La fine della leadership
La fine della leadership
La Fondazione ADAPT è una associazione senza fini di lucro, fondata da Marco Biagi nel 2000 per lo studio e la ricerca, in una ottica internazionale e comparata, nell'ambito delle relazioni industriali e di lavoro di cui FRANCESCO SEGHEZZI è Presidente oltre che assegnista di ricerca presso l'Università di Modena e Reggio Emilia. FRANCESCO SEGHEZZI ha scritto un articolo pubblicato oggi 5 ottobre 2023 dal quotidiano DOMANI in cui traccia le possibili applicazioni della riduzione dell’orario di lavoro al fine della redistribuzione del reddito non solo in termini economici. In definitiva il Prof. Seghezzi auspica tale riduzione a parità di retribuzione.
Il presupposto da cui parte il Prof. Seghezzi è quello che accade nelle aziende pubbliche e private ovvero la persona è ridotta a dipendente. La proposta del prof. Seghezzi si colloca in quel rapporto contrattuale in cui ti do perché tu mi dai... e questo non è né bene né male...
La mia proposta al contrario di quella del prof. Seghezzi, si circostanzia nella evidenza che noi non possiamo fare a meno di considerare che chi sta dando qualcosa in cambio di qualcos’altro è una persona che vive in un mondo, che ha desideri, sogni, dolori, gioie... sia esso il dipendente o l'imprenditore.
Il cambiamento dell’azienda è essenziale per la sua sopravvivenza e l’adattamento ad un ambiente e un mercato sempre più competitivo e globalizzato. Questa sopravvivenza implica una necessaria revisione degli schemi di autorità su cui fino ad oggi si fondavano le organizzazioni e la ricerca di un’armonia tra gli obiettivi delle aziende e il benessere delle persone che vi lavorano.
È mia opinione che ci sia la necessità di intraprendere una revisione profonda dei modelli su cui si costruiscono oggi la società, la cultura e anche l’azienda, specificamente desiderando la sostituzione del modello di leadership con una gestione co-ispiratrice, dove autorità e obbedienza lasciano spazio al consenso, alla riflessione, alla partecipazione e responsabilità di tutte le persone coinvolte.
Io parto dal presupposto che questo momento storico sia una grande opportunità per prendere coscienza di come abbiamo vissuto, di come stiamo vivendo, di cosa conserviamo. È la grande occasione di riflessione da cui ognuno di noi può generare un mondo diverso. Abbiamo una grande possibilità come umanità, come persone, come paesi di ritrovarci in uno spazio diverso da quello che abbiamo generato fino ad ora. Perché quello che sta succedendo adesso, quello che stiamo vivendo è il risultato delle nostre stesse azioni, delle nostre scelte, della nostra convivenza, dell'aver vissuto senza chiederci cosa vogliamo conservare, cosa stiamo conservando e cosa abbiamo conservato.Questa è la riflessione più importante che tutti dobbiamo porci: che mondo vogliamo e cosa stiamo facendo adesso perché quel mondo esista.
Voglio segnalarvi una circostanza che si realizza in questa vostra lettura del mio scritto. Tutti osserviamo una tendenza generale che ci parla della necessità di cambiamento a tutti i livelli, aziendale, sociale... Ma se ci fate caso questo cambiamento si concentra sempre sul nuovo, si parla di rottamare tutto ciò che è vecchio. Io invece parto dal presupposto che sia invece IMPORTANTISSIMO ciò che VOGLIAMO CONSERVARE.
In pratica il mio invito è quello di prestare attenzione a ciò che si vuole preservare nella cosapevolezza che farlo non significa opporsi a ciò che è nuovo, e non significa nemmeno che si rischia di rimanere intrappolati in qualcosa che è superato. Avvicinarsi al cambiamento partendo da ciò che si vuole conservare significa farsi carico di quelle che sono le cose che consideriamo fondamentali e che devono essere conservate sotto qualsiasi flusso di cambiamento che esiste nelle circostanze che stiamo vivendo. Perché è proprio da questo che dipenderà ciò che accadrà.
La domanda che dobbiamo porci è se vogliamo preservare una visione-azione economica, una visione-azione ecologica, una visione-azione etica... sia all'interno che all'esterno dell'azienda...
Generalmente non ci poniamo la domanda su cosa voglio preservare o conservare quindi mantenere così com’è perché pensiamo che il cambiamento abbia senso di per sé. E non è così. Il cambiamento ha senso solo in relazione a ciò che si conserva, cioè a ciò che gli dà significato. Ecco perché parliamo che ciò che conta davvero non è ciò che vogliamo cambiare, ma ciò che vogliamo preservare. Le aziende che durano sono quelle che preservano la propria identità e hanno saputo adattarsi ai nuovi tempi senza perdere il proprio modo di essere che la caratterizza e la distingue dalle altre.
Possiamo osservare che sono in crisi tutte le organizzazioni che gli esseri umani realizzano attualmente, un'organizzazione intesa come un gruppo di persone che vivono nel compito di stare insieme, che vogliono stare e condividere insieme. Questo è qualcosa che si perde nelle dinamiche aziendali quando viene imposto un rapporto di lavoro o contrattuale (accetto di lavorare qui in cambio di una retribuzione). La crisi nasce perché le aziende hanno scopi che in qualche modo non sono in armonia con le condizioni dei mezzi indispensabili a soddisfare le necessità essenziali della vita, quale l'abitazione, il vitto, il vestiario; ovvero i mezzi che conferiscono e proteggono la dignità umana.
Ed è questo momento che dobbiamo vivere come un'occasione per riflettere e ripensare ciò che facciamo nelle aziende. La loro attività deve essere legata in qualche modo al benessere delle persone che ne fanno parte, all'ambiente che li sostiene...
Questa riflessione spero si rifletta nel discorso delle organizzazioni politiche, perché tutto questo le renderebbe orientate verso le persone, verso il loro impegno. Io con il mio scritto ho la presunzione di ottenere che i partiti e i movimenti politici si impegnino ad affrontare processi di trasformazione culturale alla ricerca della partecipazione dei cittadini. Devo però ammettere che non percepisco un vero cambiamento.
La vera iattura sarebbe che quanto ho scritto diventi una nuova tendenza... Il lavoro è quello che si da in Azienda che è fatta di persone, persone che sviluppano nell'organizzazione una delle sue molteplici dimensioni, quella professionale, ma che hanno di più. C'è una multidimensionalità nell'individuo di cui bisogna tener conto anche nelle organizzazioni, e questo è qualcosa che non si verifica quando la persona si trasforma in dipendente, tralasciando il resto delle dimensioni che fanno anch'esse parte del suo essere. Finché la persona è ridotta a dipendente, ci collochiamo in quel rapporto contrattuale in cui ti do perché tu mi dai... e questo non è né bene né male... Ma noi non possiamo fare a meno di considerare che chi sta dando qualcosa in cambio di qualcos’altro è una persona che vive in un mondo, che ha desideri, sogni, dolori, gioie... sia esso il dipendente o l'imprenditore, perché il rapporto che si instaura in un'organizzazione è tra persone. .. Se spogliassimo il lavoratore dipendente e l'imprenditore del loro status, dei beni materiali, se li spogliassimo di tutte le apprensioni che la vita ci porta, un imprenditore e un dipendente sarebbero davvero molto diversi? Io dico di no, ci ritroveremmo con esseri uguali, con sogni irrealizzati, con mancanza di tempo... Il tempo è ricchezza. Ecco perché non è l’azienda ad essere in crisi, ma sono gli esseri umani ad essere in crisi. Noi tutti ci troviamo in un momento in cui dobbiamo scegliere come vogliamo vivere.
Per fare questa scelta dobbiamo riconoscere che la vita avviene in un flusso continuo di energia. La crisi nasce quando questo flusso di energia si interrompe, perché la ciclicità dei processi viene interrotta... Ed è allora che si verificano situazioni di carenza: penuria, fame, disoccupazione... o eccessi, quando questo flusso viene interrotto dall'accumulo di energia in un luogo particolare. Occorre trovare come ripristinare la dinamica ciclica del flusso di energia che permetta di generare benessere per tutti, senza che esso si accumuli in determinati luoghi dove si trasforma in ricchezza esagerata... E questa è una trasformazione che coinvolge l'intera comunità, sia le aziende che il resto dei sistemi che le sostengono e le rendono possibili.
La sopravvivenza delle aziende dipende dalla capacità delle persone di vivere e di trovare le condizioni necessarie per farlo. Ed è questo che va ripristinato, nella misura in cui esisteva prima, oppure creandolo – se prima non esisteva – affinché la vita di tutti sia armoniosa e il flusso di energia venga riattivato.
Il problema è che per ripristinare questa situazione non dobbiamo pensare a livello globale, ma a livello sistemico. Tutti abbiamo la nostra responsabilità, dobbiamo tutti essere coinvolti nel processo. Ma è compito nostro, siamo noi gli unici che possiamo generare questa dinamica di produzione, di attività, che genera il benessere di tutti.
Oltre tutto dalle mie osservazioni e dai miei studi ho tratto la conclusione che non sia possibile distinguere le aziende pubbliche dalle aziende private.
Si tratta della cultura delle aziende pubbliche e private, e ciò che affermo è che le aziende private non esistono più; sono tutte aziende pubbliche perché tutte le aziende non possono essere presenti senza una comunità e senza le persone che le sostengano.
Le aziende sono sostenute dalla vita delle persone che utilizzano i prodotti fabbricati da tali organizzazioni. Non rendersene conto è ciò che crea difficoltà nell’armonizzazione dei processi. Con il termine “privato” si dice che ciò che si vuole conservare è riservato a un piccolo gruppo, mentre “pubblico” implica la partecipazione dell'intera comunità. Oggi è in gioco l’intera comunità, non una piccola parte di essa.
Sempre dalle mie osservazioni e dai miei studi ho capito anche che la globalizzazione è un fenomeno individuale. Se non ci fossero persone che accettassero quel modo di vivere e in quello spazio, la globalizzazione in quanto tale non esisterebbe. È un fenomeno individuale, un fenomeno di persone.
Ed è del tutto evidente che tutto avviene attraverso gli individui.
La cooperazione è un fenomeno individuale perché sono gli individui a cooperare.
La comunità è un fenomeno individuale perché sono gli individui a costruirla.
Sono le persone che stanno dietro a questi fenomeni, che li supportano e reiterano ed è questo che dobbiamo riconoscere osservando ciò che ci accade e che accade intorno a noi.
Sono in un’organizzazione da più di 40 anni e avendo praticato la leadership, da leader, posso senz’altro invitare a fare in modo di realizzare la fine della leadership per entrare in una gestione co-ispiratrice.
Quando espongo questa riflessione sulla fine della leadership in azienda, la prima reazione che osservo susciti in chi ascolta è la confusione. Mi hanno chiesto: ma come faremo senza che nessuno ci dica dove dobbiamo andare? La verità è che siamo attaccati alle parole e quello che dobbiamo fare è lasciarle andare. Ci siamo abituati a qualcuno che ci dice dove dobbiamo andare, che ci indica quella strada. Ed è una cosa che non sembra essere andata molto bene. Abbiamo dato molte definizioni o cognomi alla leadership - leader innato, visionario, naturale... - ma tenendo conto di dove siamo, sembra che questo modello non abbia funzionato. Per questo io invito il singolo, e lo scrivo parlando a te “ti invito a liberarti di certi concetti che ci intrappolano nel nostro modo di relazionarci... puoi desiderare di parlare di guida invece che di leader.
La guida è una persona che conosce il terreno e quindi può aiutarci a comprendere quel terreno per seguire un percorso in una determinata direzione. È un servitore, non un'autorità. La guida illumina, c'è, accompagna... Non ha niente a che vedere con la leadership. Ed è qualcosa che possiamo fare tutti, in modi diversi, ma noi tutti ed ognuno di noi può essere guida per gli altri.
Pensiamo alle guide turistiche che ci accompagnano nella visita in Città. Il loro compito è mostrare un percorso che porta a un determinato luogo, mantenendo contemporaneamente sempre la preoccupazione per il benessere delle persone che vengono guidate. Non è il risultato finale, ma il percorso ad essere veramente importante. Come facciamo questo percorso in modo tale che, se lo facciamo bene, ci porterà a un certo risultato. Ma questo risultato si verifica continuamente nel preservare il benessere delle persone che camminano in quella direzione. La responsabilità della guida è questo benessere.Tutto questo per fare diversamente di come si fa adesso perché nelle organizzazioni, il leader si preoccupa del risultato, non del percorso.
Voglio precisare che non si tratta nemmeno di un leader guida, e nemmeno di un leader che guida, perché le parole non sono banali nelle conversazioni perché ci mettono in mano un mondo. E il mondo che la leadership porta implicitamente con sé è quello della persona che non è responsabile del mondo in cui vive perché è l'altro che gli dirà cosa fare. E ognuno di noi è responsabile di ciò che fa, di ciò che dice, dei mondi che generiamo con la nostra vita. Io sostengo la necessità di cambiare il paradigma di leadership per un modello in cui il consenso e la collaborazione siano gli elementi principali. La co-ispirazione è un processo capace di generare, in un gruppo di persone, determinate idee e azioni, al fine di ottenere un risultato desiderato nel processo di generazione.
Ma con le mie osservazioni è emersa una tendenza che definisce l'attività aziendale, e questa tendenza è l'orientamento ai risultati, tutti chiedono LA CRESCITA ECONOMICA e per questo oggi, la pressione sul breve termine e sui dati aziendali è ancora maggiore.
L’immagine che rende percepibile questa tendenza è quella di un mare di conoscenza profondo un centimetro. Quello che ho illustrato non è un discorso, ma un modo di vivere. Dobbiamo vivere in coerenza e imparare da noi stessi e dai nostri errori. Lo voglio ripetere: viviamo in un mondo sistemico, sistemico, sistemico.
Cerco di spiegarlo con l'esempio dell'uccello Dodo, un animale mitico che visse in Madagascar e si estinse. Si nutriva dei semi di un certo albero, di cui non digeriva l'intero frutto, ma solo la corteccia. Questi semi, a loro volta, potevano germogliare solo dopo essere passati attraverso il sistema digestivo di questo uccello. Mentre esisteva questa dinamica ciclica, c'erano gli uccelli e gli alberi Dodo... Questo è un esempio della dinamica ciclica della conservazione di un sistema ecologico armonioso. Lo stesso deve accadere con gli esseri umani. Perché viviamo esattamente allo stesso modo dell’uccello Dodo, nel senso che prendiamo i frutti da questo mondo naturale, consumandoli creiamo le condizioni affinché ciò accada di nuovo…. dobbiamo farlo riflettendo, non con la stessa mancanza di consapevolezza dei frutti, noi esseri umani siamo consapevoli e possiamo perciò riflettere.
E’ questo il modo di vivere che garantisce il benessere: riflessione, convivenza, armonia...e comunicazione come pilastro fondamentale di tutto questo sistema di relazioni tra esseri umani, anche in un'organizzazione
E per afrlo noi esseri umani abbiamo il linguaggio. Il linguaggio è il modo di fluire nella convivenza, nella coordinazione, nel sentire, nel fare e nell'emozione. Il linguaggio, quindi, non designa le cose, ma evoca piuttosto modi di fluire nella convivenza. Quando parliamo di comunicazione non si tratta del trasferimento di informazioni, non è questo ciò che conta, ma piuttosto del coordinamento dei nostri comportamenti attraverso il linguaggio e la conversazione.
Pensare al flusso di informazioni significa non comprendere la natura del processo e commettere l'errore di credere che quando uno fornisce informazioni a un altro, questi sappia di cosa si tratta. È necessaria la convivenza nella conversazione, il coordinamento dei processi...
La comunicazione stessa è una dinamica relazionale. È ciò che ci permette di sintonizzarci e generare un mondo insieme. Quando in un'azienda manca la comunicazione, non solo non viene coordinata l'azione, ma non si armonizzano i sentimenti, i desideri, i desideri, i sogni... La comunicazione è una dinamica relazionale, di armonizzazione di azioni, sentimenti ed emozioni.
Buona riflessione
L'ESEMPIO DEI NUOVI CONTRATTI GIÀ SPERIMENTATI ALL'ESTERO
Per ridurre l'orario dì lavoro non basta la settimana corta Che ormai è solo uno slogan
FRANCESCO SEGHEZZI ricercatore
La riduzione dell'orario dì lavoro sembra tornata al centro del dibattito pubblico. o meglio, si è ricominciato a parlare di una formula molto specifica, probabilmente irrealizzabile ma semplice e immediata da comunicare: la settimana corta. Tutta la criticità della discussione sta proprio qui, nel ridurre Il tema della rimodulazione o anche della diminuzione dell'orario di lavoro, a una proposta che pare essere più una bandiera che un vero obiettivo da raggiungere. Invece quello dell'orario di lavoro è un tema che meriterebbe una discussione più ampia e articolata, a partire da diversi elementi che stanno caratterizzando le trasformazioni in essere. Sappiamo bene come la disponibilità tecnologica oggi sia tale da potersi tradurre in guadagni di produttività che troppo spesso non portano ad una redistribuzione dei margini ad essi connessi. Così come sappiamo bene, anche se è scomodo da affermare, che una parte dell'utilizzo del lavoro agile dalla pandemia in poi (ma forse anche prima) può essere considerata una sperimentazione della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Per contro, la forte scarsità di manodopera, che verrà sempre più aggravata dall'andamento demografico, potrebbe far pensare che l'urgenza futura non sarà tanto quella di lavorare meno ma di lavorare di più proprio per riequilibrare la mancanza di persone. In questo quadro apparentemente contrastante si devono giocare analisi e soprattutto sperimentazioni per verificare cosa è possibile fare. Gli esempi eclatanti apparsi sulla stampa negli ultimi mesi sono a volte ingannevoli perché raccontano di sperimentazioni della riduzione dell'orario di lavoro in poche aziende, che probabilmente già volevano farlo, con margini di produttività e di utile molto elevata. Al contrario vi sono esempi internazionali dl sperimentazioni più graduali, nelle quali si inizia a considerare l'orario di lavoro come elemento di scambio all'interno delle logiche contrattuali. Per esempio, i metalmeccanici tedeschi nel 2018 hanno ottenuto la possibilità di convertire il proprio premio annuale in ore di lavoro da scalare all'orario normale. L'orario non diventa più un elemento intoccabile quindi e anche le imprese implementano flessibilità organizzative, pura parità di costi, in questo caso. In altri casi specifici alcune Imprese hanno avviato sperimentazioni sulla riduzione dell'orario di lavoro non concentrate in un unico giorno, come vorrebbe la proposta rilanciata anche da Elly Schleln recentemente, ma modulate a seconda delle esigenze produttive e organizzative. La formula fissa infatti, risulterebbe impraticabile proprio per quelle realtà, pensiamo all'industria, nella quale l'organizzazione del lavoro molto strutturata renderebbe sulla carta possibili delle rimodulazioni, ma allo stesso tempo queste sarebbero impossibili se Implicassero una riduzione così marcata di manodopera in una giornata unica. Poco successo ha avuto, secondo I dati disponibili, il tentativo messo in pratica in Italia di ridurre l'orario di lavoro mediante la seconda edizione del Fondo nuove competenze, che consentiva una copertura totale dei costi delle ore non lavorate nel caso di riduzione di orario di lavoro a parità di salario (anche con sperimentazioni triennali). Quello che occorre in questa fase è aprire un dibattito serio sull'orario di lavoro. La sfida è quella, nei settori dove questo è possibile, di iniziare a non considerare l'orario come l'architrave sulla quale poggia tutta l'organizzazione del lavoro. E di iniziare a costruire modelli organizzativi che, non peggiorando i carichi e non rendendo il lavoro insostenibile, si basino di più sull'autonomia organizzativa dei singoli. Ma per far sì che questo accada e non si ripetano quelle dinamiche che sono state definite "trappola della flessibilità", dove la maggior autonomia si traduce in maggior lavoro, è necessario che questi processi vengano definiti e monitorati per via collettiva, e non lasciati al singolo rapporto impari tra datore di lavoro e lavoratore. Il sindacato dovrebbe essere quindi il primo soggetto ad accettare questa sfida, anche uscendo dalle zone di confort dell'organizzazione tradizionale.
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