Ricordo di Carlo Barbieri
Ricordo di Carlo Barbieri
di Domenica Specchia
Tra i nomi degli artisti italiani della prima metà del
Novecento, si può annoverare quello di Carlo Barbieri (San Cesario di Lecce,
1910 – Roma, 1938) ricordato, in queste brevi note, per un vivacizzarsi di
quella fiamma che, mai spenta, si rianima quasi all’improvviso, al leggero
soffio di un anelito di speranza finalizzato – sic et simpliciter – a ridar la
giusta considerazione e la meritata valenza a tanta riconosciuta maestria
artistica.
Artista polivalente, Barbieri, nel suo breve, ma intenso
itinerario di vita, iniziò a percorrere le strade della poesia e della
decorazione per giungere poi all’ambito traguardo di un’arte originale, sintesi
di scelte grafico – pittoriche oculate, partorite da una mente, dalle singolari
capacità di trasformazione, ed impresse sul foglio da una mano tanto abile da
lasciare traccia indelebile di un artista di grande personalità,
caratterialmente libero di vivere la propria vita, scevro da condizionamenti di
sorta, creativo, appassionato. Durante i ventisette anni della sua breve, ma
intensa esistenza – peraltro, conclusasi banalmente, in quella tragica notte
dell’11 giugno 1938, con l’annegamento nella piscina allo stadio di Roma –
l’allora stadio Mussolini -, Barbieri profuse tutto il suo amore e la sua
passione per l’arte. Dal suo paese natale, dove egli aprì gli occhi alla luce
il 23 ottobre da Luigi, intagliatore di pietra, e da Giuseppa Paternello;
Carlo, insieme ai fratelli Francesco, scultore, e Ugo, musicista, trascorse la
sua fanciullezza a Lecce, città dove la famiglia si trasferì quando il padre fu
assunto come impiegato al dazio. In questa urbs, di secolare tradizione
culturale ed artistica, egli, insofferente ai condizionamenti scolastici, si
recò a bottega e, intraprendente qual’era, apprese l’arte del modellare la
pietra e del plasmare la cartapesta educando anche, da autodidatta, la sua mano
al segno grafico.
Ricco di tali sofferte ed indimenticabili esperienze, ancora
adolescente, incoraggiato dal maestro Geremia Re (1894 – 1950), e desideroso di
migliorare la propria preparazione culturale ed artistica, si trasferì a Roma,
a vivere con la zia, Irene Paternello, illo tempore, governante in casa del
poeta Francesco Negro. In questa dimora, Barbieri domiciliò per ben quattro
anni e furono questi, come scrisse Francesco Negro “di formazione, di fermenti,
di sviluppi eccezionali, man mano che il ragazzo si addomesticava, toccava un
libro, assisteva a qualche mia lezione, si commentava un poeta […] Al
tu per tu poi veniva fuori con un’immagine inaspettata, un paragone, un
giudizio, che nell’empiricità e involutezza si faceva apprezzare per qualcosa
di acuto e di originale, di penetrante ed inventivo, soprattutto di
fantastico”.
A diciannove anni, dopo essersi allontanato da casa Negro,
Barbieri cercò in tutti i modi, tra difficoltà e sacrifici, di trovarsi una
sistemazione, ma la miseria fu la compagna della sua vita poiché la fortuna –
come egli stesso, sovente, ripeteva – non gli arrise mai. Con animo combattivo
egli però ironizzava e rideva sulla malasorte come se fosse un meccanismo di
autodifesa per allontanarla da sé. Pertanto, ironia, sarcasmo, purezza,
dolcezza, sentimento sono gli ingredienti che qualificano le sue composizioni
grafiche e pittoriche, tutte così diverse le une dalle altre nello stile, ma
altrettanto anticonvenzionali e stravaganti nelle loro peculiari dissonanze. In
questo periodo, durante gli anni venti e trenta del Novecento, Barbieri,
“fulmineo psicologo e narratore istintivo” – come scrisse di lui, nel 1951,
Vittorio Bodini (1914 – 1970), suo parente – si trovò a vivere in un ambiente
ricco di fermenti culturali, in cui giunse l’eco della corrente espressionista
della Neue Sechlichkeit (Nuova oggettività) di M. Beckmann (1884 – 1950), di O.
Dix (1891 – 1968), di G. Grosz (1893 – 1959), artisti impegnati socialmente a
decantare, rispettivamente, la caduta apocalittica dell’umanità, la stupidità
della guerra, la cupa libidine della violenza e del potere.
I suoi interessi artistici furono vivificati però anche
dalla metafisica di G. De Chirico ( 1898 –
1967), artefice di un’arte nuova, intesa come realtà diversa da quella
che comunemente si conosce; dal movimento “Valori Plastici” di F. Casorati
(1886 – 1963) e di G. Morandi ( 1890 –
1964) i quali, uno con la forma plastico – volumetrica e l’altro, con
l’intimismo, vollero ricondurre il linguaggio figurativo moderno alla vera
tradizione italiana di Giotto e di Masaccio; dalla poetica di P. Picasso (1881- 1973) che non esitò a schierarsi con la democrazia
contro ogni forma di dittatura. Ma, in un clima, così dinamico a livello
culturale, nella Capitale nacque e si sviluppò anche la Scuola Romana di
Scipione (1904 – 1933), di M. Mafai (1902 – 1965), di A. Raphael (1990 – 1975),
di M. Mazzacurati (1908 – 1969) che
manifestarono, alla maniera degli esponenti dell’Ecole de Paris, la loro
libertà di pensiero e di espressione e l’indipendenza della loro cultura
artistica dal potere. Proprio per queste motivazioni Barbieri si può ascrivere
in quest’ultimo novero di bohémiens, tutti votati a realizzare un’arte moderna,
senza un programma ben definito e ben lontani dal coniugare, a livello
artistico, i canoni della tradizione accademica.
Il linguaggio figurativo di Barbieri, agli inizi incerto, si
affinò – medio tempore – poiché egli si appropriò di accenti diversi che lo
proiettarono in una dimensione in cui aspetti, dell’arte di tutti questi
esponenti della cultura artistica della prima metà del Novecento, rimasero da
lui comparati e selezionati in uno stile sobrio, tipico di un artista sensibile
come fu lui, con l’orecchio e l’occhio sempre tesi a cogliere le novità per
rielaborarle poi, in composizioni oscillanti tra influssi della Scuola Romana
ed altri provenienti dagli artisti espressionisti, ma con accenti talvolta
fantastici, addirittura fiabeschi, resi attraverso un uso del colore peculiare
fino a conferire, comunque, al suo lunatico dipingere un carattere originale.
Le opere: Incontro di Dante con Beatrice (cm. 16×20, pastello, 1932), Contadine
(cm. 18×20, pastello, 1932), Poeta morente (cm. 58×81, pastello, 1935),
Satiri (cm. 48×68, pastello, 1935),
denotano un lirismo coloristico che degnamente rende esplicito il sentimento
dell’artista palesato, soprattutto, nei volti dei diversi personaggi
rappresentati, sospesi tra realtà ed astrazione. Osservando attentamente queste
opere è possibile riscontrare che, la sua azione pittorica non fu casuale, ma
al servizio dei suoi impulsi interiori: dalle velature espanse e trasparenti
che, talora, conferiscono alla composizione il senso di una profondità il più
delle volte stratificata, a macchie dense di colore le quali sembrano quasi
galleggiare sulla superficie di uno spazio fluido. Tinte calde e fredde che si
sommano o si contrastano a seconda degli impulsi profondi dell’autore, artifex
di sensazioni tattili in immagini visibili, verseggiate talvolta, qua e là, su
fogli ingialliti, inchiostrati di parole, con frammentarietà nella forma e nel
contenuto. All’esiguità del materiale poetico – attestante la sua vena
letteraria – corrisponde l’altrettanta poca disponibilità nell’applicazione
alle “arti decorative” che egli, comunque, praticò, ma si presume per puro
guadagno e per soddisfare le esigenze ed i bisogni della committenza del tempo,
determinata ad imporre il proprio gusto.
Sicuramente il disegno rimane l’espressione grafica più
confacente al carattere schivo e solitario
di questo artista che riuscì a
fissare sul foglio tutte le impressioni del mondo circostante come soldati,
saltimbanchi, circensi, nomadi, diseredati, ritratti, nudi, nature morte,
paesaggi, soggetti che più lo attraevano, probabilmente perché in essi vedeva
riflessa la propria esperienza di vita. Sono disegni che comunicano le sue
diverse emozioni rese attraverso un segno talvolta marcato ed incisivo,
talaltra leggero o veloce, ma pur sempre sintetico ed espressivo dei suoi stati
d’animo e del suo ingegno indiscusso. Lo confermano i ritratti di Francesco
Negro, Ritratto di Francesco Negro (cm. 16×21, matita, 1937), in cui egli pose
in risalto il poeta, fotografato,
attraverso i tratti inquieti della matita, nella sua assorta pensosità, e
quelli del fratello Ugo, Ritratto del
fratello Ugo (cm. 23×31, carboncino, 1931), Il fratello Ugo al pianoforte (cm.
50×75, carboncino, 1936) – peraltro,
venuto a mancare in giovane età – qualificati da una carica di espressività che
rimane speculare del suo sentimento angosciato e sofferto.
Le indubbie qualità grafico – pittoriche esaltano l’arte di
Barbieri che, a cento anni dalla nascita, rimane una meteora dell’arte
salentina, da riscoprire e riportare in
auge per le future generazioni, inconsapevoli, probabilmente, della valenza di
uno dei maggiori esponenti dell’arte italiana meridionale, poiché – per dirla
alla maniera di J. Winckelmann – “l’umiltà e la semplicità furono le vere
sorgenti della sua bellezza” di uomo del Sud e di artista del Novecento.
Un ringraziamento è rivolto all’amico pittore Lionello
Mandorino per le notizie cortesemente fornitemi
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