I colori de IL PALAZZO DUCALE DI SAN CESARIO DI LECCE di Giulio Laudisa
I colori
Alle impressioni intorno alla « mole » seguirono, col
passare degli anni, quelle circa il « colore », anzi, i «colori » del palazzo.
Parlare di « colore » dei monumenti salentini è piuttosto
improprio perché, la grigio dorata uniformità cromatica della pietra leccese,
unica componente della edilizia locale, è animata solo dai chiaroscuri delle caratteristiche
e spesso pletoriche decorazioni del « barocco leccese », dalle luci e dalle
ombre determinate dall'orientamento ed ubicazione topografico-urbanistica del
manufatto, e non da altri elementi pittorici.
Eppure, di colori, il palazzo ducale, a quei tempi, ne aveva
tanti che si stentava a catalogarli e che ora forse non si riuscirà a
ricordarli tutti.
C'era il « grigio azzurro » colore mattutino, quando,
l'ombra incombente su tutta la piazza vi disegnava un grande rettangolo, poi
una « elle » maiuscola con le due zampe di dimensioni ed intensità cromatiche sempre
variabili, quasi a formare un sottofondo musicale alla « sinfonia in blu »
della grande facciata tutta in ombra.
Scena di breve durata perché, i raggi solari, scavalcando il
fabbricato del Circolo Cittadino, allora ad un solo piano, cominciavano a
disegnare sulla nobile faccia del monumento le prime ombre lunghe, ombre man
mano sempre più corte, sempre più decise che, per contrasto, facevano risaltare
sempre più i particolari decorativi e vivificare il colore paglierino, oro
vecchio delle sue pietre.
C'era poi il trionfale « bronzo dorato » dei pomeriggi di
sole, quando le statue, le nicchie, le decorazioni, la liscia muraglia
assumevano gli aspetti di una brillante ed impetuosa composizione pittorica
alla Salvator Rosa. Colorazione che toccava il parossismo nei pomeriggi della
lunga estate salentina, durante il solleone, quando le curve terrazze delle
basse case del paese rassomigliavano alle groppe di un gregge che cercasse di
stringersi sempre di più l'una a fianco all'altra per offrire sempre meno
bersaglio ai dardi del sole.
Le pietre del palazzo, dietro la nebbiolina dell'afa
vaporante dal suolo, pareva vacillassero, trasformarsi in una colata lavica, in
una massa metallica incandescente sul punto di liquefarsi e traboccare da un
immenso crogiolo. Luce, calore e colore abbacinanti che inducevano a desiderare
la metamorfosi della piazza deserta in una grande cisterna, uno stagno, una
insenatura marina per vedere, da un momento all'altro, le quattro statue belle
e pronte lassù in costume da bagno, fare un ardito tuffo dal « trampolino » di
dieci metri delle loro nicchie. Facevano pensare ancora ai poveretti ed
indefessi concittadini « notabili », che, dentro gli alti stanzoni del palazzo,
sudavano non metaforicamente le sette camicie per il governo della cosa
pubblica, per il bene della comunità.
Idea sballata perché, a quell'ora, nel palazzo, non c'era
anima viva. Era l'ora della « contr'ora » e forse, pure i topi, padroni
indisturbati dell'ultimo piano del palazzo, osservavano tale salutare
consuetudine.
Se veramente ci fosse stato qualche funzionario di alta o
bassa gradazione o qualche semplice « messo » od inserviente, si sarebbe potuto
scommettere che non stava sudando le tradizionali sette camicie per encomiabile
zelo professionale o per evangelico slancio pro « res publica », ma stava
lassù, più comodamente e più al fresco di casa propria, a schiacciare un
sonnellino. Considerazioni e supposizioni, queste, di carattere generale
valevoli per l'altrui e per la nostra burocrazia, ieri, oggi e domani, e di
carattere particolare per la ragione che, i saloni del palazzo, protetti dallo
spessore grande delle muraglie, erano effettivamente freschi e riposanti
durante la canicola. Dopo l'orgia cromatica estiva c'era il colore di « acciaio
brunito », lucido, severo dell'autunno e dell'inverno quando, il libeccio o lo
scirocco rovesciavano, di faccia o di striscio, le loro valanghe d'acqua sulla grande
facciata. Acqua che, dopo aver lavato la faccia alle statue, tolto la polvere
ai ghirigori delle decorazioni, ingrandito le macchie nerastre di muffa delle
pietre, pulito la piazza, si avviava, impetuosa e li macciosa, lungo la strada
a fianco della Chiesa e dell'Ospedale, fino al baratro della « ora » sulla
strada di Lequile.
Acqua che, secondo la mentalità « sitibonda » dei pugliesi
di allora, sarebbe stato più utile averla a disposizione abbondante, fresca e filtrata
nei mesi della lunga siccità.
Quell'acqua, invece, serviva a dare al palazzo un colore
ferrigno, tetro, come di un ritorno alla sua antica funzione feudale di freddo
e sinistro dominio. Fantasia sballata anche questa, perché il palazzo ducale dei
Marulli, da sempre, ha avuto l'impronta di dimora gentilizia e mai la grinta
guerriera. Un aspetto vagamente militaresco lo avevano i busti dei tanti
valentuomini appollaiati, o meglio appostati sopra le finestre ed entro le
nicchie come dalle bertesche e feritoie di un antico maniero. Però, a pensarci
bene, se quei pupazzi — che in dialetto chiamavano « mammocci » — avessero dovuto
« menare le mani », sarebbe stato un bel guaio perché erano tutti senza
braccia. La grinta guerriera l'avevano i due colossi virili, i mitici
protagonisti di tante gesta di forza e di violenza. Ma erano, come è noto, in «
costume da bagno », e in quell'abbigliamento, non guerreggiavano nemmeno gli
eroi omerici.
Al tramonto, il grande cielo salentino, dava spettacolo.
Grande perché, in pianura e sul mare, occupa quasi tutto il panorama.
Da grande gioielliere esponeva il suo più fulgido diadema di
rubini, topazi, smeraldi, ametiste, opali; da gran pittore tirava fuori dalla
tavolozza i rossi, gli arancione, i gialli, i verdi, i turchese più vivi e
brillanti.
Spettacolo consueto, ma sempre bello e variato che si poteva
ammirare in piazza grande solo per quel tanto che la scura mole del Duomo permetteva
si disegnasse sulla facciata del palazzo ducale.
La piazza e tutto il pianterreno del palazzo erano immersi
in un'ombra sempre crescente impastata di viola e di turchino sempre più scuri.
Il primo piano, col suo rosso vivo, arancione, ocra, terra
di Siena bruciata, metteva sangue nelle vene delle statue che, nel gioco rapido
dell'ombra incombente, pareva si movessero. Poi era il blasone dei Marulli a
prendere la foggia e la colorazione di un regale baldacchino cremisi sormontato
dalla sua grande corona ad altorilievo. Infine, il piano attico, era segnato da
un rettangolo, poi da una striscia, infine da una linea giallo oro sospesa tra
il bruno cupo del palazzo tutto in ombra e l'opalino del cielo crepuscolare.
Era questione di pochi minuti. Come in una valle dolomitica,
tutto si trasformava in un violetto sempre più intenso, in un turchino sempre più
scuro. Passava il solerte lampionaio; tre, quattro piccoli aloni giallastri punteggiavano
il bruno del palazzo e della piazza; i vetri di qualche finestra lasciavano
filtrare la luce delle lampade a petrolio ed indicavano che era ora di
trasferire tra le pareti domestiche la « vita cittadina». I capannelli si
scioglievano, gli amici si salutavano; le chiacchiere, le speranze, i progetti
si rimandavano al prossimo convegno, si tornava a casa nell'oscurità pressoché
completa.
L'indomani sarebbe stato un altro giorno.
In paese, pochi potevano dire di aver visto la grande mole
del palazzo ducale biancheggiare sotto la luna, e le decorazioni e le statue prendere
i riflessi grigio argento simili a quelli del busto del Santo Patrono quando
veniva portato in processione. Il palazzo è orientato a ponente, e per essere
illuminato dalla luna, occorreva attendere le ore piccole.
San Cesario, all'epoca in cui sono ambientati questi vecchi
ricordi, non era città da nottambuli; si andava a nanna con le galline od al massimo
all'ora canonica delle dieci di sera. Forse avranno potuto ammirare il solenne
spettacolo i soci del Circolo Cittadino quando se ne tornavano a casa a tarda
notte dopo le consuete interminabili partite a carte. C'è da mettere in dubbio
però che, specialmente coloro ai quali era stata avversa la fortuna al gioco,
avessero avuto per la testa simili romanticherie.
Durante le feste patronali e le rare occasioni solenni in
cui tutta la popolazione stava in piedi fino a tarda notte, il palazzo ducale,
con o senza la luna, non aveva nessun colore proprio; ma solo quello riflesso dal
caleidoscopico baluginamento delle luminarie ad olio, e solo fino all'altezza
del pianterreno perché, il primo piano e l'attico, si confondevano col buio
cupo del cielo.
E per finire, collegate in un certo senso con la luna e con
la notte, ci sono sempre state, sul conto dei vecchi manieri, le storie, le
leggende vicine e lontane di fantasmi, di prigioni, di catene, di trabocchetti,
di eventi più o meno truci o soprannaturali tanto cari ai favolisti d'ogni tempo
e paese. Il palazzo di San Cesario, però, non offre il destro a racconti né
gialli né giallorosa.
Per questi racconti occorre risalire ai « secoli bui », a
quelli dei Comuni, delle Crociate, del Rinascimento. Il « nostro » è troppo
giovane, ha appena tre secoli di vita ed ha visto passare nelle sue stanze di
dimora gentilizia solo le tre ultime Casate feudali di San Cesario: i Guarini, i
Vaaz de Andrade, i Marulli.
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