Per chi volesse capire come funziona la NOSTRA CULTURA PATRIARCALE DELLA COMPETIZIONE

 


Per chi volesse capire come funziona la NOSTRA CULTURA PATRIARCALE DELLA COMPETIZIONE. Ottima descrizione, priva di consapevolezza da parte del collega giornalista che rende noto ma non si rende conto. La descrizione è estensibile ed applicabile ogni sorta di struttura antropologica gerarchica e quindi quella che descrive è identica ad ogni altra struttura antropologica gerarchica.

Buona riflessione

I GIROTONDI NON FINISCONO MAI

L’improvviso disamore per Schlein da parte dell’intellighenzia di sinistra? E’ il ciclo che ha travolto i leader precedenti

di Francesco Cundari

Poche esperienze al mondo sono in grado

di comunicarci l’intima fragilità

della condizione umana quanto la rassegna

stampa di un leader della sinistra. Pochi

spettacoli naturali possono trasmetterci

un sentimento più nitido dell’estrema

precarietà della nostra esistenza e dell’in -

finita vanità del tutto: la caduta delle foglie

in una ventosa giornata d’autunno nella

campagna inglese; la fioritura dei ciliegi

a Tokyo tra la fine di marzo e l’inizio di

aprile; lo sbocciare dei primi talk-show

settembrini tra Roma e Milano, dopo l’im -

mancabile pausa estiva, come da poco Elly

Schlein ha avuto modo di scoprire a sue

spese.

Un detto molto amato dagli appassionati

di arti marziali recita: “Tra i fiori il ciliegio,

tra gli uomini il samurai”. Va detto però

che nella politica italiana, e specialmente

nella sinistra, all’idea di estrema precarietà

esistenziale si accompagna di rado un

ideale etico ed estetico così raffinato, e

men che meno eroico. Alla stoica concisione

del detto giapponese, che ben s’intona al

concetto di una fioritura tanto rigogliosa

quanto fugace, fa riscontro qui una lentissima,

straziante e sommamente ingloriosa

agonia, che segue generalmente di pochi

mesi, qualche anno al massimo, il breve

momento dell’esaltazione e dell’adorazione

generale.

Meglio di ogni altro lo sa Romano Prodi,

l’unico che sia riuscito nel miracolo di fare

il giro completo per ben due volte: dipinto

come un vecchio democristiano soporifero

e inconcludente durante tutto il suo primo

governo, tra 1996 e 1998 (“il curato di campagna”,

“il semaforo”, “il mortadella”, per

ricordare solo alcune delle definizioni più

gentili), eppure rimpianto come un messia

dal giorno dopo la sua defenestrazione; tornato

quindi al governo tra 2006 e 2008, solo

per essere nuovamente sbeffeggiato e deriso,

e per le stesse ragioni di dieci anni prima,

eppure subito dopo nuovamente rimpianto

ed esaltato come l’unico capace di

portare la sinistra alla vittoria, modello

ineguagliabile di virtù civile e politica, padre

della patria e stella polare su cui orientarsi

per i secoli futuri. Dagli stessi commentatori.

Nessuno come lui, o meglio, come il ritratto

che di volta in volta ne ha fatto la

stampa progressista (ma anche comici, intellettuali,

registi e scrittori), rappresenta

la schizofrenia di un certo mondo di sinistra,

la mutevolezza dei suoi giudizi e dei

suoi umori, l’adolescenziale impulsività

delle sue relazioni con la politica e la virulenza

delle sue idiosincrasie.

All’estremo opposto c’è naturalmente

Massimo D’Alema, cui il giro non è riuscito

nemmeno una volta, perché all’intera categoria

dei giornalisti (e alla più larga cerchia

degli intellettuali e degli opinionisti in

genere) è sempre stato tremendamente sullo

stomaco. Almeno sin da quell’indimenti -

cabile intervista a Lucia Annunziata, su

Prima comunicazione, nel dicembre del

1995, a poco più di un anno dall’elezione a

segretario del Pds, in cui descriveva con

queste parole il suo rapporto con la stampa:

“Mi sento come uno preso in mezzo da

una squadretta: due mi tengono e uno mi

mena. Due giornalisti ti fanno domande che

non c’entrano niente con quello che hai fatto

fino a due minuti prima, e sono quelli

che ti tengono; il terzo ti fa la lezioncina, ed

è quello che ti mena”. Fondate o meno che

fossero le accuse, ed eventualmente le ragioni

di animosità da parte della squadretta

in questione, negli anni seguenti il rapporto

non sarebbe di sicuro migliorato.

D’altra parte quella stessa intervista, che

pure segnò in qualche modo uno spartiacque,

per non dire una dichiarazione di

guerra, testimonia come il rapporto fosse

già decisamente compromesso.

Se infatti per un certo mondo di sinistra

Prodi (quando era al governo) rappresentava

la caricatura del vecchio democristiano,

D’Alema era qualcosa di persino peggiore:

l’apparatchik, il grigio burocrate senza

ideali e senza sentimenti, insomma, il dirigente

del Pci. Per i non pochi giornalisti e

intellettuali cresciuti nei movimenti estremisti

degli anni Settanta, o comunque affascinati

da quel modo di concepire la politica

e la società, che era anche un modo di

parlare e di scrivere, non c’era nemico più

acerrimo di un esponente del Partito comunista

italiano. Quel partito che sulla carta

avrebbe dovuto fare la rivoluzione e nella

pratica si incaponiva a difendere le corrotte

istituzioni della democrazia borghese (e

anche il proprio insediamento, i propri

consensi e il proprio potere da concorrenti

assai fastidiosi, s’intende).

Paradossalmente, la fulminea ascesa e

l’iniziale popolarità di quello che ai loro

occhi sarebbe diventato poi l’emblema della

deriva autoritaria, berlusconiana o genericamente

di destra del Pd – Matteo Renzi –

si spiega anche così. In un certo senso, nella

prima fase, Renzi fu l’ultimo beneficiario

(o forse dovrei dire il penultimo, considerando

la stretta attualità) di quella lunga

onda di ostilità contro i dirigenti di partito,

i professionisti della politica, la “burokra -

tija che sta alle mie spalle” contro cui si

scagliava Nanni Moretti nel 2002, nel famoso

intervento che avrebbe dato slancio ai

girotondi, uno dei tanti movimenti di autocontestazione

della sinistra fioriti nel corso

della Seconda Repubblica. Un’ostilità che

si sarebbe spesso mescolata a una radicata

antipatia per la politica in generale, ben

prima che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo

coniassero la fortunata etichetta della

“casta”, poi non per nulla divenuta simbolo

ed emblema del Movimento 5 stelle. E che

Renzi non esitò a cavalcare.

Solo così si può spiegare il singolare

spettacolo di un leader politico oggi generalmente

disdegnato come un insopportabile

arrogante, ambizioso e pieno di sé, da

quegli stessi opinionisti che lo idolatravano

quando dichiarava umilmente di voler “rot -

tamare” tutti i dirigenti del suo partito.

Il guaio è che una volta rottamati il vecchio

gruppo dirigente e i vecchi leader, i

nuovi fanno prestissimo a invecchiare, almeno

agli occhi di chi li ha applauditi e

sostenuti proprio per questo. Come se

l’eterno sogno del grande rinnovamento

non potesse mai realizzarsi. Per quanto si

possa abbassare l’età anagrafica del leader

di turno (fosse solo quello, Renzi è stato il

più giovane presidente del Consiglio della

storia repubblicana); per quanto si possano

destrutturare, smantellare o semplicemente

lasciare ammuffire sezioni, federazioni e

comitati centrali, sostituiti dai gazebo delle

primarie e dalle interviste in tv; per quanto

lontano ci si possa inoltrare sulla strada

dell’azzeramento dei protagonisti e dei

simboli del passato, l’impressione è che

non basterà mai, che quel sogno non si potrà

realizzare perché è irrealizzabile, o forse

semplicemente contraddittorio. Perché

il leader più nuovo, più giovane, più estraneo

al vecchio gruppo dirigente e alle sue

deprecate correnti – e chi più di Schlein,

che al momento di lanciare la sua candidatura

a quel partito non era neanche iscritta,

e che gli iscritti a quel partito, al primo

turno delle primarie, non hanno infatti

nemmeno votato (in maggioranza) – alla fin

fine, una volta eletto, sarà per ciò stesso già

di nuovo e sempre un rappresentante di

quel partito, di quel gruppo dirigente, di

quella “vecchia politica” che tanto dispiace

a molti osservatori. Quasi avessero di un

leader della sinistra l’immagine che gli uomini

di un tempo (un brutto tempo) avevano

della donna, sublime e idealizzata proprio

perché esiliata dal mondo reale, pura e vergine

da ogni contatto con le bassezze della

realtà da cui si voleva tenerla lontana.

Ecco perché quelle stesse caratteristiche

inizialmente motivo di lode sperticata diventano

all’indomani della vittoria, congressuale

o elettorale che sia, cioè non appena

entrate in contatto con il potere, ragione

di biasimo e persino di irrisione. In

un attimo, l’adorabile bonomia del buon

padre di famiglia diventa l’intollerabile paternalismo

del vecchio trombone, il coraggio

iconoclasta del giovane favoloso diventa

la spregiudicatezza del solito stronzo, la

genuina freschezza della normalità diventa

la vuota banalità di chi semplicemente non

ha niente da dire.

Nel repentino cambio di umore che caratterizza

i rapporti di Schlein con la stampa

non c’è insomma niente di nuovo. Ciò

nonostante, molti si sono stupiti per il modo

in cui di recente è stata incalzata a “Otto e

Mezzo” da Lilli Gruber (“Ma chi la capisce

se parla così?”), peraltro proprio mentre

ripeteva quello che ha sempre detto in tema

di immigrazione, che non è solo uno dei

pochi argomenti su cui onestamente ha

sempre detto cose piuttosto chiare e precise,

ma è anche un po’ il suo cavallo di battaglia,

con cui si era fatta conoscere e apprezzare

sin dai tempi in cui era ancora parlamentare

europea.

Non per niente, nel febbraio del 2020,

Concita De Gregorio citava proprio i suoi

interventi sull’immigrazione e il trattato di

Dublino, quando dichiarava in tv, a proposito

di Schlein: “E’ il mondo in cui io vorrei

vivere, è gli occhi da cui io vorrei vedere,

l’Italia sarebbe meravigliosa se fosse davvero

e soltanto popolata di persone che

hanno… ma non per le qualità, per la normalità,

per la naturalezza…Elly è normale,

o sarebbe bello che fosse normale, perché è

molto competente, cioè sa sempre di cosa

parla”.

Eppure, appena tre anni dopo, l’8 giugno

scorso, De Gregorio scrive sulla Stampa:

“Schlein è figlia, per formazione e anagrafe,

della tradizione dei movimenti, del dibattito

stremante e collegiale, del confronto

in assemblea territoriale. Dal punto di

vista del lessico padroneggia una serie di

circonlocuzioni in uso appunto nei collettivi,

frasi talmente generiche e larghe da

contenere tutto e non dire niente. E’ quella

che al convegno ascolti un’ora riempiendo

il taccuino e poi non trovi il titolo…”.

In questa dinamica sta forse la suprema

giustizia della politica italiana: quella stessa

vaghezza con cui puoi presentarti da oppositore,

rispetto alla dirigenza del tuo partito

come rispetto alla maggioranza di governo,

non ti è consentita da leader, quando

hai la responsabilità di chiarire dove

vuoi portare il partito o il paese (o entrambi),

e non basta più dire che così non va e l’è

tutto da rifare. Se hai abusato prima di

quella scorciatoia, si potrebbe pensare, è

giusto che tu debba scontare poi il vantaggio

indebitamente acquisito.

Il risultato però è che sempre più spesso

i politici sono acclamati quando declamano

discorsi vuoti per prendere facili applausi

e derisi quando si sforzano di correggere

il tiro. E questa è forse la suprema

ingiustizia della politica italiana, specialmente

a sinistra.

Forse l’apparente invincibilità di Dario

Franceschini viene proprio dalla sua prematura

esperienza come segretario, quando

subentrò a Walter Veltroni (di cui era

vice) di fatto in qualità di reggente, per pochi

mesi appena, e poi, ingolosito, si candidò

a succedergli al congresso, ovviamente

anche lui tuonando contro “quelli che

c’erano prima” (cioè, tecnicamente, lui, e

nessun altro, trattandosi di partito allora

appena nato) in nome del rinnovamento e

della lotta contro le correnti.

Sonoramente sconfitto da Pier Luigi Bersani

alle primarie nell’ottobre del 2009, da

allora in poi, mantenendosi giusto un passo

indietro rispetto al ruolo di leader, non ha

più perso un congresso, né un giro di poltrone.

In fondo è lui l’ultimo samurai del

centrosinistra, l’unico che abbia trovato il

modo di navigare fra le correnti senza mai

farsene risucchiare, non amato dalla cultura

di sinistra ma sempre al ministero della

Cultura nei governi di centrosinistra, capace

di scomparire e riapparire in un attimo

alle spalle di avversari e alleati.

La superiorità di Franceschini è prima

atletica che politica, ma la sua proverbiale

prontezza di riflessi è il frutto di una più

alta consapevolezza spirituale: ben sapendo

che la bellezza del ciliegio in fiore è

preclusa a chi aspiri alla durata della quercia,

ha compiuto la sua scelta. Forse anche

con qualche rimpianto.

E chissà che sotto il completo grigio, come

tanti artisti marziali, non nasconda anche

lui un tatuaggio in giapponese: “Tra i

fiori il ciliegio, tra gli uomini il segretario

del Pd”.

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