L’emergere della conversazione a San Cesario di Lecce
L’emergere della conversazione a San Cesario di Lecce
Antonio Errico ha scritto un articolo pubblicato dal Quotidiano di Puglia edizione di Lecce oggi 15 ottobre 2023 in cui descrive il suo viaggio in treno di 11 ore da Milano a Lecce. Lui ricorda, come ricordo io, che negli scompartimenti (allora le carrozze di lunga percorrenza erano strutturate così) nascevano conversazioni spontanee in cui intervenivano e ascoltavano tutti.
Lui invece è stato in silenzio per 11 ore, da Milano a Lecce.
Più volte in questo gruppo ho scritto di queste mie osservazioni circa la mancanza delle conversazioni spontanee, come dire fatte di “QUELLO CHE ESCE”. A San Cesario di Lecce invece c’è un luogo e un tempo in cui già da due settimane accade di conversare per il piacere di conversare.
Il coordinatore è Pierluigi Scardino, potete contattarlo se vi va di fare un viaggio in uno scompartimento con altri passeggeri che parlano ed ascoltano “QUELLO CHE ESCE”
Buona riflessione
LETTURE
LA SCOMPARSA DELLA CONVERSAZIONE
Antonio ERRICO
Nella carrozza di un treno, lo sguardo divaga su due pae[1]saggi: quello che si vede dal finestrino, con gli alberi che com[1]paiono e scompaiono come un’il[1]lusione, con le onde dell’Adriati[1]co che si distendono cercando la direzione che porta all’infinito, e quello dentro, delle creature che viaggiano, e scendono e salgono alle fermate, come in una poesia di Giorgio Caproni. Fino a qualche anno fa – venti, forse, uno meno, uno più –, nella carrozza di un treno si saliva da sconosciuti ma si restava in quel[1]la condizione soltanto per un quarto d’ora. Dopo quei minuti si diventava compagno d’avventu[1]ra. Lì, in quella carrozza, si con[1]cretizzava la metafora della con[1]versazione collettiva: storie che cominciavano, s’intrecciavano, si interrompevano ad una ferma[1]ta, ricominciavano con altri nar[1]ratori che tessevano le maglie dei loro racconti nella rete di quelli che si stavano svolgendo. Adesso la carrozza di un treno è la meta[1]fora dell’essere soli con altri che sono soli. Non c’è parola; non ci sono storie; non c’è conversazio[1]ne. Si è lontani da tutto quello che c’è intorno; non si ha nessuno ac[1]canto; non scorre nessun paesag[1]gio dal finestrino. Una nuvola di silenzio si stende sul viaggio. La sola voce che arriva è quella che dà il benvenuto a bordo e dice dov’è diretto il treno e quali sono le fermate intermedie. Occhi af[1]fondati nei tablet, nei cellulari, scrutano orizzonti lontani, lonta[1]nissimi, ma conchiusi in un di[1]splay. Esistenze protette dagli au[1]ricolari, rifugiate in un mutismo irreale, con un oggetto fra le ma[1]ni con il quale comunicano forse con il mondo intero ma non con chi si trova accanto. Nessuno che racconti qualcosa a qualcuno. Nemmeno una parola rivolta a chi è seduto accanto, di fronte. Di tanto in tanto soltanto un distrat[1]to chiedere scusa per il braccio che scivola invadendo lo spazio dell’altro, per un calcio inavverti[1]tamente tirato negli stinchi. Nien[1]te di più. Nessuna conversazione. Un uomo legge “Italo”, un libro in cui Ernesto Ferrero racconta di Calvino, forse anche lui separato da tutti, da tutto. È come se ognu[1]no avesse accartocciato la parola e l’avesse buttata nel cestino. Se la conversazione è un incon[1]tro con l’altro e se l’altro è sem[1]pre, in qualsiasi situazione e con[1]dizione, un soggetto che porta co[1]noscenze ed esperienze, il con[1]trarsi della conversazione genera la conseguenza di una contrazio[1]ne dello scambio di conoscenze ed esperienze. La scomparsa – o comunque il progressivo ridursi – della conversazione, non solo si riflette negativamente sulle rela[1]zioni interpersonali, ma incide si[1]gnificativamente sui processi del[1]la conoscenza informale che del[1]la conoscenza rappresenta una parte considerevole. Così ciascuno di noi si ritrova con una conoscenza che non si espande, non si riproduce, non si sviluppa, se non attraverso pro[1]cessi formalizzati che però non possono avere l’esclusiva della formazione delle conoscenze. Si ritrova con esperienze che non costituendosi come maglie di una rete, non integrandosi con al[1]tre esperienze, esauriscono la lo[1]ro funzione nello stesso tempo in cui si realizzano. Poi, forse l’aspetto più impor[1]tante, e più affascinante, di una conversazione è la relazione tra identità, che nelle situazioni più consuete e informali avviene sen[1]za schemi, senza schermi, senza finzioni, in una condizione di spontaneità e di autenticità che in altre situazioni comunicative si ritrova di rado. La conversazione si è ritirata da qualsiasi luogo, da ogni conte[1]sto: non appartiene più alla casa, non alla strada, non alla piazza. Sarà perché manca il tempo, o sa[1]rà perché abbiamo perso l’abitu[1]dine, il costume, non abbiamo più un’educazione alla conversa[1]zione. Sarà perché non abbiamo o diciamo di non avere più tem[1]po. Sarà perché i mezzi della tec[1]nologia si sono impadroniti di ogni tempo e di ogni spazio. Sarà per queste e per innumerevoli al[1]tre ragioni, ma la condizione è, ormai, quella della solitudine, di cui forse non ci rendiamo più nemmeno conto. Nel suo testamento spirituale e culturale, intitolato “Babele”, uscito nel 1988, Paul Zumthor scriveva: “Eccoci già, dietro i no[1]stri occhiali speciali, a contem[1]plare una realtà virtuale che esaurisce le possibilità passate, presenti e future, cioè che sospen[1]de il destino e intrappola la no[1]stra umanità. Noi, che assistiamo per primi a questa mano di gioco, sapremo, lo spero, tirarci fuori dalla trappola”. Era trentacinque anni fa. In questi anni è cambiato molto. Forse troppo. Non è più la prima mano del gioco. Nella carrozza del treno che da Milano viaggia verso il capolinea a Sud del Sud con 55 minuti di ri[1]tardo, sono rimasti soltanto l’uo[1]mo che legge il libro sul Calvino e un ragazzo. Alla fermata si dico[1]no buonasera, buonasera. Tutto qui, in undici ore di viaggio verso la stessa città
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