La legge dell'Articolo Quinto non perdona

 

La legge dell'Articolo Quinto non perdona 

Ernesto Galli della Loggia professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM) e direttore del corso di dottorato di ricerca in Filosofia della storia, istituito dal SUM in collaborazione con l'Università Vita-Salute San Raffaele, ha scritto un articolo pubblicato dal quotidiano “Il Corriere della sera” oggi 21 settembre 2023 nel quale descrive come e con chi si governa efficacemente e efficientemente il Paese oltre che, aggiungo io, qualunque Comunità che decide di individuare i prescelti a cui dare la responsabilità. Il Prof. Galli della Loggia scrive:

“In politica la fedeltà a tutta prova può servire nel momento aspro dello scontro; ma quando invece si tratta di decidere, di organizzare e di agire nell’interesse della collettività, allora serve altro. Servono le competenze, le idee, l’immagine pubblica, le relazioni, le capacità. Serve l’impegno sincero a far parte di una squadra, di un governo appunto: che è cosa diversa da una schiera di pretoriani.”

Il ragionamento del Prof. Galli della Loggia parte dal presupposto che la Signora Giorgia Meloni e il suo governo rappresentino una frattura di portata drammatica rispetto al corso precedente della storia del Paese, un vero e proprio terremoto politico carico di un forte significato anche simbolico.

Per sgombrare il campo da ogni equivoco, io non la penso come il Prof. Galli della Loggia, voglio dire che è mia opinione invece che la Signora Giorgia Meloni ed il suo governo è senza soluzione di continuità rispetto a tutti i governi precedenti.

Quello che accade sempre e che ho potuto osservare io stesso dal 1963 è che chi vince la GUERRA DELLE ELEZIONI, ESCLUDE I VINTI E DISTRIBUISCE INCARICHI AI SOTTOMESSI CHE IN CAMBIO NE CAVANO OGNI SORTA DI BENEFICIO.

Invece concordo con il Prof. Galli della Loggia sulla “FURBATA” di dare incarichi a cittadini autorevoli ma sottomessi (il Prof. Galli della Loggia li definisce NON OSTILI) per conservare IL POTERE vincendo la prossima guerra delle elezioni.

L’arte del potere e del dominio è un miscuglio di forza e astuzia, che illudendo, manipolando e consegnando ricche prebende tende a conservare IL POTERE AL POTENTE DI TURNO, anche se prima poi è INEVITABILMENTE destinato a “cadere nella polvere degli sconfitti”.

Ma sapete che c’è? Che il fatto che la Signora Meloni stia interpretando IL POTERE con coerenza rispetto alla cultura della competizione escludendo tutti quelli che non l’hanno votata, me la fa apparire LIMPIDA, chiara, una persona che crede nella cultura patriarcale della competizione e che la applica senza eccezioni.

Gli esempi dei governi di Mussolini e De Gasperi con le furbate di affidare incarichi A CHI NON LI AVEVA SOSTENUTI non hanno evitato al primo Piazzale Loreto e al secondo l’espulsione dalla postazione di comando a favore dei NUOVI LEONI.

La legge dell'Articolo Quinto non perdona. Chi ha i vostri INCARICHI o le vostre PREBENDE, due volte su tre non vi SOSTERRA’ ALLE ELEZIONI, si farà inseguire e negare al telefono per settimane.

La signora Giorgia Meloni sembra consapevole di questa legge illustrata nel libro di Marco Mastracci “Articolo quinto. Chi ha i (vostri) soldi ha vinto” e quindi sembra più orientata ad esercitare il suo potere per tutto il tempo in cui lo avrà saldamente nelle mani, facendo ciò che le leggi le consentono di fare ovvero distribuire ogni sorta di incarichi e utilità alle persone che l’hanno sostenuta.

Ma voi che avete avuto il tempo e la pazienza di seguire il mio ragionamento, sicuramente a questo punto vi starete chiedendo, e quindi state chiedendo a me, come possa ottenersi quanto affermato dal prof. Galli Della Loggia.

Il Prof. Galli della Loggia afferma una cosa che io condivido e che certamente condividete anche voi e cioè che per governare l’Italia (aggiungo io L’Europa, L’Onu, Le Regioni, le Province, I Comuni, Il Condominio), servono le competenze, le idee, l’immagine pubblica, le relazioni, le capacità. Serve l’impegno sincero a far parte di una squadra, di un governo appunto.

Dalle mie osservazioni e dai miei studi per ottenere questo modo di vivere, noi tutti cittadini, in modo autonomo e libero, possiamo desiderare di abbandonare la nostra cultura patriarcale. Una volta abbandonata quella cultura emergerà la cultura della collaborazione che darà spazio ai cittadini che hanno le competenze, le idee, l’immagine pubblica, le relazioni, le capacità e che soprattutto saranno informati da un impegno sincero a far parte di una squadra.

Buona riflessione

Strategie Una volta divenuta presidente del Consiglio, a Giorgia Meloni doveva essere evidente che solo aprendo al centro può acquisire la forza per consolidare la leadership
SCELTA DEI MINISTRI E NOMINE: LA FEDELTÀ NON SERVE AL PAESE
Obiettivi: Per accrescere al massimo il bottino di voti la leader deve pescare nel grande bacino di chi non le ha dato il voto
Governo e scelte
LA FEDELTÀ NON SERVE AL PAESE
di Ernesto Galli della Loggia
A chi conosce un
po’ di storia
d’Italia e vede la
piega che sta
prendendo il
governo Meloni vengono
subito alla mente due
confronti, due ricordi, pur
sapendo bene che il primo
non piacerà molto
all’attuale presidente del
Consiglio. È il confronto
con il governo che costituì
Mussolini all’indomani
della marcia su Roma, e
con quello che costituì De
Gasperi dopo la vittoria del
18 aprile. Nel novembre del
1922 il futuro duce si
guardò bene dall’assegnare
il ministero della Guerra
ad Amerigo Dumini o a
qualche altro scherano
dello squadrismo: lo diede
invece al maresciallo Diaz;
tanto meno si rivolse a
Roberto Farinacci per il
ministero dell’Istruzione:
chiamò Giovanni Gentile.
Ancor più e meglio De
Gasperi, il quale, pur
disponendo nel ’48 di una
maggioranza assoluta in
Parlamento non chiese a
don Sturzo di fare il
presidente della
Repubblica. Lo chiese al
liberale Luigi Einaudi, e
allo stesso modo non
diede lo strategico
ministero degli Esteri a
Dossetti o a un suo
fedelissimo, lo diede al
repubblicano Sforza.
Ora, sia Mussolini che
De Gasperi avevano,
benché su scala maggiore,
lo stesso problema cha si è
presentato a Meloni.
Entrambi i loro governi
rappresentavano due
fratture di portata
drammatica rispetto al
corso precedente della
storia del Paese, due veri e
propri terremoti politici
carichi di un forte
significato anche
simbolico.
Nel primo caso era
la fine dell’Italia
liberale, nel secondo
la fine della
conventio ad
excludendum dei
cattolici dalla direzione dello
Stato, che risaliva al Risorgimento.
Ebbene, sia Mussolini che De
Gasperi capirono che era loro interesse,
proprio perciò, formare
due esecutivi e addirittura scegliere
un capo dello Stato che grazie
ad una oculata scelta di nomi,
cercassero di attutire quanto più
possibile, agli occhi del Paese prima
che a quelli dei loro avversari,
la portata della rottura di cui sopra.
Capirono cioè che era un loro
interesse mostrarsi, come si dice,
inclusivi, scegliendo di essere affiancati
da persone non appartenenti
alla propria parte anche se
naturalmente non ostili.
E sicuramente lo fecero, si badi,
non già per una qualche forma di
debolezza o di sfiducia nelle proprie
capacità. Al contrario: perché
non solo si sentivano sicuri del
fatto loro ma perché ognuno di
essi intendeva che il proprio governo
rappresentasse una vera
rottura e l’apertura di una fase politica
davvero nuova e destinata a
durare, come in effetti fu.
Immagino che una eguale ambizione
abbia tuttora anche la nostra
attuale presidente del Consiglio.
Si dà il caso però che il risultato
elettorale le abbia consegnato
la guida di una coalizione nella
quale il principale interesse dei
suoi alleati è quello di renderle la
vita difficile, mettendo ogni giorno
potenzialmente in crisi il suo
governo. Ne risulta che un obiettivo
più che mai vitale di Giorgia
Meloni non possa che essere
quello di accrescere al massimo il
proprio bottino di voti alla prossima
occasione elettorale. Magari a
spese dei suddetti alleati, ma ben
più plausibilmente andando a pescare
nel grande bacino costituito
dagli italiani i quali la volta scorsa
non le hanno dato il voto, o non
hanno votato o hanno disperso il
proprio voto parcheggiandolo da
qualche parte. E cioè nell’elettorato
definibile genericamente moderato
o centrista che dir si voglia,
il quale prima di darle il suo consenso
ha voluto però vederla all’opera.
A Giorgia Meloni doveva essere
evidente, insomma, che il suo interesse,
una volta divenuta presidente
del Consiglio, era quello di
aprire al centro, come si dice. Che
solo da lì poteva venirle la forza
per consolidare la sua leadership
realizzando il disegno di dar vita a
una grande forza liberal-conservatrice,
così da rimodellare il sistema
politico italiano dando inizio
a una fase davvero nuova della
sua storia.
Viceversa la presidente del Consiglio,
lungi dal battere questa
strada ha preso quella opposta. A
cominciare dalla composizione
del governo, infatti, invece di cercare
di dare a questo un respiro
nazionale, invece di aprire nelle
molte nomine successive a chi
rappresentava mondi e culture diverse
dalle sue, invece di mostrarsi
capace di ricercare e di accogliere
nella propria compagine qualche
significativa eccellenza del Paese
disposta a collaborare con il suo
tentativo, Giorgia Meloni si è rinchiusa
in una sorta di «ridotto della
Valtellina» identitario o, se si
preferisce evitare infelici memorie,
in una sorta di quadrato di Villafranca
costituito da compagni
quasi di scuola, da fedelissimi della
prim’ora, da vecchi militanti
amici, da congiunti e parenti stretti:
che tutti quindi le devono tutto.
Il carattere schietto della presidente,
abituata al parlare franco,
non se la prenderà se le diciamo
che non è così, però, che si costruisce
una leadership autorevole.
Non è così che si entra in sintonia
con la maggioranza effettiva del
Paese e se ne diventa la guida, non
è così che si attua una grande svolta
politica, e soprattutto non è così
che si ottengono buoni risultati di
governo. In politica la fedeltà a tutta
prova può servire nel momento
aspro dello scontro; ma quando
invece si tratta di decidere, di organizzare
e di agire nell’interesse
della collettività, allora serve altro.
Servono le competenze, le idee,
l’immagine pubblica, le relazioni,
le capacità. Serve l’impegno sincero
a far parte di una squadra, di un
governo appunto: che è cosa diversa
da una schiera di pretoriani.
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