CULTURA DELL'ECONOMIA SOCIALE INVECE DELLA CONCORRENZA DEL MERCATO

 

CULTURA DELL'ECONOMIA SOCIALE INVECE DELLA CONCORRENZA DEL MERCATO

Nadia Urbinati, titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York, ha scritto un articolo pubblicato sul quotidiano DOMANI oggi 5 settembre in cui denuncia:

1. uno stato lassista e connivente che con la proposta delle autonomie differenziate otterrebbe l'esito fatale della «Migrazione a senso unico, desertificazione sociale prosciugamento dei servizi essenziali, destrutturazione demografica e abbandono degli avamposti pubblici».

2. gli strumenti finanziari e umani di questo governo per il meridione sono volti a creare una rapace classe socio-politica.

3. Gramsci parlerebbe di cadornismo: sacrificare la realtà ad un piano presentato con ipotesi logiche e razionali che non esita a dar torto alla realtà se questa lo falsifica, a costo di imporre sacrifici inutili a chi lo subisce.

Concordo con gli scenari descritti dalla Prof.ssa Urbinati che sono il naturale esito di questo modello economico e aggiungo che questi esiti del 2023 sono derivati dall’azione dei governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni.

Alla denuncia della Prof.ssa Urbinati faccio però seguire la mia proposta di desiderare di abbandonare il neoliberismo e la concorrenza (competizione) per fare mergere la cultura dell’economia sociale.

Cosa intendo per cultura dell'economia sociale?

La cultura dell'economia sociale implica la rottura con l’idea imposta del capitale e delle sue pratiche, attraverso valori e principi volti a costruire proprietà comune, democrazia partecipativa e privilegiare la persona e il suo lavoro rispetto al capitale. In breve, ci invita ad avere la solidarietà, l'aiuto reciproco e la cooperazione come assi delle relazioni umane per il bene comune.

Dalle mie osservazioni ho potuto dedurre che attualmente, l’umanità affronta problemi come povertà, disuguaglianza, emarginazione, lavoro precario, cambiamenti climatici, ecc., che sono fortemente legati al modello economico il cui scopo centrale è la generazione di capitale o denaro e la sua accumulazione, ad ogni costo. Così, abbiamo formato l'idea che per raggiungere lo sviluppo personale e come società, è necessario avere denaro da consumare, avere invece di essere, e per questo è necessario competere e potenziare la nostra capacità di raggiungere l'individualismo.

Come si esprime la cultura dell’economia sociale nelle imprese dell'economia sociale?

Senza una cultura dell’economia sociale non ci possono essere imprese dell'economia sociale, questo può sembrare un truismo, tuttavia, non è così.

La cultura dell’economia sociale si esprime nelle idee e nelle pratiche delle persone che intraprendono collettivamente un’attività al fine di soddisfare bisogni comuni. Le aziende o le organizzazioni che compongono l'economia sociale sono lo spazio in cui vengono praticati i valori e i principi che guidano il loro funzionamento interno; le relazioni sociali dei suoi membri e quelle di questi con il loro ambiente.

Le persone che decidono di cooperare lavorano nella formazione di quella cultura, imparano e vivono la democrazia e la solidarietà, lavorando insieme invece di competere, si impegnano a contribuire con il loro tempo, lavoro e risorse per plasmare il capitale sociale; partecipare al processo decisionale e alle posizioni di rappresentanza con onestà, trasparenza, responsabilità e rispetto.

Nelle imprese dell'economia sociale, le persone cessano di essere solo un’altra risorsa e diventano partner, cioè proprietari; apprezzano la loro dignità di persona e prendono il loro destino nelle proprie mani, senza interventi esterni.

L'economia sociale ha come scopo finale il benessere comune, attraverso imprese collettive che consentono alle persone di soddisfare le proprie esigenze economiche, sociali e di uguaglianza culturale con pari opportunità, democrazia e costruzione di una cittadinanza attiva e con il rafforzamento della coesione sociale e con la cura della natura.

Buona riflessione

LA RETORICA DEL 'MENO TASSE PER TUTTI"
Il governo è diventato thatcheriano solo per opportunità
NADIA URBINATI politologa
E così l'Italia ha trovato la sua Margaret Thatcher. L'ha trovata In una destra che non nasce su una cultura liberista. Ma non ci si faccia ingannare. Il passato fascista accadeva quando l'Italia si stata industrializzando; il corporativismo era opportunisticamente un correttore del liberalismo economico in un paese che stava edificando il capitalismo nazionale e aveva bisogno di pace sociale, a tutti i costi. Opportunismo è il termine chiave. Ci dice che la destra sociale o stato-centrica è figlia prima di tutto della contingenza. Se negli anni Trenta serviva lo stato dirigista oggi serve uno stato latitante e Iassista. L'obiettivo è lo stessa fare prima di tutto gli interessi di chi «crea ricchezza». Oggi, questo vangelo viene espresso con una politica fiscale che, ha ben spiegato Alessandro Penati su questo giornale significa «meno tasse per tutti, per crescere di più«. Questa la massima thatcheriana del trickle-down: abbassare le tasse ai benestanti avrebbe un effetto di grande prosperità per tutti, in quanto quella parte di profitto che dovrebbe andare allo stato va sul mercato. Il pubblico, secondo questa filosofia primitiva, sarebbe come l'orco vorace delle favole, che si sconfigge affamandolo. La società farà da sola quello che uno stato esangue non fa (non deve fare) più. In questo dimagrimento, a soffrire sono quelle parti di società che non partono bene ovvero che vivono in un ambiente deprimente o, come dicono per un malcelato pudore i nostri ministri, che non sanno produrre ricchezza.
Senza i Iacci e lacciuoli delle tasse e delle regole (per esempio sugli appalti e i subappalti) anche chi sta peggio potrebbe essere per necessità indotto a darsi da fare. Le parti che soffrono In Italia sono le solite le classi sociali non protette (e non ben rappresentate in parlamento) e le parti disagiate del paese senza un tessuto socio-economico solido, sano e dinamico (il sud prima di tutto quello geografico). È da decenni che queste debolezze sono trattate come una "palla al piede", per rubare a Antonio Gramsci l'espressione che usava per parlare di come i governi liberali dell'Italia unita avevano trattato il meridione. Come un tempo si diceva della condizione delle donne così si può dire della condizione del nostro sud: sono lo specchio dell'intera società. Se si vuol capire quale il sia senso di giustizia di una società si guardino prima di tutto le politiche adottare per le parti più svantaggiate. Lo specchio dell'Italia di oggi, frutto di decenni di politiche liberiste che questo governo rappresenta al meglio, è in quelle aree, a volte bellissime socialmente abbandonate. E la proposta leghista di autonomia differenziata giungerebbe come la mazzata finale tenere le regioni sotto il tallone nefasto di un establishment che accaparra le risorse e le distribuisce per restare in sella. L'autonomia differenziata è il trickle-down istituzionale. Ne ripete la logica con uno stato lassista e connivente. L'esito scrive Gianluca Passarelli su questo giornale. sarebbe fatale «Migrazione a senso unico, desertificazione sociale prosciugamento dei servizi essenziali, destrutturazione demografica e abbandono degli avamposti pubblici». Buttato ai roghi il piano ambizioso del Pnnr, gli strumenti finanziari e umani di questo governo per il meridione sono volti a creare una rapace classe socio-politica. Gramsci parlerebbe di cadornismo: sacrificare la realtà ad un piano presentato con ipotesi logiche e razionali che non esita a dar torto alla realtà se questa lo falsifica, a costo di imporre sacrifici inutili a chi lo subisce.

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