Il rito della salsa te casa allu Ppinu Bbrunu
La mamma diceva che si dovevano acquistare i pomodori per la
salsa in luglio. Rigorosamente quelli “cullu pizzu te retu Lecce” che portava
il nostro vicino di casa lu Ntunucciu Zzuccarinu.
L’ultimo ricordo che ho della salsa di pomodoro fatta in
casa mia è il giorno del matrimonio di Carlo e Diana che si svolse mercoledì 29
luglio 1981 nella Cattedrale di San Paolo a Londra.
Ma andiamo per gradi. A partire dalla prima quindicina di
luglio cominciavano a passare nella strada dove abitavo le Ape Piaggio di
agricoltori che provvedevano alla vendita diretta dei loro pomodori. Questi
erano nelle cassette e la trattativa per il prezzo con le donne, che formavano
veri e propri capannelli, andava avanti per le lunghe sino all’ottenimento del
prezzo accettato dal venditore e dalla donna che desiderava acquistare.
Poi i pomodori venivano stesi su una vecchia coperta mentre
nei giorni precedenti erano state lavate le bottiglie di vetro verdi o bianche
che avrebbero custodito il prezioso succo di pomodori coltivati in aridocoltura
ovvero ottenuti senza l’ausilio dell’irrigazione.
Quelli irrigati non risultavano graditi a mia madre. Lei
sosteneva che se ne traeva un succo troppo acquoso, e che il sugo che poi nei
mesi successivi si sarebbe dovuto ricavare, non avrebbe avuto il sapore
dolcissimo che tutti agognavamo.
Le bottiglie poi venivano messe ad asciugare a collo in giù perché non doveva rimanere l’acqua.
Il giorno prefissato per “fare la salsa” tutta la famiglia
era chiamata a raccolta, sveglia alle 04.00 per evitare l’afa, per formare una
sorta di catena di montaggio.
Prima operazione “spetecinatura” ovvero “lliare lu petecinu”
che sarebbe del pomodoro che va tolto.
Seconda operazione “la spruatura te li pummitori”. Si trattava
di lavare i pomodori in grosse pentole dove con le dita li si schiacciava per
fare uscire tutti i semi che rimanevano nella vasca di plastica Moplen.
Il risultato erano canottiere bianche piene “te riddrhi” che
poi sarebbe il nome dato dai sancisariani al seme di pomodoro.
Grosse pentole di alluminio venivano riempite di pomodori e
messe sul fornello a cuocere finio a quando non si fossero ammaccati. Durante
la cottura si dovevano girare ogni tanto con un mestolo “se no se zzeccannu
sutta” che significa che i pomodori che erano a contatto con il fondo del
pentolone, che aveva le temperature maggiori, rischiavano di bruciarsi
rovinando per sempre quei pomodori che, se passati, avrebbero avuto il sapore
del bruciato. Una volta i pomodori si fossero ammaccati si cominciava a fare la
passata alla macchinetta a manovella. Qui a poco a poco, un cucchiaio alla
volta, i pomodori venivano passati, la prima e la seconda volta.
Infine tutto il succo (la salsa) ottenuta veniva disposto in
grosse vasche di plastica.
Naturalmente la nonna Memmi al contrario della mia mamma, non
usava le vasche di plastica, ma metteva la salsa nelle limme di argilla o “intra
allu cofanu”.
Ma la salsa dei nonni è un ricordo che risale agli anni 60,
mentre qui si riporta una metodologia che è stata adottata sino agli anni 80.
In seguito c’era il problema della conservazione. Le donne
nate ai primi del 900, ovvero le nonne di noi sessantenni, insegnavano alle
loro figlie “le ncresciuse usanu l’acidu per la salsa”. In definitiva per
conservare la salsa si potevano mettere le bottiglie in una pentola con dei
sacchi tra una e l’altra e poi la pentola veniva riempita d’acqua e portata ad
ebollizione. Oppure si poteva aggiungere alla salsa acido acetil salicilico che
si acquistava dalla farmacia te don Gennaru.
“Quanti litri di salsa hai fatto?” chiedeva il farmacista, ed
in funzione della risposta veniva pesata la quantità di acido acetil salicilico
da aggiungere.
La chiusura della bottiglia veniva fatta dalle nonne nate
nei primi del 900 con “fuddrhò” ovvero tappi di sughero che venivano assicurai
con uno spago legato a cappio al collo della bottiglia.
Mentre con l’avvento dei tappi in metallo si provvedeva alla
chiusura ermetica con un’apposita macchinetta che tutti acquistavano “ALLU
CERUNDULU”.
Dopo di che l’avvento delle salse in vendita nella grande
distribuzione organizzata GDO, hanno ammazzato il mercato locale dei “pummitori
cullu pizzu te retu lecce” e le notizie che mi giungono mi confermano che il
pomodoro in aridocoltura (senza l’irrigazione) nei terreni che sono tra Lecce,
San Cataldo, Frigole e Torre Chianca non viene più coltivato. Anzi in quei
terreni oramai non si coltiva quasi più nulla.
Un economia locale distrutta!
Foto di Antonio Galati Le ragazze pronte per la raccolta dei pomodori |
Gli agricoltori che avevano i loro clienti, i sarti, le
sarte, i ciabattini, i meccanici di biciclette erano persone umane che hanno
vissuto del loro lavoro grazie a una Comunità che li sosteneva. La Comunità
siamo noi, adesso siamo tutti in fila con un carrello ad acquistare ciò che
viene offerto dalle grandi cattedrali della distribuzione organizzata.
Adesso c’è la passata di pomodori cinesi, a pochi centesimi,
già pronta.
Ma vuoi mettere una confezione di passata con una BOTTIGLIA
DI SALSA te casa allu Ppinu Bbrunu?
Non c’è gara. Ince lu Ppinu Bbruno, ha bbintu sempre iddrhu,
sempre!
Un grazie al prof Gino L. Di Mitri, che ha pubblicato sul
suo diario facebook le foto dei suoi genitori e del mobile della cucina uguale
a quello che aveva la mia mamma. Grazie a te Gino ho potuto sostare ancora per
un po’ nella mia San Cisariu, quella che è impressa nella mia memoria, quella
che sto raccontando qui!
Antonio Bruno
Foto di Gino L. Di Mitri I suoi genitori a ritmo di salsa https://www.facebook.com/gino.dimitri.10?fref=ts
Foto di Antonio Galati Le ragazze pronte per la raccolta dei
pomodori.... https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1046347212080083&set=a.769115426469931.1073741825.100001144416372&type=3&theater
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