Terra tra i due mari
Le terre di confine della terapia.
Come la costa di un continente la terapia la possiamo
definire come la regione di confine tra il mondo acquatico e il mondo delle terre
emerse. In questo spazio c’è solo relazione, non vi è un dominatore, né un
oggetto assoluto: ad ogni livello la costa deve mantenere questa sua proprietà
di zona di confine.
Le differenze tra le persone
non rappresentano modi diversi di trattare la stessa realtà oggettiva, ma domini
cognitivi legittimamente differenti: uomini diversi culturalmente vivono in realtà
cognitive diverse che sono ricorsivamente specificate attraverso il loro vivere
in esse.
Questo concetto viene magnificamente sviluppato in seguito
dai due biologi cileni Maturana e Varela con l’assunto che ogni sistema vivente
si adatta al mondo attraverso un atto cognitivo che accoppia strutturalmente il
sistema biologico al sistema mondo.
Quindi, la terra di confine, il diaframma che connette il
mondo al soggetto è costituito sempre e solo dalla relazione tra i due attori
che compongono la simbiosi biologica.
L’atto di conoscenza non è compiuto per definire una
oggettività presunta del mondo reale, ma è un’azione che assume il ruolo e il
carattere di processo attraverso il quale il sistema biologico si adatta e apprende
e, quindi, si differenzia e si identifica rispetto al mondo.
Questo processo avviene attraverso la creazione di una mappa
che rappresenta un territorio specifico, e tale mappa è il risultato della
storia ontogenetica e filogenetica del soggetto, ma interviene, nella stessa
misura e peso, anche la cultura, l’appartenenza ad un credo religioso,
filosofico o empirico-scientifico di cui l’individuo è parte integrante.
Ecco allora spiegata l’affermazione che le differenze tra
persone non sono la conseguenza di modalità differenti di trattare la stessa
realtà oggettiva, ma sono piuttosto la derivata di una mappa diversa che è il
prodotto dell’esperienza empirica, della cultura e della religione di
appartenenza.
Filosoficamente questo concetto è stato espresso molto bene
dal pensatore francese Edgar Morin il quale sintetizza come segue:
“Io dico di essere,
formulo cioè la mia identità, che mi fa dire di essere quello che penso di
essere, mi fa agire quello che sono convinto di essere e questo agire convinto
di essere mi fa pensare di essere quello che dico di essere”.
è un perfetto ciclo ricorsivo autoalimentante dove l’inizio
del processo diventa anche la fine dello stesso ciclo: l’affermazione linguistica,
il pensiero di come sono (l’inizio del ciclo) mi fa agire secondo questa convinzione
e l’agire in questo modo è ciò che permette l’insorgere del pensiero di quello
che sono, cioè la mia convinzione di ciò che sono (la fine del periodo che però
diventa anche l’inizio dello stesso ciclo).
Rappresentativamente questo ciclo non si può ridurre ad un
semplice cerchio, ma può essere egregiamente raffigurato dalla spirale che ha
sì un movimento circolare ma che non ritorna esattamente allo stesso punto iniziale
perché il suo sviluppo è tridimensionale in quanto si sposta leggermente, ma
progressivamente dal piano di rotazione iniziale.
In questo modo il pensiero che mi fa agire, e nel contempo
si conferma, concretizza un’esperienza che a sua volta fa emergere il pensiero
di quello che sono: questo ritorno all’origine del pensiero, però, non è esattamente
identico al precedente, esiste una piccola differenza determinata dal vissuto
empirico, o culturale in genere, che modifica lievemente la convinzione iniziale.
Questo processo iterato e continuo porta alla genesi e alla
conferma di quello che sono, ma in questa definizione identitaria si innesta
uno progressivo sviluppo che porta ogni individuo ad essere inesorabilmente
diverso in ogni presente che conclude il contiguo precedente passato esperienziale
appena trascorso. E’ il processo metamorfico e di maturazione della vita che ci
porta a differenziarci rispetto al mondo e rispetto a come si era l’attimo
esperienziale che abbiamo appena vissuto.
Quando una persona vive un evento conflittuale è all’interno
del processo identitario che si verifica un inghippo, e tale malfunzionamento
porta ad una costruzione di una mappa che non è più funzionale al territorio
che il paziente sta praticando.
La panne può localizzarsi in qualsiasi punto della spirale
identitaria: nel pensiero che io ho di me stesso; nell’azione e nel
comportamento di quello che sono convinto di essere; nel pensiero che ne deriva
dal mio comportarmi in un certo modo e che non collima più con quello che sono
o pensavo di essere.
Abbiamo detto che la terapia consiste nel cambio della mappa
di quel territorio che rende la relazione con il mondo conflittuale in quel
determinato frangete. Ebbene, la mappa può essere riscritta rendendo consapevole
il paziente dove si localizza l’alterazione del processo identitario: un
autodialogo interno negativo rispetto a quella situazione o evento; il
comportamento e l’azione che non trovano una congruenza con il pensiero che li
dovrebbe motivare; il comportamento e l’agire non confermano o addirittura
contraddicono il pensiero originario di come si pensava di essere.
Intervento del Dr. Marco Chisotti a cura di Claudio Gnata.
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