San Cesario di Lecce... Con Ezechiele Leandro e altro che non ti aspetti.
martedì 19 agosto 2014 di Anna Maria
Panzera
Quello che proprio non pensavo mai di
fare nella vita, era scrivere su un piccolo paese pugliese, quale è
San Cesario di Lecce. Pochi chilometri lo separano dal capoluogo
salentino, ben più splendente di ricchezze architettoniche,
risonante delle grida che i putti di tufo lanciano, dalle facciate di
chiese e palazzi, alle rondini che letteralmente affollano le piazze
insieme ai passanti.
Non c’è che dire: San Cesario è più
dimesso della vicina regina del Barocco, nonostante il suo bel
Palazzo ducale e quei piccoli gioielli che sono le chiese
cinquecentesche di S. Elia e di S. Rocco, o la chiesa di S. Giovanni
Evangelista, con i suoi affreschi bizantineggianti.
A ben vedere, poi, anche questo
satellite di Lecce ha una sua storia di tutto rispetto: le origini
risalgono addirittura ai tempi di Roma repubblicana e il suo nome è
legato ovviamente a Cesare Augusto. In quel tempo remoto, soggiogate
le antiche popolazioni locali, Lecce era un castrum romano e, come di
norma, attirava neo-residenti civili che costruivano ville e servizi,
fino ad allestire veri e propri villaggi. Ed ecco Cesareo, toponimo
di scarsa fantasia ma chiare intenzioni.
Poi, fortuna volle che in epoca
cristiana non ci fosse bisogno di cambiare troppo il nome del
dedicatario: era lì, bello e pronto, uno dei tanti martiri nella cui
storia far confluire tutto il passato e si chiamava Cesario.
In epoca medievale, il borgo di San
Cesario divenne feudo della potente famiglia Orsini-Del Balzo e in
seguito degli Acaya (di cui abbiamo già avuto occasione di parlare
su queste pagine, dei Condò, dei Bonsecolo, degli spagnoli
napoletani Vaaz D’Andrada e infine dei Marulli, che ne detennero il
potere fino all’abolizione della feudalità nel 1806.
Ma la storia di cui voglio parlarvi si
sposta molto in avanti nel tempo e s’intreccia con la mia. Il che
non è una buona premessa, capisco. Sono arrivata a San Cesario nel
1976 e non ne ero per niente contenta: tanta voglia di fuggire, da
subito. Eppure, mica la vita mi aveva regalato fino a quel tempo
chissà quale esperienza di apertura e cosmopolitismo! Anzi, il
perimetro del luogo abitato fino a quel momento, Bari, tutto sommato
non era molto più grande delle mura di casa, dilatate solo dalla mia
immaginazione infantile. A San Cesario, invece, essendo ormai in età
per muovere qualche passo in autonomia, camminavo per le stradine del
paese, frequentavo qualche coetaneo. Di fatto, immergendomi sempre di
più nella mia timidezza.
C’è una poesia di un autore che amo
(ve ne parlerò più in là, mi auguro), Vittorio Bodini, che così
recita: Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al
sole come numeri/dalla faccia d’un dado.
Ecco, così in certi pomeriggi
canicolari io vedevo uscire le donne dalle case nel sole abbacinante,
le braccia allungate per trattenermi un momento e chiedermi conferma
di chi fossi (ma già ne sapevano molto più di me!). Così vedevo
quando Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto /
per ricordarsi del cuore (ancora Bodini!) e non credevo l’avrebbero
mai trovato: mal sopportavo i loro occhi che scrutavano il mio
cammino con l’impudenza di chi comincia a tessere un pettegolezzo.
Avevo ancora molto da scoprire e
accadde osservando un vecchio solitario: massa di capelli candidi
sotto un cappellaccio nero e gambe infaticabili che spingevano i
pedali di una bicicletta sgangherata. Su e giù per le vie del paese
e lungo i cinque chilometri che separano il paese dal centro città a
Lecce. Testa sempre bassa. Di tutti i numeri sulle facce del dado,
quello era il numero uno, solo, solitario. O accompagnato al massimo
dai commenti boriosi e supponenti dei compaesani, dagli scherzi
impietosi delle bande di ragazzini.
Il vecchio si chiamava Ezechiele
Leandro e aveva un volto da profeta (nemo profeta in patria!). E la
sua casa era l’unica, ai miei occhi, che non fosse – di fatto o
percettivamente – di calce bruciante. La sua casa, in via
Cerundolo, era un mondo a parte, che attirava e respingeva allo
stesso tempo. Chi era quell’epigono dell’Art brut, quel sacerdote
dell’Objet trouvé, quel dislocato esponente del New dada? Tutti
termini che ho imparato molto dopo… a quel tempo bastava chiedersi:
chi è quel matto?
Sulle pareti esterne dell’edificio
anonimo che era la sua abitazione, si snodavano formelle dipinte a
colori diversi, una basilica d’Assisi rivoltata e ridipinta da un
barbaro, dove frammenti di piastrelle, di vetro, di conchiglie, di
sassi, erano riuniti in mosaici dal sapore arcaico e primitivo,
ospitavano figure di omuncoli e mostri sospesi in storie surreali, in
processioni rituali, in atti osceni. Il giardino ospitava una foresta
di sculture: figure incrostate di materiali diversi, eserciti di
pietra disseppelliti da chissà quale epoca remota di violenza e di
guerra, dolmen modellati dalla mano di un selvaggio abituato a
orizzonti più sconfinati. Insieme, regnava un’immobile atmosfera
da deposito di rottami, che confondeva. Ezechiele stesso viveva come
un mendicante.
Ero stupita e affascinata (non
m’interessavo dello studio dell’arte, a quel tempo). Io non
sapevo chi fosse ma nessuno sembrava saperlo allora e questa
ignoranza paesana veniva riempita solo dallo sberleffo e da un
rigetto senza appello.
Ho amato quell’uomo senza avere mai
il coraggio di avvicinarlo troppo. Qualche sguardo da lontano, come
si fa al Sud. Lui era con ogni evidenza un “forestiero”, forse
ancora più profondamente di me: un vero outsider, un artista
autodidatta e mai consacrato come tale nella sua terra, se non a
distanza di molti anni dalla morte e con fin troppo compiacimento (e
il modo ancor m’offende, avrebbe detto Dante, uno dei suoi autori
preferiti). La sua mancanza di formazione avrebbe creato, intorno a
lui e suo malgrado, il topos del talento inascoltato.
Ma Leandro, trattato da mentecatto, non
era privo di intelligenza; mancante di una solida cultura artistica,
era ricco della sua immaginazione e sapeva rispondere ai suoi
compaesani. Li riconosceva per quello che erano davvero, quando gli
sfregiavano le statue e la casa: degli invidiosi, impotenti, perché
quanto distruggevano lui avrebbe rifatto per cento.
Meglio che con le parole, Leandro
reagiva con realizzazioni imponenti che ancora luccicano (in tutto o
in parte) sotto quel bellissimo cielo: il Santuario della Pazienza,
la Divina Commedia, il Giudizio universale, La musica, sono
sculture/architetture fatte per accumulazioni successive di materiali
eterogenei (dalla creta ai copertoni, e poi legno, ferro, cocci, ossa
e tutto quanto si poteva trovare), concrezioni che danno vita a
personaggi affollati, o schierati di fronte a non si sa cosa, facce
pietrose e fiabesche di musici coi loro veri strumenti, pupazzi,
folletti, monaci, maschi e femmine dell’universo umano che Leandro
chiamava “ridotto”, ossia di scarto. Era lui che recuperava
quello scarto (quanto fosse materiale e quanto fosse culturale,
affettivo, mentale, lui certo lo sapeva) e lo ricreava in opera
d’arte, con profonda consapevolezza e oserei dire scelta
stilistica, in maniera incessante, quasi maniacale. Aveva così
“restituito” tutto il paese e forse fatto ai suoi concittadini il
dono più odiato: metterli di fronte a se stessi.
Oggi la sua casa è diventata un museo
ma non per questo sfugge all’incuria. A Ezechiele è dedicata una
pagina wikipedia, numerosi articoli, immagini, video di e su lui
circolano nel web, a marzo di quest’anno è stata allestita una
retrospettiva a Palazzo ducale. Basterà a restituirgli quanto gli
dobbiamo?
San Cesario per me: una malferma ma
infaticabile ruota di bicicletta, inseguendo la quale ho scoperto
l’arte. Altro che Duchamp.
Anna Maria Panzera
Da leggere e fonte di alcune foto
dell’articolo:
Leandro, il Santuario della pazienza è
stato vincolato dal Ministero dei Beni Culturali. Una bella notizia
per chi ha creduto e continua a credere al valore estremo
dell’immaginario di un artista per certi versi scomodo.
http://arte-bari.blogautore.repubblica.it/2014/08/11/leandro-il-santuario-della-pazienza-e-stato-vincolato/
Anna Maria Panzera
Anna Maria Panzera
Insegnante e storica dell’arte, collabora con varie istituzioni museali ad attività di ricerca, didattica dell’arte e formazione: dal1988 al 1992 a Lecce, nel Museo Provinciale Sigismondo Castromediano e nella Pinacoteca d’Arte francescana “Roberto Caracciolo”; a partire dal 2004, con i Servizi educativi di Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale di Roma. In questo contesto ha preso parte alla pubblicazione del secondo volume della collana Educare all’Arte, a cura di Cristina Francucci e Paola Vassalli (Electa,Milano 2009). Oltre a numerosi articoli su periodici e rivistescientifiche, ha pubblicato Caravaggio e Giordano Bruno fra nuova arte e nuova scienza. La bellezza dell’artefice (Fratelli Palombi Editori, Roma 1994) e La basilica di S. Cecilia in Trastevere (Nuove Edizioni Romane, Roma 2000), Caravaggio e Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose (L'Asino d'oro edizioni).
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