Come faccio a raccontartelo?
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Come faccio a raccontartelo?
C’è una scena, tutta per me, di questo amore mio visto da dietro, dove lei si allontana in un passo lieve, col vestito che ondeggia, come in una danza a cui mi tocca assistere da lontano, lanciando solo occhiate. Si muove come se il mondo attorno fosse solo una distrazione, e forse lo è, perché tutto quello che conta è la sua schiena nuda, il volto che si volta appena, senza che mi conceda un sorriso. E io resto sveglio, ostinato, quasi muto.
Ogni donna sa quando ha trovato quello giusto. Forse sa anche quando l’ha perduto, ma non lo ammetterebbe mai. È una consapevolezza che si tiene fra le pieghe del silenzio, come un’eco che rimbalza dentro. Perché, ecco, ci si guarda, e in quello sguardo si capisce già tutto, anche quello che non vorremmo capire. E allora non prendo sonno, mi dibatto contro il letto e il buio, in bilico tra l’inizio di qualcosa e la fine di tutto.
Charlie lo sa: “Gli uomini vogliono quello che non possono avere”, dice. E intanto lei lo ascolta, anche se non vorrebbe. “Bloccalo”, le dice, “fagli credere che non t’importa più.” Forse ha ragione. Forse anche il distacco, quel silenzio affilato, può essere un modo di fare l’amore. È come mancare qualcuno fino al punto in cui ogni respiro è una promessa non detta.
Ma ecco, c’è quella storia di Tolstoj. Il vecchio imperatore, stanco di cercare le risposte nei posti sbagliati. Le risposte semplici, le risposte vere: c’è un solo momento importante, ed è questo, ora, perché è l’unico in cui siamo vivi. Le persone più importanti? Quelle che ci stanno davanti, proprio adesso. E la cosa più importante… è fare felice chi amiamo. Nulla più. Tutto il resto è polvere, è fumo, è un rumore di fondo.
A volte mi parlo così, come se stessi spiegando a me stesso una lezione semplice. E forse è così, perché nel cuore di questo amore mi trovo a scivolare fra parole che non sanno dire tutto, incespico e resto lì, sospeso. Mi dico: “Domani sarò ciò che oggi ho scelto di essere.” Ma cosa scelgo davvero? A volte ho l’impressione che siano le cose a sceglierci, a prenderci per mano e condurci altrove.
Io e lei… non so di cosa siano fatte le anime, ma sento che la mia è come la sua, due pezzi di un unico frammento, due sguardi che si specchiano. Ogni suo sorriso, ogni ferita, ogni singhiozzo muto, è come se li portassi dentro. Lui è lei, e lei è me, e per questo guardare è amare. Mi sembra di non aver mai guardato nulla con quella stessa intensità, come se ogni gesto, ogni piega del viso fosse un segreto consegnato solo a me. Amare è guardare, come se potessimo capire tutto solo attraverso quello sguardo.
E poi, c’è questo. Lo stare in silenzio, questa attesa che ci portiamo addosso, questo volerci raccontare e invece restare, ascoltare. Lei parla, io ascolto, ma più spesso è il contrario. Non ascoltiamo mai davvero, lo so: ascoltiamo solo il suono dei nostri pensieri. Ma l’amore è imparare a sentire l’altro come fosse una melodia che non conosciamo ancora. È vedere il suo valore e fermarsi lì, a contemplarlo.
È questo che dobbiamo fare, forse: essere leggeri, come una farfalla, imparare a guardare i sorrisi. Costruire giardini impossibili, con fiori di carta e speranze disarmanti. Piantarli anche sui terreni più aridi, su vette inaccessibili, come l’anima di un monte sassoso o la luce pallida di una sera. Sognare, liberi e perfettamente calmi, creare qualcosa dove nessuno si aspetterebbe di trovare nulla.
E poi – sì, anche questo – oscillare sulla luna, più in alto che si può, con un’altalena fatta di lenzuola, in mezzo ai sogni e a quel cielo nero che ci abbraccia. Coltivare sogni che non appartengono a nessuno, se non a chi osa crederci. Parlare ai fiori, se serve, anche quando i “cari assenti” sono così lontani che solo il ricordo li trattiene qui.
E così, mentre tutto sembra fermo e io resto sveglio a pensare, accade. È questo il punto: niente di quello che ho fatto, tutto è semplicemente accaduto. È lei che accade, come un lampo nella notte, senza chiedere, senza fare. Ed io, immobile, la vedo, e in quel vedere, in quell’attimo sospeso, c’è tutto. Tutto.
Antonio Bruno
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