La stanza di Ezechiele. Una mostra sentimentale su Ezechiele Leandro
di Lucio Galante (già ordinario di
Storia dell’arte moderna e titolare dell’insegnamento di Storia
dell’arte contemporanea. Metodologia della ricerca, Università del
Salento) Vedi nota a fine articolo
Ha visto finalmente la luce la
pubblicazione dedicata alla mostra “La stanza di Ezechiele - Una
mostra sentimentale su Ezechiele Leandro”, questo il suo titolo,
tenutasi presso il Museo civico di Arte Contemporanea di San Cesario
di Lecce dal 28 febbraio al 16 marzo 2014 (Galatina, Editrice
Salentina, dicembre 2015). Dalla nota del curatore si apprende che
detta pubblicazione è stata allargata ad altri collaboratori «in
vista della retrospettiva che dal maggio 2016 sarà ospitata nella
pinacoteca nazionale “Devanna” di
Bitonto, nel museo “Castromediano” di Lecce e nella distilleria
“De Giorgi” di San Cesario di Lecce, su iniziativa della
Soprintendenza per i beni artistici, storici e antropologici di
Puglia».
Ma fatto più importante, di cui si dà
notizia nella stessa sede, è l’acquisizione del vincolo di tutela
del Santuario della Pazienza e della casa museo di Ezechiele Leandro,
fatto che lascia sperare in un
successivo progetto per la sua
conservazione. Il catalogo, come di rito, ospita anche le
testimonianze di quanti, amministratori e politici, si sono impegnati
per ottenere il suddetto vincolo, tra le quali, quella dell’artefice
principale, l’on. Massimo Bray, già Ministro dei Beni culturali e
del Turismo, che si è rivelata non un
intervento di rito ma un breve e informato profilo della figura di
Ezechiele Leandro.
La prima osservazione che m’è venuta
spontanea riguarda il sottotitolo, che sembra volerci dire di che
tipo di mostra si è trattato. Se si tiene conto del significato
dell’aggettivo “sentimentale”, che si riferisce, cioè, «agli
affetti, con sfumature che vanno da una tenerezza languida e
malinconica fino a un abbandono irrazionale alla commozione patetica»
(secondo il Devoto-Oli), la mostra avrebbe dovuto o esprimere il modo
in cui il curatore ha interpretato l’evento o suscitare tali
sentimenti. Devo, però, confessare che la sensazione che ho
avvertito entrando nell’ambiente nel quale era
allestita è stata di una certa
desolazione, innanzitutto per le caratteristiche di quello spazio,
che non è certo il più idoneo a ospitare una mostra, al che si
aggiungeva l’assenza di un vero e proprio allestimento e di
supporti allestitivi (didascalie, pannelli informativi ecc.) Ma
tant’è, le mostre appartengono all’effimero, ciò che resta sono
proprio i cataloghi. E, a proposito del presente, noto che il titolo
del testo del curatore non riprende quello della mostra, ma ne ha uno
del tutto diverso,
composto di due parti, la prima in
forma di domanda, e cioè: Ezechiele Leandro, artista outsider?, (è
forse un ripensamento dell’esagerato giudizio, espresso nel 2013:
«è tra gli artisti outsider più significativi d’Europa», p.136,
nelle Biografie del catalogo MUST 2013 ?), la seconda un semplice
enunciato: Appunti per una ricerca, che sembrerebbe indicarne nello
stesso tempo la finalità seria e i limiti, cioè, non un saggio vero
e proprio sui contenuti della mostra, ma esposizione di linee di
ricerca. Mi son chiesto, allora, se fosse comunque quello preparato,
a suo tempo, per la mostra,
per cui mi sono accinto alla sua
lettura per avere la risposta, pensando, altresì, che, considerata
la tardiva pubblicazione del catalogo e la maggiore disponibilità di
tempo, l’autore avrebbe potuto rielaborarlo, magari alla luce degli
altri contributi ivi inseriti, ma poi ho appreso dall’avvertenza in
asterisco, che il testo presente era un nuovo contributo, per il
quale l’autore aveva utilizzato “alcuni passaggi” di un suo
precedente articolo dal titolo Ezechiele Leandro e il santuario
dell’arte.
Insomma nulla che spieghi, almeno in esordio, ( si
intende dal punto di vista critico) il perché di quel sottotitolo.
Invece si legge subito una citazione dello scultore ‘pugliese’
Nino Rollo (perché “pugliese” e non scultore, e basta?),
riguardante Leandro, con la quale viene riproposto il solito motivo
del «luogo (s’intende Lecce e il Salento) geograficamente
dimenticato da ogni volontà politica e lasciato al di fuori per
secoli, lontano dagli scambi culturali e restio, sempre per
incapacità e presunzione politica a raccogliere e recepire qualsiasi
forma di cultura artistica e non, che non fosse quella ufficiale:
ecco perché è stato quasi da tutti schernito, denigrato e
ignorato», e, a seguire, il solito appunto alla responsabilità
delle istituzioni, «comprese quelle legate alla formazione
universitaria e accademica, del tutto estranee dal dibattito, anche
perché dedite ad altri ambiti di studio». Devo dire che la
perentorietà di queste affermazioni mi ha fatto capire finalmente il
livello
di competenza di questo giovane
interessato all’arte contemporanea, ma anche, stando all’argomento,
alla storia dell’arte contemporanea, il quale, tra l’altro,
proprio in questo primo passaggio ha pur dovuto citare alla nota 2,
facendo vedere di esserne al corrente, quel poco di bibliografia
riguardante “il contemporaneo”, a vantaggio, ovviamente, del
lettore, lasciando, però,
a questi il compito di andarsela a
leggere per avere “alcuni ragguagli”, guardandosi bene dal fare
quello che uno studioso normalmente fa, e cioè distinguere tra le
varie voci bibliografiche, certamente non omologabili, proprio perché
frutto di autori diversi e con competenze diverse, quelle utili e
quelle inutili. Avrebbe potuto dire, ad esempio, che alcuni di quei
contributi citati sono
del tutto sprovvisti di apparati di
note e perciò almeno discutibili dal punto di vista del metodo
scientifico.
Non solo, ma non ha neanche tenuto
conto che si tratta di lavori di natura diversa, come lascia
intendere la segnalazione nella stessa nota del recente volume che
raccoglie una buona parte dei miei scritti di arte contemporanea,
trasformandola in buona occasione per riconoscersi ed esercitare la
potestà di giudice senza essere, certo, in possesso di un ampia
produzione scientifica e conseguente competenza e conoscenza in
materia. Il mio sospetto è che egli non abbia affatto letto
l’introduzione di Massimo Guastella,
o, se lo ha fatto, non è stato certo in grado di cogliere le
problematiche metodologiche connesse all’esercizio critico
evidenziate dal curatore. E invece, ha in modo apodittico stabilito
che alcuni degli artisti trattati nel volume sono “secondari o del
tutto estranei al dibattito culturale territoriale e nazionale»,
(non mi risulta, inoltre, che gli artisti di
cui s’è anch’egli interessato
siano tutti di primo piano. È ancora tutto da dimostrare che
Ezechiele Leandro sia stato un protagonista dell’arte contemporanea
in Italia; e a proposito di “secondari”, ma sarebbe meglio dire
“minori”, non gli farebbe male andare a leggere, possibilmente
attentamente, il saggio di Mario Marti, Il minore crocevia di
cultura. Non è, infine, la grandezza dell’artista che garantisce
la qualità del critico). Ma è bene tornare al suo testo. In
particolare al passaggio che sembra avere rilevanza dal punto di
vista critico e che conviene riportare integralmente a beneficio del
lettore: «Nel palinsesto (sicuro che questo termine sia quello
giusto? Non sarebbe stato
meglio scrivere “storia”?)
dell’arte contemporanea di area pugliese, e non solo, l’operatività
di Leandro rappresentò una grande novità, fino all’avvento della
sua opera, non c’erano stati casi simili da inquadrare nell’ambito
dell’Art Brut. L’alfabeto visivo di Ezechiele Leandro teneva
conto – con una dose di consapevolezza – di esperienze connesse
con le Avanguardie storiche dei primi del Novecento, anche Dadaiste,
Astrattiste e Surrealiste. Non si sa come si fosse aggiornato, o
almeno a parte le testimonianze orali e qualche aneddoto, non ci sono
prove precise che facciano luce su questo processo. Ma la sua cultura
visiva va ricercata anche nelle radici religiose della sua primissima
formazione infantile, nelle tradizioni contadine del suo territorio,
in un certo horror vacui di ascendenza barocca, ma soprattutto talune
soluzioni formali e simboliche da rintracciare in quel palinsesto
della cultura medievale che è il mosaico pavimentale di Otranto”.
Dunque, Leandro è da inquadrare nell’ambito dell’Art Brut, anche
se il suo “alfabeto visivo” (che il termine “alfabeto” sia
una metonimia?) ha tenuto conto, si badi,«con una dose di
consapevolezza», «di esperienze connesse con le Avanguardie
storiche dei primi del Novecento, anche quelle Dadaiste, Astrattiste
e Surrealiste», ma di questo «non ci sono prove precise» (allora
come la mettiamo? È quello il suo retroterra culturale?). Il resto,
poi, è quanto già risaputo compreso il riferimento al mosaico di
Otranto. A ciò, va aggiunto, il giudizio: «Il suo alfabeto (gli
piace proprio il termine
“alfabeto”) – da intendere come
un mix di tutti questi riferimenti – è rivoluzionario, proprio
perché primitivo, sincero, impenetrabile e sconfinato». È, questa,
una bella spiegazione del suo essere “rivoluzionario”, con
l’avvertenza, però, che dire “primitivo” (una qualifica che
gli fu attribuita, per chi non lo sapesse, da Ennio Bonea che la
comunicò personalmente all’artista che, a sua volta, la preferì a
quella di “naif”. Vedi E. Bonea, introduzione a Ezechiele
Leandro, La creazione, Manni
Editori, 2002) significa già stabilire
un nesso con alcune esperienze del novecento, dire “impenetrabile”
e “sconfinato”, significa dichiarare la resa del lavoro critico,
e “sincero” dire una qualità che si richiede ad ogni espressione
artistica. Occorreva fare giustizia nei confronti di Leandro,
incompreso dalla storiografia locale e da quella accademica, in
particolare nell’ambito
universitario restio a impegnarsi in
riflessioni adeguate non sull’arte contemporanea ma, come egli
dice, sulla “contemporaneità dell’arte” (sarà un tema
nuovo?), compito che s’è assunto proprio in quanto curatore della
mostra. Quello che fa subito dopo è un ripercorrere brevemente la
vicenda di Ezechiele Leandro.
In questa parte non si risparmia nel
riconoscere meriti all’artista, per cui prendere una vecchia tela e
manipolarla cambiandone “i
connotati”, come quegli avrebbe fatto, diventa, secondo il suo
giudizio, «un gesto che ha un’intensità in qualche modo
rivoluzionaria», addirittura in questa operazione ci sarebbe «la
consapevolezza demiurgica del creativo, e fors’anche la volontà di
mistificare i profili di un’opera esistente»
(Ma allora cosa è stata una
“mistificazione”?). Inizio più esaltante per Ezechiele Leandro
non poteva essere individuato, inizio della «sua appassionata
attività pittorica, stimolata da un immaginifico universo popolato
da arcane figure, in un continuo sussulto emotivo, tra sogno e
incubo, radici profondamente religiose e bagliori di imprevedibile
visionarietà» (è sempre il suo testo!). Confesso che ho avuto
qualche difficoltà a pensare che l’attività pittorica sia stata
stimolata da un “immaginifico
universo” fatto di “arcane (misteriose?) figure”, come se
questo preesistesse, ma per correttezza va detto che queste sue
annotazioni sono corredate anche di un rinvio bibliografico nella
nota 7, con la quale l’autore in fondo dice che esistono,
ovviamente, le opere e che il lettore, se vuole averne qualche
ragguaglio, deve andarsi a guardare le pubblicazioni e i cataloghi
delle mostre a lui dedicate, omettendo semmai di segnalare in quella
bibliografia
quei contributi , come quelli di Angela
Serafino e di Luca Carbone, questi, sì, contenenti indicazioni
metodologiche e di ricerca sicuramente
valide. Di fare qualche esempio, rinviando a qualcuna delle opere che
erano in mostra, se non proprio facendone l’analisi stilistica,
almeno descrivendola, non se ne parla proprio (so della scontata
obiezione che le opere in mostra sono illustrate nel catalogo, ma il
problema è proprio questo, manca una loro specifica lettura
critica).
E dopo l’inizio esaltante
dell’artista, ecco il “suo capolavoro”, il Santuario della
Pazienza. Il giudizio, anche in questo caso, è perentorio, non
ammette discussioni, e, purtroppo, neppure spiegazioni. Va detto che
un qualche sforzo di descrizione dell’opera c’è, magari con
qualche difficoltà linguistica e di senso (Esempi: «Ezechiele
osserva la natura e le credenze popolari, da cui estrae esseri dalle
fattezze antropomorfe e animali arguiti da un bestiario fantastico»,
o, più avanti: «Crea così percorsi studiati, vere e proprie zone
di conoscenza in cui c’è spazio per il sacro e il profano,
all’insegna di un horror vacui che elabora un immaginario
stratificato di colori e forme,
pensieri e scene» - mi torna nuovo che
l’horror vacui sia un soggetto capace di elaborare un immaginario
stratificato ecc.- (vorrei cogliere l’occasione, a questo punto,
per consigliare all’autore di rileggere i suoi testi prima di dare
il si stampi, per non incorrere in inconvenienti come quello del suo
libretto “Remake”, nel quale ha confuso l’aggettivo ”
lussureggiante” con “lussurioso”) ma lo sforzo c’è. Il
seguito finale del testo è un ragguaglio sulle vicende esterne del
patrimonio di Ezechiele, in particolare la lunga trattativa tra gli
eredi e il comune di San Cesario per una sua acquisizione al
patrimonio pubblico, che nulla aggiunge ai fini della sua conoscenza
e interpretazione.
Vorrei ritornare, ora, alle sue riserve
nei confronti dell’ambito universitario, dal quale tra l’altro
anche lui proviene (salvo il rinnegamento di quanto lì ha potuto
apprendere). Vorrei ricordare a vantaggio delle sue conoscenze alcuni
dati storici. Nel 1979 tra il Comune di San Cesario e l’Istituto di
Storia dell’arte, dallo scrivente allora diretto, fu stipulata una
Convenzione con la quale
si dava inizio «al tanto auspicato
collegamento tra enti pubblici locali e istituzioni culturali e di
ricerca, nella convinzione che queste debbano sempre più
qualificarsi come strutture di supporto alle diverse esigenze
espresse dal territorio». Il primo frutto di quella collaborazione
fu la pubblicazione del volume riguardante la storia, l’arte e
l’architettura di San Cesario e la quasi
contemporanea organizzazione della
prima importante mostra di Arte contemporanea, “Presenza e Memoria
– Sette artisti italiani all’inizio degli anni ottanta”, curata
dallo scrivente e da Antonio Del Guercio, titolare della cattedra di
Storia dell’arte contemporanea, istituita dall’Università di
Lecce, una delle non numerose cattedre allora presenti nelle
Università italiane.
Seguirono nel corso degli anni altre
mostre altrettanto importanti, mi riferisco in particolare a quella
antologica su Aldo Calò, che ebbe come conseguenza la donazione al
comune di un cospicuo numero di sue opere, destinate al museo civico
d’arte contemporanea, quella di Nino Cappello con relativo lascito
di opere al comune, quella di Fernando De Filippi, di Francesco
Barbieri; insomma con ritmi alterni il comune di San Cesario ha
sempre prestato attenzione all’arte e alla storia dell’arte
contemporanea tanto più che aveva istituzionalizzato questa sua
attenzione con la costituzione del museo civico, allora caso unico di
struttura pubblica, per quel che mi risulta, in Puglia. È nel suo
spazio che si sono succedute alcune delle mostre di Ezechiele
Leandro. Se a queste non ha fatto riscontro un riconoscimento del suo
valore (in certo senso un problema tuttora aperto), forse
bisognerebbe riflettere su cosa è mancato in tante occasioni. Ad
esempio non s’è mai messo mano in quelle circostanze a una
catalogazione sistematica delle sue opere (come m’è capitato di
far presente in alcune occasioni anche pubbliche), impegno divenuto
oggi molto più arduo per la dispersione di buona parte di esse.
L’amministrazione di San Cesario a partire da
una certa data in poi non ha più
ritenuto di rapportarsi all’Università facendo scelte a dir poco
discutibili, si pensi ad esempio allo smantellamento del Monumento ai
caduti progettato da Aldò Calò, ora relegato a margine della piazza
antistante il palazzo ducale.
La nota del curatore ci ragguaglia
anche sul perché la partecipazione al catalogo sia stata allargata
ad altri autori. Inutile dire che sono proprio questi a dare ad esso
un certo spessore. Infatti al punto interrogativo del titolo del
testo del curatore sembrerebbe tentare di dare una risposta il
contributo di Brizia Minerva, che non sembra avere dubbi
nell’accomunare la figura di Leandro ad altri casi di artisti
outsiders, anche se con le dovute differenze, per esempio quando
sostiene che «il flusso di immagini che fuoriesce con urgenza in
modo totalmente e autenticamente inconscio in Leandro è invece nella
ricerca estetica e letteraria dell’area medioeuropea, frutto di una
complessa elaborazione intellettuale» o quando afferma che la base
psicanalitica dell’operare di Leandro «connette le [sue]
sperimentazioni visive… con quanto di pari passo avviene, negli
stessi anni, tra il Quaranta e il Cinquanta, nell’informale europeo
e americano includendo gli orientamenti che dall’Espressionismo
astratto all’Astrazione lirica o Tachisme, descrivono l’area
dell’astrazione non geometrica, fiorita appunto in quegli anni», o
quando stabilisce una qualche relazione con l’Art Brut di Dubuffet,
assimilando il viaggio di quest’ultimo nel deserto del Sahara al
soggiorno di Leandro in Africa (per cercare fortuna) dal 1933 al
1936. Se il saggio di Rachele Fiorelli aveva lo scopo di
rinforzare la tesi di Leandro outsider,
non v’è dubbio che, così come è prospettata, la figura di
Isravele ha aspetti biografici che sembrano coincidere, ma è
altrettanto vero che il tipo e il carattere della sua opera rivelano
un diverso sostrato di cultura e un diverso contenuto. Non credo vi
sia altro legame, per cui la sua presenza non era poi così
indispensabile. Ho lasciato per ultime le mie osservazioni sul
contributo di Eva di Stefano, perché è quello che è risultato
avere, a mio avviso, un ruolo chiave nell’economia del catalogo,
per l’utilità che esso può avere per chi intendesse affrontare lo
studio e l’analisi di fenomeni come Leandro, e perché richiama,
innanzitutto, l'attenzione sul problema della definizione della
categoria “Outsider Art”. Al riguardo mi sembrano particolarmente
esplicativi i seguenti passaggi del suo scritto: «Nella situazione
attuale di generale omologazione e di asservimento alle leggi
dell’economia l’arte outsider propone … ancora e di nuovo, un
valore di intensità, di comunicazione forte, di complessità
simbolica ed energia psichica perfino nelle sue forme più grezze e
più elementari, e finora anche di autenticità rispetto alla
leggi di mercato. Perciò
l’assimilazione compiacente di quel territorio indefinibile che
chiamiamo “outsider art” nel paese glamour dell’arte
contemporanea non è esente da rischi. Tutto dipende dalla
prospettiva con cui guardiamo alle cose: a me piace ad esempio
immaginare “un’unica città dell’arte”, dove alcuni artisti
abitano sulla via principale, altri sulle vie laterali, ma che se
vogliamo veramente conoscere dobbiamo percorrere tutta dal centro
alla periferia, anche smarrendo per via le coordinate e i punti
cardinali. Come in ogni vera città, il suo fascino infatti è
costituito dall’identità e dalle peculiarità dei suoi diversi
quartieri, e non dalla loro omologazione. Si tratta piuttosto di
renderli tutti percorribili, di cercare una buona rete di
comunicazione e di trasporti. Dotandosi anche di una mappa per non
trascurare nessuna via. Il termine outsider per me ha semplicemente
un’utile funzione di orientamento, è l’ago della bussola che mi
porta verso il mio quartiere
preferito».
Anche sull’identità dell’artista
outsider, il saggio sollecita a intendersi, perché mi chiedo,
proprio
sulla base di quello che si legge in
questo catalogo su Leandro, se questi risponde al profilo tracciato
dalla studiosa e che conviene rileggere: «Si tratta di autori
autodidatti, senza istruzione artistica e a volte senza istruzione di
alcun tipo, che operano nell’ombra e nella semi clandestinità,
indifferenti o inconsapevoli o marginali rispetto ai linguaggi
artistici correnti e al sistema ufficiale dell’arte. Seguono solo i
loro modelli interiori in preda a una sorta di ossessione creativa
totalizzante e incontrollabile che è capace di superare ostacoli e
disagi esistenziali. Autori che inventano un proprio linguaggio, una
tecnica personale e un proprio modo originale a partire dai materiali
che hanno a disposizione. Suggerendo anche il criterio per misurare
la “qualità” delle loro opere, stabilisce evidentemente la
condizione per riconoscerne e legittimarne il ruolo storico, è
questa, anche, la condizione che motiva l’interesse dei critici e
degli storici, e, come sostiene
la stessa studiosa, la ulteriore
necessità della loro conservazione, pur ritenendo altrettanto
legittima
la loro “esemplarità antropologica”,
se, appunto, a differenziarle dall’arte degli storici dell’arte
«sono le circostanze della loro genesi, le intenzioni degli autori,
e il processo di ricezione sociale». Dire che la lettura preventiva
di questo saggio avrebbe giovato agli altri contributi è dire poco,
considerata anche la sua distanza dagli altri interventi. L’auspicio
è che in vista della programmata mostra, ne tengano conto gli autori
e i collaboratori che saranno impegnati.
Che l’occasione della nuova mostra
potrà essere diversa dalle precedenti, lo si desume chiaramente
dall’intervento della Soprintendente
Antonella Di Marzo, nel quale si dice esplicitamente che nasce con la
cura della Soprintendenza, che significa innanzitutto garanzia dal
punto di vista organizzativo, ma anche per la scientificità dei
risultati, per cui certamente i collaboratori saranno accuratamente
selezionati. Mi si permetta, perciò, di concludere questa lunga
recensione suggerendo la necessità di procedere alla catalogazione
sistematica di tutte le opere reperibili, presupposto indispensabile
per una solida ricostruzione storica della vicenda di Ezechiele
Leandro, di tracciare la sua fortuna critica, che serve a fare il
punto sullo stato degli studi, di procedere alla loro lettura e
interpretazione in modo metodologicamente attrezzato per evitare
approssimazioni e genericità che ancora persistono, magari tenendo
conto di quei contributi che hanno già dato indicazioni utili alla
comprensione della figura di Ezechiele, come ad esempio quella di una
accorta utilizzazione dei suoi scritti,
anch’essi rivelatori della cultura dell’artista. Solo in questo
modo anche indicazioni di confronti, come quella di Antonella Di
Marzo, potrebbero trovare una spiegazione, chiamando in causa, in
questo caso, il difficile tema della migrazione dei simboli e degli
scambi culturali.
Fonte: Il Bollettino N. 1/2 -
gennaio/febbraio 2016
Dalla didattica alla ricerca
all’interazione col territorio, nello spirito del dialogo tra
saperi,
un diario di viaggio dell’Università
del Salento scritto dalla comunità dell’Università del Salento.
ISSN 2284-0354
http://www.ilbollettino.unisalento.it/fulltext/2016_01-02.pdf
Lucio Andrea GALANTE
Lucio Andrea GALANTE
BIOGRAFIA
Professore Ordinario di Storia dell’arte moderna presso la facoltà di Beni Culturali, dove riveste la carica di vice-preside.
Direttore pro-tempore del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia
Nato a Barletta il 9 novembre 1942. Si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Lecce, discutendo una tesi di Storia dell’arte moderna, relatrice la Prof. Paola Barocchi. E’ stato Direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della facoltà di Lettere e Delegato del Rettore per le Biblioteche d’Ateneo. Vice-presidente e componente del Comitato scientifico del Centro Studi sul Barocco della Provincia di Lecce.
Ha svolto e svolge le sue ricerche su temi della Storia dell’arte nell’Italia meridionale in età moderna, con particolare riguardo alla storia della pittura in Puglia e Terra d’Otranto nei rapporti con la capitale del viceregno e del regno di Napoli, i cui risultati sono stati pubblicati in articoli, saggi e monografie. Ha condotto, altresì ricerche su temi di arte dell’Ottocento e del Novecento. Ha all’attivo la collaborazione scientifica a varie mostre d’arte moderna e contemporanea.
Direttore pro-tempore del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia
Nato a Barletta il 9 novembre 1942. Si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Lecce, discutendo una tesi di Storia dell’arte moderna, relatrice la Prof. Paola Barocchi. E’ stato Direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della facoltà di Lettere e Delegato del Rettore per le Biblioteche d’Ateneo. Vice-presidente e componente del Comitato scientifico del Centro Studi sul Barocco della Provincia di Lecce.
Ha svolto e svolge le sue ricerche su temi della Storia dell’arte nell’Italia meridionale in età moderna, con particolare riguardo alla storia della pittura in Puglia e Terra d’Otranto nei rapporti con la capitale del viceregno e del regno di Napoli, i cui risultati sono stati pubblicati in articoli, saggi e monografie. Ha condotto, altresì ricerche su temi di arte dell’Ottocento e del Novecento. Ha all’attivo la collaborazione scientifica a varie mostre d’arte moderna e contemporanea.
PUBBLICAZIONI
PUBBLICAZIONI
- Gian Domenico Catalano «Eccellente pittore della città di Gallipoli», Galatina 2004
- Il Museo Diocesano d’Arte Sacra di Lecce, Lecce 2004
- Lecce tra ‘500 e ‘600:la pittura tra identità municipale e nuovi limiti, in «Kronos», n.7, 2004, pp.125-132
- Identità nazionale e pittura moderna in Francesco Netti e Pasquale Villari, in L'identità nazionale. Miti e paradigmi storiografici ottocenteschi, a cura di A. Quondam e G. Rizzo, Balzani Editore, Roma 2005
- Antonius Sanfelicius Episcopus Meritinus Quo Facilius Posteritati Commendaret Penicillo Esprimi Curavit Anno Domini MDCCXVIII, in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di Storia dell'Arte, a cura di Francesco Abbate, Roma 2005
- Salvatore Sava, in Pro Arte Pro Deo, Catalogo della mostra, Campi Salentina 2005
- Antonio Gigante in Pro Arte Pro Deo, catalogo della mostra, Monteroni 2006
- La cultura figurativa in Puglia e nel Salento dal primo dopoguerra agli anni Cinquanta, in Ciro Fanigliulo 1881-1969, Mottola 2006
- Sulle tracce di un originale perduto di Marco Pino, in Kronos n. 10, Mario Congedo Editore, 2006
- Romano Sambati, in Romano Sambati – Geografie – Paesaggi a sud del sud, Catalogo della mostra, Galatina 2006
- La collezione d’arte della Camera di Commercio, in Collezione d’Arte Moderna della Camera di Commercio di Lecce, a cura di Lucio Galante, Galatina 2007
- Revisioni, in Percorsi di conoscenza e tutela-Studi in onore di Michele D’Elia, Paparo Edizioni 2008
- Una <<Madonna del velo>> laica e borghese di Gioacchino Toma, in Il presente si fa storia-Scritti in onore di Luciano Caramel, cura di Cecilia De Carli e Francesco Tedeschi, Milano 2008
- Geremia Re, a cura di Lucio Galante e Michele Afferri, Galatina 2008
- Iconografia dei santi nell’Italia meridionale in età moderna: alcuni esempi in Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo, a cura di Bruno Pellegrino, Congedo Editore, 2009
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