Ventaglio di tematiche ristretto o universale - omnicomprensivo?

 

Ventaglio di tematiche ristretto o universale - omnicomprensivo?

Prendo a pretesto la generica richiesta del Prof. Piero Ignazi alla Signora Elly Schlein Membro della Camera dei deputati della Repubblica Italiana con cittadinanza statunitense naturalizzata svizzera, Capo del Partito Democratico pubblicata sul quotidiano “Domani” di oggi 27 marzo 2023, per formularne una io, non solo alla Signora Schlein ma a tutti.

La domanda è la seguente:

L’efficacia del messaggio di un partito aumenta quando diventa interprete di un ventaglio ristretto di tematiche? Oppure, al contrario, l’efficacia dell’azione di un gruppo umano è conseguenza di un ventaglio universale - omnicomprensivo all’opposto di quanto affermato dal Prof. Ignazi?

Se l’umano come descritto da Humberto Maturana e Francisco Varela, è ente biologico che si sviluppa entro il dominio del linguaggio, il nostro tempo pare portare a esplicitazione il problema della fine delle grandi narrazioni: la parola sembra aver perso la sua funzione esorcizzante, che consente l’appaesemento.

Maturana sviluppa il tema dell’amore come collante nelle relazioni bio-psico-sociali. La psicopatologia potrebbe essere intesa come “corruzione dell’amore”, avvicinandoci al pensiero di Niklas Luhmann (in particolare al saggio L’amore come passione).

Vorrei soffermarmi sulla “svolta della complessità”, che oggi ci può aiutare nel comprendere possibili vie di uscita dal problema del “vivere L’ITALIA ED IL MEDITERRANEO”.

Il paradigma della complessità sovverte il modo tradizionale di guardare alla realtà: non più cercare di risolvere il tutto nelle parti che lo compongono (come voleva, ad esempio, il paradigma epistemologico della scienza dell’età moderna, sintetizzato perfettamente nelle regole metodologiche di Cartesio), ma assumere una visione sistemica.

Nella nuova prospettiva il tutto non è la somma delle parti; il tutto è più della somma delle parti che lo compongono: dall’unità semplice, posta all’inizio, siamo arrivati all’unità complessa, quella che emerge da un’unione fra componenti - come nel caso degli esseri viventi - che producono proprietà di un tutto che non sono riconducibili a quelle delle singole parti. Edgar Morin ha coniato per questo nuovo tipo di unità il nome di unitas multiplex.

Tutto è collegato; isolare è fare astrazioni.

La metafora per comprendere la realtà diventa la rete o, persino, la ragnatela (nella quale possiamo giocare sia il ruolo delle prede sia quello dei predatori), a significare l’impossibilità di scollegare, nella realtà, qualcosa da tutto il resto, pena perderne la concretezza.

Il paradigma della complessità - che si genera dall’interno della scienza, che respinge il paradigma “classico” galileiano-newtoniano - produce il senso di appartenenza al tutto.

In campo scientifico, James Lovelock, con l’ipotesi “Gaia”, l’idea cioè che il pianeta Terra sia un organismo vivente, ci ha mostrato come siamo parte di un tutto complesso.

Humberto Maturana e Francisco Varela - con l’identificazione del vivente come “macchina autopoietica”, cioè come organismo dotato di autonomia organizzativa - hanno mostrato che vivere è conoscere, esplorare la realtà per continuare il processo della vita. Questo significa - fra le tante implicazioni filosofiche - pensare ai viventi come costruttori di mondi che si pongono di fronte e accanto ai mondi costruiti dagli altri esseri viventi.

Tutto questo ha delle ricadute sul modo di declinare i rapporti fra gli uomini. Hanno scritto Maturana e Varela: «Ogni atto umano si realizza nel linguaggio. Ogni atto, nel linguaggio, ci porta a contatto del mondo che creiamo con gli altri nell’atto della convivenza che dà origine all’essere umano; per questo ogni atto umano ha senso etico.

Questo legame fra gli esseri umani è in ultima analisi il fondamento di ogni etica come riflessione sulla legittimità della presenza dell’altro». Da questa nuova prospettiva - ed è importante che tutto questo provenga dalla scienza, quella scienza che, sotto il governo del paradigma dell’età moderna, aveva di fatto, per usa la bella espressione di Max Weber, “disincantato il mondo”, scomponendolo in frammenti privi di significato concreto -; da questa nuova prospettiva, dicevo, intrisa di etica, discende un nuovo modo, che non rinuncia alla complessità appunto, di percepire e declinare l’identità umana.

In primo luogo, tale identità non è affatto semplice, nel senso di riducibile a un unico elemento.

Pensare l’uomo, riducendolo a un solo suo aspetto è “pensare astrattamente”. Hegel lo esemplifica perfettamente, quando osserva: «Questo significa pensare astrattamente, non vedere altro nell’omicida che questo astratto, ossia il fatto che è un omicida e tramite questa semplice qualità eliminare in lui tutta la restante natura umana». Al di là dell’esempio estremo di Hegel, la mia identità è contemporaneamente messinese, siciliana, italiana, europea, mediterranea, e così via. Nessuna delle identità appena elencate può esaurire da sola quello che io sono. In secondo luogo, deriva da ciò la necessità di cambiare e allargare il concetto stesso di “patria”. Edgar Morin, ad esempio, ha parlato di “Terra-Patria”, anzi, spingendosi più in profondità, di una “Terra-Matria”, che ci veda come fratelli che condividono una “comunità di destino” planetaria, consapevoli che i particolarismi ci portano all’autodistruzione. Siamo padroni del nostro futuro, nel bene come nel male. Se comprendiamo di condividere una “Terra-Patria” comune, di essere - insieme alla natura - co-piloti della realtà, di avere appunto un destino comune perché vincolati gli uni agli altri; se comprenderemo tutto ciò, riconoscendo agli altri quello che vorremo riconosciuto per noi, riconoscendo agli altri l’umanità come la riconosciamo in noi stessi; se faremo tutto ciò, allora vi è speranza.

IL FILO DI PIERO
La sfida del nuovo Pd è soprattutto quella di recuperare un’identità
L’efficacia del messaggio di un partito aumenta quando diventa interprete di un ventaglio ristretto di tematiche
PIERO IGNAZI
politologo
In questi anni il Partito
democratico ha scelto
di essere un partito serio
e affidabile che rimedia
ai disastri della destra
Ora deve recuperare
un profilo più netto
Le detrazioni vengono estese anche ad altri bonus
I partiti combattono tra loro
mettendo in luce i temi sui
quali si sentono più convincenti.
L’efficacia del messaggio
di un partito aumenta
esponenzialmente quando diventa
l’interprete più accreditato
di un ventaglio ristretto
di tematiche, o anche di una
sola. La chiave del successo
consiste proprio nell’essere
identificato dall’opinione
pubblica come il vero e autentico
portavoce di particolari
istanze. I verdi, ad esempio,
hanno fatto fortuna insistendo
su una sola questione, quella
ecologico-ambientale.
I partiti maggiori, normalmente,
offrono una gamma
più articolata di posizioni. È
insita nella connotazione di
grande partito la propensione
a diversificare l’offerta rivolgendosi
a una platea ampia,
addirittura potenzialmente
onnicomprensiva. In
questo, però, affiora un rischio,
quello della dispersione,
con conseguente annacquamento,
del proprio messaggio:
a volersi occupare di
tutto e rappresentare le mille
domande di tutta l’opinione
pubblica, un partito perde la
propria specificità fino a rendersi
indistinguibile. L’elettore
non sa più cosa vuole quella
formazione politica.
Interessi confliggenti
Non è semplice conciliare appelli
ad ampio spettro con la
concentrazione su aspetti caratterizzanti.
Perché puntare
su un tema significa scegliere
chi privilegiare a scapito di altri.
Negli ultimi decenni i partiti
socialisti hanno spostato
gradualmente il loro focus
dalla promozione di interessi
specifici – di classe, per esemplificare
– alla considerazione
di interessi sistemici.
Vale a dire, più che la difesa
delle condizioni dei ceti sottoprivilegiati,
diventava prioritario
erigersi a difensori degli
equilibri macroeconomici.
Ovviamente, un partito che si
candida a governare un paese
deve tenere in conto interessi
generali, diversi e anche confliggenti.
Ma se vuole conservare
il consenso non può perdere
di vista il suo “marchio
di fabbrica”, la ragione sociale
per cui è nato ed è stato riconosciuto.
La conciliazione di identità e
specificità diventa particolarmente
difficile quando un
partito affronta un cambiamento
della sua “natura”.
Chi lo ha fatto con serietà, come
il Pci nel 1991 allorché buttò
a mare la sua vecchia ideologia,
e quindi i tratti forti della
sua identità, ne ha pagato
pegno.
Chi lo ha affrontato solo superficialmente,
senza una riconsiderazione
profonda e
sentita del proprio passato,
come il Msi a Fiuggi nel 1995, è
rimasto impigliato per mille
fili al suo passato. Ancora oggi
Fratelli d’Italia, erede diretto
dell’esperienza del neofascismo,
esibisce tutte le resistenze
di quel passato. Lo deve
fare perché è un partito che
non ha diluito nulla della sua
identità originaria. Che è facilmente
riconoscibile nella sua
agenda nazionalista e autoritaria.
Chi vota Fratelli d’Italia, sa cosa
vota: il rappresentante di
una tradizione le cui fondamenta
consistono nel contrasto
radicale alla sinistra e ai
suoi valori rilanciando il primato
della nazione e della tradizione,
qualunque oggi significhi,
dalla famiglia, appunto
“tradizionale”, alla difesa della
razza bianca dall’invasione
degli immigrati di colore.
Identità in fieri
Nell’altra sponda dello spartiacque
politico il Pd rema
contro una serie di handicap
rispetto al suo concorrente.
L’identità del Pd è ancora in
fieri. L’incontro degli ex – comunisti
e democristiani – fu
molto più contingente e difensivo
– opporsi al berlusconismo
– che propositivo.
Il Partito democratico ha navigato
tra mille incertezze politico-
ideali e programmatiche,
tanto che la sua ragion
d’essere è diventa quella sistemica,
quella di un partito serio
e affidabile che rimedia ai
disastri combinati dalla destra:
prima il default finanziario
del governo Berlusconi
nel 2011, poi il populismo
anti europeo dei gialloverdi
a trazione Salvini nel 2019, e
infine l’ingresso nel governo
Draghi dove ha inghiottito di
tutto e di più per non disturbare
il manovratore.
Con il risultato, paradossale
ma indicativo, di proporsi
all’elettorato nella campagna
elettorale del settembre
scorso con l’agenda Draghi, e
cioè con qualcosa che non
identificava il Pd, bensì la
sua mission sistemica.
Lodevolissimo sacrificarsi
per gli interessi nazionali;
ma il plauso di alcune componenti
della classe dirigente
non si è riverberato nell’elettorato.
Che non ha capito cos’era e cosa
voleva il Pd.
Il compito, arduo, della nuova
leadership è proprio quello
di tracciare un profilo netto
e preciso del partito.
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