"La Befana a San Cesario: Tra Calze, Magia e Televisori in Bianco e Nero"

 


"La Befana a San Cesario: Tra Calze, Magia e Televisori in Bianco e Nero"

La Befana, a San Cesario di Lecce, era una poesia che scivolava tra le strade e si annidava nei cuori, vestita di lana grossa e scarpe scalcagnate, ma con le mani colme di doni e la voce di un’antica filastrocca. Era un tempo in cui la magia non arrivava con pacchi perfettamente incartati, ma con calze appese a un filo, in bilico tra attesa e desiderio.

Via Dante e Via Vittorio Emanuele II, vie anonime per chi non sa ascoltare, diventavano il teatro di un miracolo semplice, dove la Befana non era una figura astratta, ma una donna vera, forse la vicina di casa o la mamma di un amico, travestita per donare felicità. Ogni angolo del paese sembrava pulsare di una dolce frenesia: la vecchina in carne ed ossa copriva ogni spazio, quasi fosse una custode della tradizione.

Le televisioni tedesche, quelle in bianco e nero con i loro tubi catodici che tremolavano come candele, portavano in casa un’eco lontana di modernità. La Grundig di mio padre, con il suo strano fascino, sembrava un portale verso un mondo sospeso tra sogno e realtà. Non era solo uno strumento, ma un compagno della sera, che raccontava storie mentre il profumo di mandarini e cenere riempiva l’aria.

E poi c’erano le calze. Non quelle patinate che oggi si trovano nei supermercati, ma calze vissute, cucite, magari un po’ lise, appese con cura vicino alla cucina economica. Perché sì, il camino mancava, ma la magia non conosceva limiti di spazio. Dentro le calze, la Befana lasciava un segreto: caramelle, cioccolata o, per i meno fortunati, la polvere grigia dei carboni. Ma persino la cenere, a suo modo, raccontava una storia, quella di una tradizione che non giudicava, ma educava.

Era un'epoca in cui tutto sembrava muoversi al ritmo del paese. La Società Operaia di Mutuo Soccorso e il dopolavoro ferroviario si trasformavano in veri e propri laboratori di festa, dove adulti e bambini condividevano la meraviglia del giorno. La mattina del 6 gennaio era il culmine: correre a vedere cosa fosse stato lasciato nelle calze, con il cuore che batteva come il suono di una banda.

Ma c’era sempre un’ombra, una dolce amarezza: quella triste certezza che, insieme alla Befana, sarebbero volate via anche le feste. Il ritorno a scuola incombeva come un’eco lontana, pronta a riportare i bambini nei ranghi, tra quaderni e banchi, mentre il profumo di quei giorni svaniva lentamente.

Eppure, San Cesario di Lecce restava un piccolo mondo incantato, dove la Befana era molto più di una figura della tradizione. Era l’epifania dei ricordi, la gioia sospesa nel tempo, una dolcezza che rimane nelle vene, anche quando si cresce. Tra le calze appese, le televisioni tedesche e la malinconia del 7 gennaio, c’era tutto un mondo che oggi torna, ogni volta che chiudo gli occhi e lascio che la scrittura mi riporti lì.


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