Viviamo nel racconto

 

Viviamo nel racconto

Oggi davvero non trovo nulla di interessante nei giornali. Mi aggrappo a questo articolo che ha scritto Antonio Errico pubblicato dal Nuovo Quotidiano di Puglia edizione di Lecce di oggi 2 settembre 2023 che, citando il nostro scienziato salentino Giovanni Invitto rivela la nostra vera natura:

“Ricorda che non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla.”

Noi siamo il racconto che facciamo, siamo quella storia li e non solo attraverso le conversazioni orali, ma anche qui, dalla scrittura.

Perché l'atteggiamento che una persona assume nei confronti di un'altra, determina come sarà la sua conversazione. Lo scambio riflette il livello di impegno, collaborazione e rispetto verso ciò che si sta facendo e, quindi, il risultato ottenuto.

Questo meccanismo si ripete in ogni conversazione della Comunità e si riflette nel compito dei suoi membri, definendo l'organizzazione.

Possiamo riflettere insieme su quanto sia così importante il ruolo della comunicazione all'interno delle nostre comunità. Il nostro gruppo è questo, un Laboratorio Umano il cui obiettivo è accompagnare le persone nelle comunità e organizzazioni umane nei loro processi di trasformazione e integrazione culturale.

Ogni organizzazione è il risultato delle conversazioni che avvengono tra le persone che ne fanno parte.

Gli iscritti al nostro gruppo si sentano parte dell'organizzazione a cui appartengono, essendo presenti "nel corpo e nell'anima" e questo determina com’è il nostro gruppo. È importante che ogni membro del nostro gruppo si senta parte dell'organizzazione perché così avrà tutta l'attenzione su ciò che sta facendo e non su qualcos'altro. Se ciò verrà raggiunto, allora si assumeranno la responsabilità etica del compito che svolgono.

Come vogliamo vivere insieme nella società?

E questa nostra vita è una grande occasione per riflettere. L'atto di riflessione consiste nell'allontanarsi dalla situazione in cui ci si trova e guardare con uno sguardo più ampio per vedere dove ci si trova e questo contesto senza dubbio ci scuote e ci porta a riflettere su ciò che ciascuno di noi sta vivendo dal suo punto di vista. Questo perché la riflessione è l'unica cosa che ci fa uscire da ogni trappola, perché ci permette di vedere dove siamo e scegliere.

Insomma, oggi è il momento di interrogarci su cosa stiamo facendo in questo presente, per incontrare noi stessi in un modo che prima non ci vedevamo.

La democrazia, la convivenza nel rispetto reciproco, la collaborazione nascono solo da un'apertura riflessiva in ogni circostanza in cui si incontra una difficoltà, perché se hai già la risposta fatta in anticipo, allora non guardi, e applichi la risposta data, ma si scopre che la risposta data nasconde la possibilità di vedere cosa sta succedendo e tu sei bloccato in questo.

Ecco perché, in questo ambito, è utile il ruolo del nostro gruppo, che ha questo scopo fondamentale: essere sempre disponibile a rivedere le premesse fondamentali su cui ho una teoria o un argomento, essere in grado di vedere ciò che accade nel vivere stesso. La prima domanda è sempre "vogliamo vivere insieme oppure no?” E la risposta sicuramente sarà in generale 'sì, certo', ma dobbiamo lasciare andare le teorie, i pregiudizi, le supposizioni che ci separano, guardarli e vedere che non ci servono, che non ci aiutano.

Quando parliamo di democrazia, cosa vogliamo? Ciò che vogliamo è una convivenza etica, di rispetto reciproco, di collaborazione per dialogare per risolvere gli errori che si commettono. Non immergersi nello squalificare l’altro.

Buona riflessione

Invitto, la storia e le leggende che si trasformano in racconto

Antonio ERRICO
Qualche giorno fa, quando Giovanni
Invitto se n’è andato, mi
sono messo a scrivere qualcosa:
sul filosofo, sull’intellettuale,
sul professore. Soprattutto
volevo scrivere qualcosa
sull’amico, sul maestro che ti
faceva comprendere senza insegnare.
Scrivevo, ma ogni frase
mi sembrava banale, ogni
parola mi sembrava banale.
Allora ho smesso. Ho pensato
che un modo per stargli vicino
fosse quello di rileggere quello
che aveva scritto. Dagli scaffali
ho tirato giù due suoi libri,
quei due che più degli altri mi
hanno coinvolto sentimentalmente
quando li ho letti. Uno
si intitola “ Narrare fatti e concetti”,
pubblicato ventiquattro
anni fa; l’altro è “Il diario e
l’amica”, del 2012. Di tanto in
tanto lo riprendo e rileggo le
ultime dieci righe.
Tutti e due i libri riportano
una dedica che dice di scritture.
In questi libri le domande
sono molte di più delle risposte,
come accade in tutti i libri
che vogliono provocare e accendere
il pensiero. Perché
narrare, cosa narrare. Soprattutto
a chi raccontare qualcosa.
Giovanni attraversa i territori
di autori e teorie. Ricorda
che non sei fregato veramente
finché hai da parte una buona
storia, e qualcuno a cui raccontarla.
Noi siamo la storia da raccontare.
Il racconto è la nostra
salvezza. Forse c’è qualcuno
che ancora crede a questo tipo
di salvezza. Giovanni Invitto ci
credeva. Lui raccontava: ogni
volta che ti incontrava, ogni
volta che scriveva. Raccontava
con quel suo sorriso ironicamente
dolce, dolcemente ironico.
Tessendo il racconto con
italiano e dialetto. Le cose più
importanti le diceva in dialetto.
Probabilmente pensava
che potesse andare più in fondo,
arrivare fino al cuore.
Quando uscì “Narrare fatti e
concetti”, ne parlammo per
tutta una sera. Lui diceva di
Derrida e Platone e Doris Lessing
in dialetto; di bergsonismo,
postbergsonismo e di
Paul Ricoeur e di Lacan, in dialetto.
Perché pensava che le parole
potessero arrivare più giù,
più giù, e stratificarsi. Poi s’impennava.
Per qualche minuto
s’impennava con un linguaggio
tralucente, con metafore
che voltolavano nell’aria, che
ti giravano e rigiravano nella
testa. Quando mi è capitato di
scrivere due libri di leggende,
ho tenuto come riferimento
d’atmosfera alcuni suoi saggi
sulla leggenda che chiudono il
libro. Scriveva Giovanni che il
termine leggenda entra nella
nostra lingua dalla porta principale
e togata, ma poi assume
il significato di racconto normalmente
trasmesso oralmente,
che faceva concrescere, su
un nocciolo storico, una serie
di credenze, di opinioni che, attraverso
la fantasia popolare,
deformava il dato storico. Io
volevo realizzare quella deformazione
e quindi mi riferivo a
quelle atmosfere che Giovanni
aveva elaborato. Quando lesse
il primo dei due libri sulle leggende,
mi telefonò dicendomi
che condivideva l’operazione
che avevo fatto. Gli risposi: è
chiaro che condividi, ti ho tenuto
costantemente presente
mentre scrivevo. Sorrise, sommessamente.
Giovanni Invitto era un uomo,
un amico, un intellettuale
che rimaneva dentro. I riferimenti
personali sono dovuti
proprio a questo: Giovanni Invitto
miè rimasto dentro.

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