in tutto questo, la quantità di emissioni non cambia di una. virgola. Bisogna anche sottoli-neare che ci sarà sempre un cer-to numero di investitori che va-luta più il profitto del rating Esg: basta vedere come negli ul-timi due anni l'indice dei titoli energetici abbia guadagnato 1'88 per cento negli Usa e il 45 in Europa, contro una perdita del 33 del Global Clean Energy. Lo stesso vale per le banche fi-nanziatrici. Il regolamentatore europeo vorrebbe aumentare i coefficienti patrimoniali per gli istituti che finanziano progetti nell'energia fossile, ovvero au-mentandone il costo. Ma men-tre i finanziamenti delle attivi-tà «green» delle maggiori ban-che europee sono in media 1,7 volte le fossili, è solo lo 0,7 per quelle americane, che si potreb-bero sostituire a quelle europee qualora la regolamentazione aumentasse il loro costo del ca-pitale. Un'utile analogia per compren-dere il vizio di fondo sono le bombe a grappo-lo: bandite da tan-ti stati e proibite dai criteri Esg. Ma fino a quan-do i tre maggiori compratori di queste armi (Usa, Cina e Russia) continueranno a volerle, qualcu-no le produrrà. Il problema dei cri-teri Esg è che trascura il ruolo della domanda di energia fossi-le. La soluzione a mio avviso sareb-be quella di trasformare i criteri Esg da «tassa» sulle fossili a «sus-sidio» alle rinnovabili: invece di penalizzare chi inquina, pre-miarlo nella misura in cui au-menta gli investimenti verdi, Usando i cash flow generati dall'attività tradizionale o dalla cessione delle fossili. Premiare quindi chi inquina, ma riduce in modo credibile le emissioni.
Le auto elettriche
Esemplare la transizione alle au-to elettriche. L'Europa ha posto un limite temporale alla produ-zione di quelle a motore endo-termico, che è un utile segnale per l'industria. Ma non serve se i consumatori europei non com-prano le auto elettriche perché costano troppo, e le case non ri-ducono i prezzi perché non han-no raggiunto le economie di sca-la: il problema dell'uovo e la gal-lina Inoltre manca una rete ca-pillare di colonne di ricarica. In California e in Cina le vendite di auto elettriche hanno rag-giunto in pochi anni il 22 e il 39 per cento del totale dopo che è santa superata la soglia critica del 5 per cento. A questo punto case come Tesla e BYD hanno ab-battuto i prezzi, anticipando la crescita del trend di vendite. La soluzione europea potrebbe venire da un programma comu-nitario per sussidiare in tutti i paesi la differenza di prezzo tra elettrico ed endotermico fino al raggiungimento di una soglia critica di vendite, che permette-rebbe alle aziende di prevedere la crescita della domanda, e quindi le economie di scala e la riduzione dei costi; oltre alla co-struzione di una rete di colonne di ricarica standard.
Costi e occupazione
Un terzo problema è l'alternati-va tra costi della transizione e occupazione. Produttori cinesi di auto elettriche come Byd han-no raggiunto le economie di sca-la superando Volkswagen nelle vendite di auto in Cina. Alla stessa stregua i produttori cinesi di pannelli solari e di bat-terie hanno raggiunto un van-taggio competitivo difficilmen-te colmabile dai produttori eu-ropei grazie alle dimensioni rag-giunte. Lo stesso potrebbe acca-dere presto per le pale eoliche. Quindi l'Europa è di fronte al di-lemma tra facilitare la transizio-ne ambientale con importazio-ni a basso costo dalla Cina, ma mettendo in crisi l'industria eu-ropea, oppure difendere e pro-muovere l'occupazione aumen-tando però il costo della transi-zione con dazi alle importazio-ni. Stesso dilemma nel Carbon Border Adjustment, una tariffa all'importazione di materiali prodotti in modo inquinante come l'alluminio, penalizzando però un grande utilizzatore co-me l'industria automobilistica; o nei criteri ambientali imposti alle nuove costruzioni in Ger-mania, rinviati però perché au-mentavano troppo il costo delle abitazioni; o i divieti ambienta-li alla ripresa dell'attività estrat-tiva in Europa per tutti i minera-li necessari alla produzione di batterie e pannelli, che così de-vono essere importati al costo aumentato dalle tariffe; o nella decisione inglese, tra grandi po-lemiche, di ridurre i vincoli am-bientali per sostenere l'econo-mia in crisi.
Soluzione possibile
Una soluzione è quella avanza-ta dall'amministrazione ameri-cana in cui lo stato sussidia con forti crediti di imposta gli inve-stimenti nella transizione am-bientale, non discriminando la nazionalità dell'investitore, pur-ché fatti negli Usa, con addetti, componenti e materiali ameri-cani (ma accettando in questo modo la ripresa dell'attività mi-neraria). In pratica è un sussi-dio agli investimenti diretti esteri in America, al posto delle importazioni, per favorire l'oc-cupazione, oltre che alla transi-zione. Il vero problema della transizio-ne ambientale è che nella perce-zione dell'opinione pubblica sia un'opzione senza costi, quando il realtà sono ingenti. Per le imprese si tratta infatti di accollarsi la perdita totale di va-lore delle attività legate alle fon-ti fossili, e allo stesso tempo di finanziare i nuovi investimenti per la transizione ambientale: dati gli ingenti capitali necessa-ri, i tempi e i rischi, nessuna im-presa potrà mai farlo, e nessuno investitore privato vorrà mai fi-nanziarli. Per questo serve un massiccio intervento pubblico, finanziato col debito: le future generazioni dovranno soppor-tare il peso del maggior debito ereditato, ma in cambio di un ambiente sostenibile. In Europa, un approccio come quello americano sarebbe possi-bile solo attraverso la mutualizzazione del debito che finanzi un programma comunitario uguale per tutti. Invece, oggi ogni nazione va per la propria strada Il rischio, o forse il desti-no, è che la presunta leadership europea nella transizione am-bientale finisca schiacciata an-cora una volta da Cina e Stati Uniti.

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