La giurdana secondo don Gino

Oggi ho avuto una bellissima sorpresa perché, grazie a don Gino, le persone come me e come te del paese più bello del Mondo, le persone normali che vivono, lavorano e hanno famiglia, rimarranno impresse per sempre grazie alla scrittura. 
Persone che io non conoscevo e di cui non avevo mai sentito parlare, sono entrate nella mia vita, così come, dopo che avrai letto, entreranno nella tua.
Il paese più bello del Mondo annovera tra i suoi cittadini tanti personaggi illustri e di loro, in questo blog, tanto ho scritto oppure tante cose ho riportato dagli scritti che ho trovato nelle mie ricerche. 
Ma mai mi era capitato di vedere affiorare alla luce, UN MONDO fatto di tantissime persone che io non avevo mai visto e di cui non avevo mai sentito parlare.  Tutto questo attraverso le parole, che sono VERE E PROPRIE IMMAGINI, scritte dal nostro parroco don Gino.
Don Gino Scardino ha scritto un bellissimo racconto che ha per tema uno dei Tre Casali di San Cesario di Lecce che è a tutti noto come “LA GIURDANA”.
Ho chiesto di pubblicare il racconto di don Gino sul mio blog e, in attesa di una risposta de "La Comune" che l'ha pubblicato e dello stesso don Gino,  non ho saputo resistere e ho provato a commentarlo e a tradurlo in italiano. 
Il racconto di don Gino è in lingua salentina sancesariana che molti invece si ostinano a definire dialetto. Affermo subito che secondo me più che un racconto lo scritto di don Gino è una vera e propria poesia.
Ed adesso buona lettura della traduzione e del Commento.
La poesia esordisce chiarendo che ciò che l’autore scrive si riferisce al casale di una volta popolatissimo da molte famiglie. La bellezza di quella vita, secondo don Gino,  era caratterizzata dalla circostanza che vedeva vivere tutti assieme adulti, bambini e nonni in una stessa abitazione, tutti raccolti in un'unica casa.
L’altra caratteristica di queste famiglie che avevano in seno tre generazioni era quella che tutti dovevano cercare di contribuire al sostentamento soprattutto per il pane quotidiano.
Sia le donne che gli uomini erano tutti impegnati o nei campi oppure nelle botteghe artigiane in maniera tale da ottenere l’onesto salario necessario a far campare tutti i componenti della famiglia.
Don Gino osserva nel suo componimento che erano parecchie le arti e i mestieri che si esercitavano in quel Casale al punto che “la Giurdana” sembrava un vero e proprio cantiere permanente.
L’intento dell’autore è quello di ricordare in questo suo componimento cosa si facesse a quei tempi e come le famiglie campassero.
Moltissime famiglie erano formate da contadini e ortolani che coltivavano i campi intorno al casale nella speranza di trarre nell’annata i frutti sperati. La narrazione dell’autore ci informa che allora si lavorava dall’alba al tramonto e che da questo sforzo si traeva a mala pena il sostentamento per la famiglia rappresentato da un pezzo di pane.
La terra veniva coltivata con la zappa e l’aratro. In inverno si andavano a raccogliere le olive e l’olio che si ricavava dalla molitura era prezioso e non tutti avevano la possibilità di comprarlo.
Poi vi erano i frutti di stagione rappresentati dai fichi, i fichi d’India, le mandorle, le noci che venivano raccolti e portati a casa sulla tavola per dividerli con tutti i componenti della famiglia.
Le abitazioni avevano tutte nel retro un orto dove sulle canne raccolte in stuoie si disponevano i fichi tagliati in due per farli seccare al sole.
Una volta che si fossero seccati i fichi venivano messi al forno per completare l’essiccazione e quindi conservati in delle anfore in terracotta “CAPASE” in maniera da essere utilizzati durante l’inverno subito dopo la celebrazione dei defunti del 2 novembre. I FICHI RAPPRESENTAVANO la merenda in quanto condimento del pane.
L’autore ricorda che il lavoro agricolo più pesante era il trapianto e la raccolta del tabacco. Era uso di quel tempo che la Guardia di Finanza controllasse i tabacchicoltori per verificare quante migliaia di piantine di tabacco si dovevano trapiantare le cui foglie secche poi dovevano essere consegnate alla fabbrica dei tabacchi. Don Gino osserva che, nonostante i controlli, un minimo di contrabbando era possibile effettuarlo con le foglie che erano sfuggite al conteggio della Finanza.
La mattina gli uomini si recavano nei campi per la raccolta delle foglie di tabacco mature che passavano poi alla lavorazione dei bambini e delle donne che munite di ago e filo raccoglievano le foglie in “nzerte” che con lo spago venivano appese al taraletto per ottenere che si seccassero al sole.
Una volta che il tabacco fosse secco si metteva nelle casse e si portava il tutto al padrone della fabbrica che lo valutava in un corrispettivo in danaro che il contadino doveva accettare senza poter fare trattative. Quei soldi guadagnati con tanta fatica dell’intera famiglia dovevano essere sufficienti a passare l’anno intero.
L’altra attività agricola era la coltivazione delle civaje. Fagioli, ceci, piselli erano le altre piante presenti nei campi coltivati dagli agricoltori “te la Giurdana” si raccoglievano secchi e dopo raccolta e la trebbiatura che realizzava la separazione dai gusci venivano conservati per ottenere la minestra nel recipiente di terracotta che veniva messo accanto al fuoco per la lenta cottura.
Le ulteriori coltivazioni presenti erano il grano e l’orzo che dopo la semina e la trebbiatura venivano portati al Mulino per la macina al fine di ottenere la tanta agognata farina dalla quale si sarebbe fatto il pane e le frise che venivano portate al forno.
Le famiglie di agricoltori o di braccianti erano parecchie nel Casale “te la Giurdana” e don Gino le cita anche se dichiara che non è facile ricordarle. C’erano “LI PATULA” braccianti che lavoravano a giornata; inoltre c’erano “LI RAZZULI” che era una famiglia di ortolani dedita alla coltivazione delle  “MENEUNCEDDRE” E DEI POMODORI nella località detta “A RRETU LECCE” che poi corrisponde alle sette lacquare dove oggi insiste il Mercato Coperto della vicina città Capoluogo e che coltivavano anche una Masseria nei pressi di Frigole.
Don Gino ricorda altre famiglie che vivevano nel Casale tra queste “LU POPULANU” che era sposato con “LA MONECONE” che faceva il fruttivendolo comprando dai contadini i frutti di stagione che poi vendeva al minuto alle famiglie.
Ricorda anche “LU SETTECUERI” che era il proprietario di un cavallo e di un TRAINO E POI SOSTIENE CHE POSSEDEVA MOLTE TERRE “LU PATRUNI ANGIULINU”.
La casa per le persone e la stalla per gli animali erano senza soluzione di continuità. Nella stanza subito dopo l’ingresso si mangiava, in quella che stava subito dopo e dietro a questa si dormiva. Nell’orto c’era la stalla degli animali. Non mancavano mai le galline poiché era necessario avere l’uovo fresco.
Un altro abitante del Casale “la Giurdana” era “LU PIPPI TRE CENZI” che era proprietario di una carrozza che faceva servizio tra Lecce e San Cesario per i passeggeri che dovevano raggiungere la vicina Lecce.
C’erano nel Casale i maniscalchi erano necessari perché i possessori dei cavalli che si utilizzavano in campagna dovevano provvedere a ferrarli, tra questi “MESCIU FIORE” era un grande esperto del mestiere infatti puliva gli zoccoli dei cavalli, realizzava i ferri roventi su misura che venivano pennellati con il grasso delle ruote.
Una volta che il lavoro fosse terminato era d’obbligo fare una pausa con un bicchiere di vino dopo ogni ferrata e per farlo ci si recava nell’osteria di “PISCI TINGALLA” e con il cliente si gustava un uovo lesso innaffiato da vino, gazzosa e chinotto.
Don Gino prosegue descrivendo la mattina presto in cui si sentivano i colpi di martello sulle suole ad opera dei calzolai sul batti suole. I calzolai erano “LI PAPPAFARINA” che realizzavano sandali e ciabatte che poi vendevano ai mercati dei paesi vicini.
Non mancava nel Casale il ciabattino che lavorava nella strada “MESCIU ROCCU BANDA” grande lavoratore che con il suo tavolino provvedeva a riparare scarpe e scarponi. Cuciva e inchiodava scarpe vecchie che si utilizzavano per andare a lavorare, mentre con mezzi tacchi e “menzetti” riparava le scarpe della festa.
C’era anche tra gli abitanti “te la Giurdana” un cavamonti “zzoccature” “LU RONZU NINELLA” che lavorava nella cava.
Don Gino poi passa ad illustrare le suppellettili che si utilizzavano a quei tempi.
I secchi e “le menze” che erano contenitori di 10 litri di rame e si usavano i primi per prendere l’acqua dalla cisterna e le  menze per raccoglierla che a volte perdevano acqua perché forati. Poi c’erano le pentole per cucinare da mettere sul fuoco che dovevano ogni tanto essere riparate. Provvedeva a questo lo stagnino “MESCIU ANGIULINU”.
Inoltre c’erano i Barbieri per barba e capelli “MESCIU CISARINU TRE CENZI” E “L’UCCIU TE LA MARIETTA”.
“MESCIU NINU CAPONE” faceva lo scalpellino molto bravo tanto da essere chiamato geometra a tarda età. Ha realizzato sulla pietra leccese vere e proprie opere d’arte.
Quando i genitori andavano a lavorare i bambini non potevano essere lasciati soli a casa, per questo motivo c’erano le maestre, delle donne che provvedevano a prendersi cura dei bambini in assenza dei genitori. Nel Casale la Giurdana “LA MARIA GIACOBBE” zitella faceva questo lavoro. Ogni bambino si recava in casa della maestra con una sediolina e la maestra provvedeva ad insegnare le preghiere e le tabelline ai bambini. Maria Giacobbe era molto severa tanto da farsi rispettare con un solo sguardo.
Il Casale “la Giurdana” era famoso per la presenza di “curteddrari” ovvero artigiani che realizzavano i coltelli e le lame “LI PASSULONE”E “VITUCCIU PAGNOTTA” E “BANDIERA” sempre con il viso nero e le mani sporche di carbone e piene di calli. La fornace sempre accesa e il martello che batteva il ferro che nella fornace si era arroventato.
Ronche, coltelli e falci venivano forgiate e poi da loro stessi vendute nei mercati.
I manici dei coltelli venivano ricavati dalle corna delle mucche, i coltelli venivano utilizzati a tavola per tagliare il pane fatto in casa.
I fruttivendoli erano “LI RIZZELLA” che alle tre di notte partivano alla volta della Piazza Coperta di Lecce.
Non mancavano nel Casale le sarte che cucivano vestiti per le donne e pantaloni e camice per gli uomini erano “LA MARIA TE LA PISCIA”, “LA GINA TRECENZI”, “LA ROSA SETTECUERI” e “L’ANNITA MONECONE”.
Erano tutte sarte e ricamatrici che avevano imparato facendo da apprendiste presso le Maestre. Erano brave a tagliare e cucire abiti buoni sia per il lavoro che per la festa.
All’inizio della strada del Casale vi sono, secondo Don Gino, due cose da ricordare, il forno e “LU PURTUNE CU LA ROTA” ovvero il portone con la ruota.
Il pane si faceva in casa: farina, Llatu (impasto di pasta acidificata contenente fermenti per la lievitazione) e i muscoli per lavorare l’impasto. La mattina presto il pane messo su degli assi veniva portato al forno dove “LA VINCENZA” di notte aveva acceso il fuoco e la pietra leccese rossa (adatta ai forni) era calda e pronta per l’infornata. Si cuoceva pane di grano e di orzo e frise e taralli e piscialette.
Un’ultima cosa l’autore vuole segnalare affinché mai sia dimenticata perché in grado, secondo don Gino, di far capire l’amore sulla Terra.
C’era nel Casale, all’inizio della strada un portone con una ruota che era chiuso. Di notte la ruota si girava se qualche figlio appena nato era stato abbandonato da una madre sventurata e povera. Una creatura che veniva al mondo senza amore trovava sempre chi gli faceva da mamma e da papà.
La conclusione di don Gino, a mio modesto avviso, raggiunge le vette della poesia, infatti scrive: Nel Casale “La Giurdana” diciamo a conclusione, che non si soffriva la disoccupazione, tutti erano uniti e compatti tanto che in nessuna casa rimanevano vuoti i piatti.

Traduzione e commento di Antonio Bruno 

Per leggere il Racconto in vernacolo di Don Gino Scardino cliccare sui link di seguito riportati
SAN ROCCO 2016: Racconto in vernacolo di Don Gino Scardino, Prima Parte
SAN ROCCO 2016: Racconto in vernacolo di Don Gino Scardino, Seconda Parte

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