A San Cesario la Poena Cullei
Lo stesso giorno della sepoltura di
Leonzio, Lussurio fece arrestare il presbitero Giuliano e pronunciò
la sentenza di morte: ordinò che Cesario e Giuliano fossero chiusi
in un sacco e gettati nel mare. L'autore degli Atti non ha un'idea
ben netta delle funzioni dei magistrati romani: gli interrogatori
sono fatti ed i giudizi pronunziati indifferentemente da Leonzio e da
Lussurio, procedura che ripugna allo spirito altamente giuridico dei
romani. La "Poena Culle?' (dal latino «pena del sacco») nel
diritto romano criminale era la pena inflitta al soggetto che si era
reso responsabile di parricidio. Immediatamente dopo la condanna, il
reo veniva tradotto in carcere in attesa dell'esecuzione: al
parricida, dicono le fonti, venivano fatti calzare degli zoccoli di
legno,"doleae lignae", e attorno al suo volto veniva legato
un cappuccio di pelle di lupo. Il parricida veniva poi frustato con
"virgae sanguinae", cucito in un "cullus", sacco
di cuoio impermeabile, insieme ad una vipera, un cane, un gallo e una
scimmia e, dopo essere stato trasportato attraverso la città su di
un carro trainato da un bue nero, veniva gettato in mare. Tre giorni
più tardi - poco prima di essere condannato - Cesario disse a
Lussurio: "L'acqua, nella quale sono stato rigenerato, mi
riceverà come suo figlio che ha trovato in essa una seconda nascita:
oggi mi renderà martire con Giuliano, mio Padre, che una volta mi
fece cristiano. Quanto a te, Lussuria, oggi stesso morirai con un
morso di un serpente, affinché tutti i paesi sappiano che Dio
vendicherà il sangue dei suoi servi, e delle vergini che facesti
perire tra le fiamme". Era il 1° novembre (Kalendae Novembris)
dell'anno 107 d.C.: i condannati furono chiusi in un sacco (missi in
sateum) e precipitati, secondo la tradizione, dall'alto della guglia
del "Pisco Montano" nel mare (praecipitati sunt in mare),
dove morirono per soffocamento. Questa data è stata proposta da
molti agiografi e studiosi per collegare il martirio del diacono a
quello di Nereo, Achilleo e Domitilla, anche se non è possibile
stabilire gli elementi storici probanti. Secondo l'archeologo Pietro
Longo, la "Passi() maxima" è inattendibile in quanto
troppo prolissa e piena di "pie interpolazioni" atte ad
esaltare Cesario. Il collegamento del martirio del nostro diacono con
quello di Nereo, Achilleo e Domitilla sarebbe nato in quanto questi
quattro martiri risulterebbero essere tutti legati al papa Damaso
(366-384), il quale avrebbe curato la traslazione del corpo di
Cesario da Terracina a Roma ("Sanatio Gallae et translatio S.
Caesarii Romani") e scritto un carme in onore dei SS. Nereo ed
Achilleo.
L'archeologo sostiene che il martirio
di Cesario sarebbe avvenuto, invece, il giorno 13 luglio dell'anno
250 d.C. - oppure nei quattro giorni antecedenti ossia dal 9 al 13 -
perché in quel periodo a Roma venivano festeggiati i Ludi
Apollinari, che devono il loro nome al dio a cui erano dedicati,
ovvero Apollo. Si svolgevano annualmente per un periodo di otto
giorni, precisamente dal 5 al 13 luglio, e solo l'ultimo giorno si
tenevano nel circo. Il Longo, quindi, suppone che il diacono sarebbe
stato immolato ad Apollo nell'anfiteatro di Terracina. Nel marzo o
nell'aprile del 250, l'imperatore Messio Traiano Decio (249-251)
proclamò l'editto del Libellus, in base al quale ogni famiglia
avrebbe dovuto proclamare solennemente e pubblicamente, attraverso un
sacrificio, la sua devozione alle divinità pagane ricevendone quindi
il "libellus", una sorta di certificato che attestava la
sua qualità di seguace degli antichi culti dello Stato e quindi la
sua appartenenza a Roma. Il Libello non aveva come mira precisa il
cristianesimo, perché anche altre comunità religiose, devote ai
culti egizi e asiatici, ebbero l'obbligo di sacrificare. Alcuni
cristiani abiurarono la loro religione e furono detti lapsi (dal
latino lapsus, errore), altri cercarono di ricevere il libello senza
compiere il sacrificio, e altri scelsero il martirio. I libelli noti
si raccolgono tutti fra le date 12 giugno-14 luglio 250. Il Lanzoni
ipotizza che il martirio di Giuliano di Anazarbo avrebbe fornito al
nostro autore i "colori" per descrivere quello di Cesario e
Giuliano di Terracina. Giuliano di Anazarbo fu chiuso in un sacco
pieno di arena, scorpioni e serpenti velenosi e gettato in mare, dove
morì soffocato il 21/22 giugno del 249 d. C.. Gli elementi, quindi,
che hanno in comune queste due storie sono: un sacco, il mare e -
come vedremo - un serpente velenoso. Recenti studi confermano la
tradizione agiografica e iconografica: il diacono Cesario fu
martirizzato quando era un giovane adulto con età compresa tra i 18
e i 22 anni. Per quanto concerne il Pisco Montano - teatro
dell'esecuzione - è stato sempre considerato l'emblema paesaggistico
di Terracina e forse la tradizione nasce per legare questa rupe al
protettore della città, a partire dal suo intervento a favore del
giovane Luciano (1° gennaio) fino al suo martirio (1° novembre).
Lo stesso giorno del martirio, le onde
riportarono i corpi di Cesario e Giuliano sulla riva, dove furono
trovati accanto a quello di Lussurio; si avverò quindi la profezia
del diacono. Dopo l'esecuzione della sentenza dei nostri martiri, il
primo cittadino si stava infatti recando presso la sua casa di
campagna, dove voleva cenare, e per far prima aveva preso la strada
che costeggiava la riva; mentre passava sotto un albero, un serpente
cadde sulla sua schiena (a serpente percussus) e scivolò tra il
collo e la sua tunica, gli lacerò i fianchi con dei morsi crudeli e,
attraverso il petto, gli penetrò fino al cuore iniettando il veleno
nel suo corpo. Lo sfortunato cadde e il suo corpo si gonfiò
orribilmente, ma prima di morire vide gli angeli del cielo che
accoglievano le anime di Cesario e Giuliano. Il monaco Eusebio, che
aveva vissuto con loro, raccolse le loro preziose reliquie e le
seppellì a Terracina, in Agro Varano, il giorno delle calende di
novembre. Per cinque giorni Eusebio, digiunando, rimase a recitare
salmi e a pregare sulle loro tombe. Vedendo ciò, tanti terracinesi
si recarono in questo luogo, non distante dalla città: molti si
convertirono e furono battezzati dal presbitero Felice. Nel frattempo
il nuovo giudice era Leonzio II, figlio del console convertito dal
diacono Cesario. Quando Leonzio II apprese questi fatti, andato in
collera per la morte del padre, mandò dei soldati per arrestare
Felice ed Eusebio e li fece condurre nel foro alla presenza di tutto
il popolo. Poi iniziò il processo, alla presenza delle massime
autorità civili e religiose della città, ed egli li interrogò
dicendo: "Siete liberi o schiavi?" ed il presbitero Felice
rispose: "Siamo servi del nostro Signore Gesù Cristo".
Leonzio disse: "Quali sono i vostri nomi?" ed essi
risposero "Noi ci chiamiamo Eusebio e Felice". Leonzio
disse: "Perché predicate dottrine insensate, ed in contrasto
con la salvezza dello Stato e dei principi?" e Felice rispose:
"La dottrina che predichiamo non è insensata: questa è la vera
e sana dottrina che ci obbliga a conoscere e a servire Dio. Se volete
conoscerlo, sarà permesso anche a voi di ottenere la vita eterna".
Leonzio disse al popolo: "Che ve ne sembra?" Alcuni
gridarono che la loro dottrina era buona, altri che essa serviva
soltanto a sedurre gli uomini.
Il nuovo giudice ordinò di riportarli
in prigione e di notte mandò alcune persone per costringerli a
sacrificare agli dei, ma essi rifiutarono e cantarono: "Gloria a
Dio nel più alto dei cieli". Pertanto, Leonzio ordinò di
decapitarli e di gettare i loro corpi nel fiume. Il fiume trasportò
le loro spoglie mortali al mare ed il giorno dopo le onde le
respinsero sulla riva, presso la Pineta. Ed ecco che il presbitero
Quarto da Capua, uscendo per andare nella sua casa di campagna. trovò
i corpi decapitati dei martiri; li mise sul suo carro, cominciò a
cercare attentamente le loro teste, che ritrovò il giorno
successivo, e diede loro degna sepoltura in prossimità delle tombe
dei martiri Cesario e Giuliano.
La vita di Cesario non finisce in quel
sacco, ma continua a vivere fino ad oggi grazie alla devozione e
all'ammirazione che il popolo di Dio gli offre: con tutte le forza e
la determinazione di un giovane è riuscito a cambiare la mentalità
di questa città piena di idoli, ci ha insegnato a difendere a tutti
i costi la dignità della vita e la nostra libertà e non ha avuto
paura di entrare in quel sacco per dimostrare che non Amore più
grande di donarsi tutto a tutti e testimoniare Cristo con la sua
vita.
Brano tratto dal Libro illustrato sulla
vita di San Cesario, o Cesareo, diacono e martire di Terracina:
"CAESARIUS DIACONUS" / Testi e illustrazioni di Giovanni
Guida, 2015. (Studio della Passio Sancti Caesarii diac. et Iuliani
presb. Terracinae mart.)
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