La stanza di Ezechiele. Una mostra sentimentale su Ezechiele Leandro


di Lucio Galante (già ordinario di Storia dell’arte moderna e titolare dell’insegnamento di Storia dell’arte contemporanea. Metodologia della ricerca, Università del Salento) Vedi nota a fine articolo

Ha visto finalmente la luce la pubblicazione dedicata alla mostra “La stanza di Ezechiele - Una mostra sentimentale su Ezechiele Leandro”, questo il suo titolo, tenutasi presso il Museo civico di Arte Contemporanea di San Cesario di Lecce dal 28 febbraio al 16 marzo 2014 (Galatina, Editrice Salentina, dicembre 2015). Dalla nota del curatore si apprende che detta pubblicazione è stata allargata ad altri collaboratori «in vista della retrospettiva che dal maggio 2016 sarà ospitata nella
pinacoteca nazionale “Devanna” di Bitonto, nel museo “Castromediano” di Lecce e nella distilleria “De Giorgi” di San Cesario di Lecce, su iniziativa della Soprintendenza per i beni artistici, storici e antropologici di Puglia».
Ma fatto più importante, di cui si dà notizia nella stessa sede, è l’acquisizione del vincolo di tutela del Santuario della Pazienza e della casa museo di Ezechiele Leandro, fatto che lascia sperare in un
successivo progetto per la sua conservazione. Il catalogo, come di rito, ospita anche le testimonianze di quanti, amministratori e politici, si sono impegnati per ottenere il suddetto vincolo, tra le quali, quella dell’artefice principale, l’on. Massimo Bray, già Ministro dei Beni culturali e
del Turismo, che si è rivelata non un intervento di rito ma un breve e informato profilo della figura di Ezechiele Leandro.
La prima osservazione che m’è venuta spontanea riguarda il sottotitolo, che sembra volerci dire di che tipo di mostra si è trattato. Se si tiene conto del significato dell’aggettivo “sentimentale”, che si riferisce, cioè, «agli affetti, con sfumature che vanno da una tenerezza languida e malinconica fino a un abbandono irrazionale alla commozione patetica» (secondo il Devoto-Oli), la mostra avrebbe dovuto o esprimere il modo in cui il curatore ha interpretato l’evento o suscitare tali sentimenti. Devo, però, confessare che la sensazione che ho avvertito entrando nell’ambiente nel quale era
allestita è stata di una certa desolazione, innanzitutto per le caratteristiche di quello spazio, che non è certo il più idoneo a ospitare una mostra, al che si aggiungeva l’assenza di un vero e proprio allestimento e di supporti allestitivi (didascalie, pannelli informativi ecc.) Ma tant’è, le mostre appartengono all’effimero, ciò che resta sono proprio i cataloghi. E, a proposito del presente, noto che il titolo del testo del curatore non riprende quello della mostra, ma ne ha uno del tutto diverso,
composto di due parti, la prima in forma di domanda, e cioè: Ezechiele Leandro, artista outsider?, (è forse un ripensamento dell’esagerato giudizio, espresso nel 2013: «è tra gli artisti outsider più significativi d’Europa», p.136, nelle Biografie del catalogo MUST 2013 ?), la seconda un semplice enunciato: Appunti per una ricerca, che sembrerebbe indicarne nello stesso tempo la finalità seria e i limiti, cioè, non un saggio vero e proprio sui contenuti della mostra, ma esposizione di linee di ricerca. Mi son chiesto, allora, se fosse comunque quello preparato, a suo tempo, per la mostra,
per cui mi sono accinto alla sua lettura per avere la risposta, pensando, altresì, che, considerata la tardiva pubblicazione del catalogo e la maggiore disponibilità di tempo, l’autore avrebbe potuto rielaborarlo, magari alla luce degli altri contributi ivi inseriti, ma poi ho appreso dall’avvertenza in asterisco, che il testo presente era un nuovo contributo, per il quale l’autore aveva utilizzato “alcuni passaggi” di un suo precedente articolo dal titolo Ezechiele Leandro e il santuario dell’arte.

Insomma nulla che spieghi, almeno in esordio, ( si intende dal punto di vista critico) il perché di quel sottotitolo. Invece si legge subito una citazione dello scultore ‘pugliese’ Nino Rollo (perché “pugliese” e non scultore, e basta?), riguardante Leandro, con la quale viene riproposto il solito motivo del «luogo (s’intende Lecce e il Salento) geograficamente dimenticato da ogni volontà politica e lasciato al di fuori per secoli, lontano dagli scambi culturali e restio, sempre per incapacità e presunzione politica a raccogliere e recepire qualsiasi forma di cultura artistica e non, che non fosse quella ufficiale: ecco perché è stato quasi da tutti schernito, denigrato e ignorato», e, a seguire, il solito appunto alla responsabilità delle istituzioni, «comprese quelle legate alla formazione universitaria e accademica, del tutto estranee dal dibattito, anche perché dedite ad altri ambiti di studio». Devo dire che la perentorietà di queste affermazioni mi ha fatto capire finalmente il livello
di competenza di questo giovane interessato all’arte contemporanea, ma anche, stando all’argomento, alla storia dell’arte contemporanea, il quale, tra l’altro, proprio in questo primo passaggio ha pur dovuto citare alla nota 2, facendo vedere di esserne al corrente, quel poco di bibliografia riguardante “il contemporaneo”, a vantaggio, ovviamente, del lettore, lasciando, però,
a questi il compito di andarsela a leggere per avere “alcuni ragguagli”, guardandosi bene dal fare quello che uno studioso normalmente fa, e cioè distinguere tra le varie voci bibliografiche, certamente non omologabili, proprio perché frutto di autori diversi e con competenze diverse, quelle utili e quelle inutili. Avrebbe potuto dire, ad esempio, che alcuni di quei contributi citati sono
del tutto sprovvisti di apparati di note e perciò almeno discutibili dal punto di vista del metodo scientifico.

Non solo, ma non ha neanche tenuto conto che si tratta di lavori di natura diversa, come lascia intendere la segnalazione nella stessa nota del recente volume che raccoglie una buona parte dei miei scritti di arte contemporanea, trasformandola in buona occasione per riconoscersi ed esercitare la potestà di giudice senza essere, certo, in possesso di un ampia produzione scientifica e conseguente competenza e conoscenza in materia. Il mio sospetto è che egli non abbia affatto letto
l’introduzione di Massimo Guastella, o, se lo ha fatto, non è stato certo in grado di cogliere le problematiche metodologiche connesse all’esercizio critico evidenziate dal curatore. E invece, ha in modo apodittico stabilito che alcuni degli artisti trattati nel volume sono “secondari o del tutto estranei al dibattito culturale territoriale e nazionale», (non mi risulta, inoltre, che gli artisti di
cui s’è anch’egli interessato siano tutti di primo piano. È ancora tutto da dimostrare che Ezechiele Leandro sia stato un protagonista dell’arte contemporanea in Italia; e a proposito di “secondari”, ma sarebbe meglio dire “minori”, non gli farebbe male andare a leggere, possibilmente attentamente, il saggio di Mario Marti, Il minore crocevia di cultura. Non è, infine, la grandezza dell’artista che garantisce la qualità del critico). Ma è bene tornare al suo testo. In particolare al passaggio che sembra avere rilevanza dal punto di vista critico e che conviene riportare integralmente a beneficio del lettore: «Nel palinsesto (sicuro che questo termine sia quello giusto? Non sarebbe stato
meglio scrivere “storia”?) dell’arte contemporanea di area pugliese, e non solo, l’operatività di Leandro rappresentò una grande novità, fino all’avvento della sua opera, non c’erano stati casi simili da inquadrare nell’ambito dell’Art Brut. L’alfabeto visivo di Ezechiele Leandro teneva conto – con una dose di consapevolezza – di esperienze connesse con le Avanguardie storiche dei primi del Novecento, anche Dadaiste, Astrattiste e Surrealiste. Non si sa come si fosse aggiornato, o almeno a parte le testimonianze orali e qualche aneddoto, non ci sono prove precise che facciano luce su questo processo. Ma la sua cultura visiva va ricercata anche nelle radici religiose della sua primissima formazione infantile, nelle tradizioni contadine del suo territorio, in un certo horror vacui di ascendenza barocca, ma soprattutto talune soluzioni formali e simboliche da rintracciare in quel palinsesto della cultura medievale che è il mosaico pavimentale di Otranto”. Dunque, Leandro è da inquadrare nell’ambito dell’Art Brut, anche se il suo “alfabeto visivo” (che il termine “alfabeto” sia una metonimia?) ha tenuto conto, si badi,«con una dose di consapevolezza», «di esperienze connesse con le Avanguardie storiche dei primi del Novecento, anche quelle Dadaiste, Astrattiste e Surrealiste», ma di questo «non ci sono prove precise» (allora come la mettiamo? È quello il suo retroterra culturale?). Il resto, poi, è quanto già risaputo compreso il riferimento al mosaico di Otranto. A ciò, va aggiunto, il giudizio: «Il suo alfabeto (gli piace proprio il termine
“alfabeto”) – da intendere come un mix di tutti questi riferimenti – è rivoluzionario, proprio perché primitivo, sincero, impenetrabile e sconfinato». È, questa, una bella spiegazione del suo essere “rivoluzionario”, con l’avvertenza, però, che dire “primitivo” (una qualifica che gli fu attribuita, per chi non lo sapesse, da Ennio Bonea che la comunicò personalmente all’artista che, a sua volta, la preferì a quella di “naif”. Vedi E. Bonea, introduzione a Ezechiele Leandro, La creazione, Manni
Editori, 2002) significa già stabilire un nesso con alcune esperienze del novecento, dire “impenetrabile” e “sconfinato”, significa dichiarare la resa del lavoro critico, e “sincero” dire una qualità che si richiede ad ogni espressione artistica. Occorreva fare giustizia nei confronti di Leandro, incompreso dalla storiografia locale e da quella accademica, in particolare nell’ambito
universitario restio a impegnarsi in riflessioni adeguate non sull’arte contemporanea ma, come egli dice, sulla “contemporaneità dell’arte” (sarà un tema nuovo?), compito che s’è assunto proprio in quanto curatore della mostra. Quello che fa subito dopo è un ripercorrere brevemente la vicenda di Ezechiele Leandro.
In questa parte non si risparmia nel riconoscere meriti all’artista, per cui prendere una vecchia tela e
manipolarla cambiandone “i connotati”, come quegli avrebbe fatto, diventa, secondo il suo giudizio, «un gesto che ha un’intensità in qualche modo rivoluzionaria», addirittura in questa operazione ci sarebbe «la consapevolezza demiurgica del creativo, e fors’anche la volontà di mistificare i profili di un’opera esistente»

(Ma allora cosa è stata una “mistificazione”?). Inizio più esaltante per Ezechiele Leandro non poteva essere individuato, inizio della «sua appassionata attività pittorica, stimolata da un immaginifico universo popolato da arcane figure, in un continuo sussulto emotivo, tra sogno e incubo, radici profondamente religiose e bagliori di imprevedibile visionarietà» (è sempre il suo testo!). Confesso che ho avuto qualche difficoltà a pensare che l’attività pittorica sia stata
stimolata da un “immaginifico universo” fatto di “arcane (misteriose?) figure”, come se questo preesistesse, ma per correttezza va detto che queste sue annotazioni sono corredate anche di un rinvio bibliografico nella nota 7, con la quale l’autore in fondo dice che esistono, ovviamente, le opere e che il lettore, se vuole averne qualche ragguaglio, deve andarsi a guardare le pubblicazioni e i cataloghi delle mostre a lui dedicate, omettendo semmai di segnalare in quella bibliografia
quei contributi , come quelli di Angela Serafino e di Luca Carbone, questi, sì, contenenti indicazioni
metodologiche e di ricerca sicuramente valide. Di fare qualche esempio, rinviando a qualcuna delle opere che erano in mostra, se non proprio facendone l’analisi stilistica, almeno descrivendola, non se ne parla proprio (so della scontata obiezione che le opere in mostra sono illustrate nel catalogo, ma il problema è proprio questo, manca una loro specifica lettura critica).
E dopo l’inizio esaltante dell’artista, ecco il “suo capolavoro”, il Santuario della Pazienza. Il giudizio, anche in questo caso, è perentorio, non ammette discussioni, e, purtroppo, neppure spiegazioni. Va detto che un qualche sforzo di descrizione dell’opera c’è, magari con qualche difficoltà linguistica e di senso (Esempi: «Ezechiele osserva la natura e le credenze popolari, da cui estrae esseri dalle fattezze antropomorfe e animali arguiti da un bestiario fantastico», o, più avanti: «Crea così percorsi studiati, vere e proprie zone di conoscenza in cui c’è spazio per il sacro e il profano, all’insegna di un horror vacui che elabora un immaginario stratificato di colori e forme,
pensieri e scene» - mi torna nuovo che l’horror vacui sia un soggetto capace di elaborare un immaginario stratificato ecc.- (vorrei cogliere l’occasione, a questo punto, per consigliare all’autore di rileggere i suoi testi prima di dare il si stampi, per non incorrere in inconvenienti come quello del suo libretto “Remake”, nel quale ha confuso l’aggettivo ” lussureggiante” con “lussurioso”) ma lo sforzo c’è. Il seguito finale del testo è un ragguaglio sulle vicende esterne del patrimonio di Ezechiele, in particolare la lunga trattativa tra gli eredi e il comune di San Cesario per una sua acquisizione al patrimonio pubblico, che nulla aggiunge ai fini della sua conoscenza e interpretazione.
Vorrei ritornare, ora, alle sue riserve nei confronti dell’ambito universitario, dal quale tra l’altro anche lui proviene (salvo il rinnegamento di quanto lì ha potuto apprendere). Vorrei ricordare a vantaggio delle sue conoscenze alcuni dati storici. Nel 1979 tra il Comune di San Cesario e l’Istituto di Storia dell’arte, dallo scrivente allora diretto, fu stipulata una Convenzione con la quale
si dava inizio «al tanto auspicato collegamento tra enti pubblici locali e istituzioni culturali e di ricerca, nella convinzione che queste debbano sempre più qualificarsi come strutture di supporto alle diverse esigenze espresse dal territorio». Il primo frutto di quella collaborazione fu la pubblicazione del volume riguardante la storia, l’arte e l’architettura di San Cesario e la quasi
contemporanea organizzazione della prima importante mostra di Arte contemporanea, “Presenza e Memoria – Sette artisti italiani all’inizio degli anni ottanta”, curata dallo scrivente e da Antonio Del Guercio, titolare della cattedra di Storia dell’arte contemporanea, istituita dall’Università di Lecce, una delle non numerose cattedre allora presenti nelle Università italiane.
Seguirono nel corso degli anni altre mostre altrettanto importanti, mi riferisco in particolare a quella antologica su Aldo Calò, che ebbe come conseguenza la donazione al comune di un cospicuo numero di sue opere, destinate al museo civico d’arte contemporanea, quella di Nino Cappello con relativo lascito di opere al comune, quella di Fernando De Filippi, di Francesco Barbieri; insomma con ritmi alterni il comune di San Cesario ha sempre prestato attenzione all’arte e alla storia dell’arte contemporanea tanto più che aveva istituzionalizzato questa sua attenzione con la costituzione del museo civico, allora caso unico di struttura pubblica, per quel che mi risulta, in Puglia. È nel suo spazio che si sono succedute alcune delle mostre di Ezechiele Leandro. Se a queste non ha fatto riscontro un riconoscimento del suo valore (in certo senso un problema tuttora aperto), forse bisognerebbe riflettere su cosa è mancato in tante occasioni. Ad esempio non s’è mai messo mano in quelle circostanze a una catalogazione sistematica delle sue opere (come m’è capitato di far presente in alcune occasioni anche pubbliche), impegno divenuto oggi molto più arduo per la dispersione di buona parte di esse. L’amministrazione di San Cesario a partire da
una certa data in poi non ha più ritenuto di rapportarsi all’Università facendo scelte a dir poco discutibili, si pensi ad esempio allo smantellamento del Monumento ai caduti progettato da Aldò Calò, ora relegato a margine della piazza antistante il palazzo ducale.
La nota del curatore ci ragguaglia anche sul perché la partecipazione al catalogo sia stata allargata ad altri autori. Inutile dire che sono proprio questi a dare ad esso un certo spessore. Infatti al punto interrogativo del titolo del testo del curatore sembrerebbe tentare di dare una risposta il contributo di Brizia Minerva, che non sembra avere dubbi nell’accomunare la figura di Leandro ad altri casi di artisti outsiders, anche se con le dovute differenze, per esempio quando sostiene che «il flusso di immagini che fuoriesce con urgenza in modo totalmente e autenticamente inconscio in Leandro è invece nella ricerca estetica e letteraria dell’area medioeuropea, frutto di una complessa elaborazione intellettuale» o quando afferma che la base psicanalitica dell’operare di Leandro «connette le [sue] sperimentazioni visive… con quanto di pari passo avviene, negli stessi anni, tra il Quaranta e il Cinquanta, nell’informale europeo e americano includendo gli orientamenti che dall’Espressionismo astratto all’Astrazione lirica o Tachisme, descrivono l’area dell’astrazione non geometrica, fiorita appunto in quegli anni», o quando stabilisce una qualche relazione con l’Art Brut di Dubuffet, assimilando il viaggio di quest’ultimo nel deserto del Sahara al soggiorno di Leandro in Africa (per cercare fortuna) dal 1933 al 1936. Se il saggio di Rachele Fiorelli aveva lo scopo di
rinforzare la tesi di Leandro outsider, non v’è dubbio che, così come è prospettata, la figura di Isravele ha aspetti biografici che sembrano coincidere, ma è altrettanto vero che il tipo e il carattere della sua opera rivelano un diverso sostrato di cultura e un diverso contenuto. Non credo vi sia altro legame, per cui la sua presenza non era poi così indispensabile. Ho lasciato per ultime le mie osservazioni sul contributo di Eva di Stefano, perché è quello che è risultato avere, a mio avviso, un ruolo chiave nell’economia del catalogo, per l’utilità che esso può avere per chi intendesse affrontare lo studio e l’analisi di fenomeni come Leandro, e perché richiama, innanzitutto, l'attenzione sul problema della definizione della categoria “Outsider Art”. Al riguardo mi sembrano particolarmente esplicativi i seguenti passaggi del suo scritto: «Nella situazione attuale di generale omologazione e di asservimento alle leggi dell’economia l’arte outsider propone … ancora e di nuovo, un valore di intensità, di comunicazione forte, di complessità simbolica ed energia psichica perfino nelle sue forme più grezze e più elementari, e finora anche di autenticità rispetto alla
leggi di mercato. Perciò l’assimilazione compiacente di quel territorio indefinibile che chiamiamo “outsider art” nel paese glamour dell’arte contemporanea non è esente da rischi. Tutto dipende dalla prospettiva con cui guardiamo alle cose: a me piace ad esempio immaginare “un’unica città dell’arte”, dove alcuni artisti abitano sulla via principale, altri sulle vie laterali, ma che se vogliamo veramente conoscere dobbiamo percorrere tutta dal centro alla periferia, anche smarrendo per via le coordinate e i punti cardinali. Come in ogni vera città, il suo fascino infatti è costituito dall’identità e dalle peculiarità dei suoi diversi quartieri, e non dalla loro omologazione. Si tratta piuttosto di renderli tutti percorribili, di cercare una buona rete di comunicazione e di trasporti. Dotandosi anche di una mappa per non trascurare nessuna via. Il termine outsider per me ha semplicemente un’utile funzione di orientamento, è l’ago della bussola che mi porta verso il mio quartiere
preferito».
Anche sull’identità dell’artista outsider, il saggio sollecita a intendersi, perché mi chiedo, proprio
sulla base di quello che si legge in questo catalogo su Leandro, se questi risponde al profilo tracciato dalla studiosa e che conviene rileggere: «Si tratta di autori autodidatti, senza istruzione artistica e a volte senza istruzione di alcun tipo, che operano nell’ombra e nella semi clandestinità, indifferenti o inconsapevoli o marginali rispetto ai linguaggi artistici correnti e al sistema ufficiale dell’arte. Seguono solo i loro modelli interiori in preda a una sorta di ossessione creativa totalizzante e incontrollabile che è capace di superare ostacoli e disagi esistenziali. Autori che inventano un proprio linguaggio, una tecnica personale e un proprio modo originale a partire dai materiali che hanno a disposizione. Suggerendo anche il criterio per misurare la “qualità” delle loro opere, stabilisce evidentemente la condizione per riconoscerne e legittimarne il ruolo storico, è questa, anche, la condizione che motiva l’interesse dei critici e degli storici, e, come sostiene
la stessa studiosa, la ulteriore necessità della loro conservazione, pur ritenendo altrettanto legittima
la loro “esemplarità antropologica”, se, appunto, a differenziarle dall’arte degli storici dell’arte «sono le circostanze della loro genesi, le intenzioni degli autori, e il processo di ricezione sociale». Dire che la lettura preventiva di questo saggio avrebbe giovato agli altri contributi è dire poco, considerata anche la sua distanza dagli altri interventi. L’auspicio è che in vista della programmata mostra, ne tengano conto gli autori e i collaboratori che saranno impegnati.
Che l’occasione della nuova mostra potrà essere diversa dalle precedenti, lo si desume chiaramente
dall’intervento della Soprintendente Antonella Di Marzo, nel quale si dice esplicitamente che nasce con la cura della Soprintendenza, che significa innanzitutto garanzia dal punto di vista organizzativo, ma anche per la scientificità dei risultati, per cui certamente i collaboratori saranno accuratamente selezionati. Mi si permetta, perciò, di concludere questa lunga recensione suggerendo la necessità di procedere alla catalogazione sistematica di tutte le opere reperibili, presupposto indispensabile per una solida ricostruzione storica della vicenda di Ezechiele Leandro, di tracciare la sua fortuna critica, che serve a fare il punto sullo stato degli studi, di procedere alla loro lettura e interpretazione in modo metodologicamente attrezzato per evitare approssimazioni e genericità che ancora persistono, magari tenendo conto di quei contributi che hanno già dato indicazioni utili alla comprensione della figura di Ezechiele, come ad esempio quella di una
accorta utilizzazione dei suoi scritti, anch’essi rivelatori della cultura dell’artista. Solo in questo modo anche indicazioni di confronti, come quella di Antonella Di Marzo, potrebbero trovare una spiegazione, chiamando in causa, in questo caso, il difficile tema della migrazione dei simboli e degli scambi culturali.

Fonte: Il Bollettino N. 1/2 - gennaio/febbraio 2016
Dalla didattica alla ricerca all’interazione col territorio, nello spirito del dialogo tra saperi,
un diario di viaggio dell’Università del Salento scritto dalla comunità dell’Università del Salento.
ISSN 2284-0354



http://www.ilbollettino.unisalento.it/fulltext/2016_01-02.pdf

Lucio Andrea GALANTE
BIOGRAFIA

Professore Ordinario di Storia dell’arte moderna presso la facoltà di Beni Culturali, dove riveste la carica di vice-preside.
Direttore pro-tempore del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia
Nato a Barletta il 9 novembre 1942. Si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Lecce, discutendo una tesi di Storia dell’arte moderna, relatrice la Prof. Paola Barocchi. E’ stato Direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della facoltà di Lettere e Delegato del Rettore per le Biblioteche d’Ateneo. Vice-presidente e componente del Comitato scientifico del Centro Studi sul Barocco della Provincia di Lecce.
Ha svolto e svolge le sue ricerche su temi della Storia dell’arte nell’Italia meridionale in età moderna, con particolare riguardo alla storia della pittura in Puglia e Terra d’Otranto nei rapporti con la capitale del viceregno e del regno di Napoli, i cui risultati sono stati pubblicati in articoli, saggi e monografie. Ha condotto, altresì ricerche su temi di arte dell’Ottocento e del Novecento. Ha all’attivo la collaborazione scientifica a varie mostre d’arte moderna e contemporanea.
PUBBLICAZIONI

 PUBBLICAZIONI
  • Gian Domenico Catalano «Eccellente pittore della città di Gallipoli», Galatina 2004
  • Il Museo Diocesano d’Arte Sacra di Lecce, Lecce 2004
  • Lecce tra ‘500 e ‘600:la pittura tra identità municipale e nuovi limiti, in «Kronos», n.7, 2004, pp.125-132
  • Identità nazionale e pittura moderna in Francesco Netti e Pasquale Villari, in L'identità nazionale. Miti e paradigmi storiografici ottocenteschi, a cura di A. Quondam e G. Rizzo, Balzani Editore, Roma 2005 
  • Antonius Sanfelicius Episcopus Meritinus Quo Facilius Posteritati Commendaret Penicillo Esprimi Curavit Anno Domini MDCCXVIII, in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di Storia dell'Arte, a cura di Francesco Abbate, Roma 2005
  • Salvatore Sava, in Pro Arte Pro Deo, Catalogo della mostra, Campi Salentina 2005
  • Antonio Gigante in Pro Arte Pro Deo, catalogo della mostra, Monteroni 2006
  • La cultura figurativa in Puglia e nel Salento dal primo dopoguerra agli anni Cinquanta, in Ciro Fanigliulo 1881-1969, Mottola 2006
  • Sulle tracce di un originale perduto di Marco Pino, in Kronos n. 10, Mario Congedo Editore, 2006
  • Romano Sambati, in Romano Sambati – Geografie – Paesaggi a sud del sud, Catalogo della mostra, Galatina 2006
  • La collezione d’arte della Camera di Commercio, in Collezione d’Arte Moderna della Camera di Commercio di Lecce, a cura di Lucio Galante, Galatina 2007
  • Revisioni, in Percorsi di conoscenza e tutela-Studi in onore di Michele D’Elia, Paparo Edizioni 2008
  • Una <<Madonna del velo>> laica e borghese di Gioacchino Toma, in Il presente si fa storia-Scritti in onore di Luciano Caramel, cura di Cecilia De Carli e Francesco Tedeschi, Milano 2008
  • Geremia Re, a cura di Lucio Galante e Michele Afferri, Galatina 2008
  • Iconografia dei santi nell’Italia meridionale in età moderna: alcuni esempi in Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo, a cura di Bruno Pellegrino, Congedo Editore, 2009

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