DESTRA? SINISTRA? Quel che resta (niente) di due categorie politiche dopo la globalizzazione. Appunti non congressuali
ANNO XXIV NUMERO 3 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 4
GENNAIO 2019
DESTRA? SINISTRA?
Quel che resta (niente) di due categorie politiche dopo la
globalizzazione. Appunti non congressuali
di Luigi Marattin*
La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato
di natura hobbesiano, la destra tende ad accettare il disordine e l'instabilità
Il primato della democrazia rappresentativa è stato messo
alla prova dal Grande choc chiamato "globalizzazione"
Il caso italiano e le specificità storico-politiche che
supportano ancor di più che altrove la tesi della irrilevanza di destra e
sinistra
Alle elezioni politiche del 2018 più del 70%deivotanti ha premiato
forze politiche che rifiutano la diarchia "destra sinistra"
Chi c'è andato più vicino, finora, è stato Giuliano da
Empoli. Che in un'intervista a Steve Bannon pubblicata sul Foglio il 1 otto-bre
scorso si è spinto fino a dire "il cleavage principale oggi è questo,
apertura versus chiusu-ra, e non cancella ma rende certo molto meno rilevante
il vecchio schema destra/sinistra".
In questo articolo si
proverà dapprima ad argomentare i motivi per cui le attuali cate-gorie
politiche sono state spazzate via dagli eventi occorsi nel pianeta dell'ultimo
quar-to di secolo. In secondo luogo si argomente-rà che il superamento delle
stesse è ancor più marcato ed evidente nel caso italiano. Infine, con la
cautela del caso, si proporrà al lettore qualche riflessione su quale linea di
demarcazione possa in Muro sostituire quella esistente nella definizione delle
of-ferte politiche del tempo in cui viviamo. La tesi del superamento della
dualità "destra/sinistra" circola da tempo nel dibat- tito politico.
Ma o è sussurrata (per paura di essere tacciati come
bestemmiatori nel tem-pio) o è usata in chiave strumentale per auto proclamarsi
diversi rispetto al quadro poli-tico esistente (il "non siamo né di destra
né di sinistra" è stato sventolato sia dalla Lega a inizio anni Novanta
che dal M5s venti anni dopo, ma anche da Mario Monti nelle elezio-ni nel 2013).
Una seria riflessione sull'attualità delle categorie "destra" e
"sinistra" da parte della classe politica non è, quindi, mai
realmente stata fatta. Un po' per la sacralità del tema, un po' per istinto di
sopravvivenza da parte di partiti (e del relativo personale politico) che su
quella distinzione hanno costituito tratti indentitari e rassicuranti molto
diffici-li da mettere in discussione. E un po' per la vischiosità a prendere
atto degli enormi mu-tamenti occorsi in questo "piccolo Pianeta"
(cit. John Kennedy) da un quarto di secolo a questa parte.
Come noto ai più, le denominazioni "De-stra" e
Sinistra" nascono dalla disposizione casuale dei banchi in cui si
sedettero con-servatori e rivoluzionari alla riunione degli Stati Generali in
Francia nel maggio 1789, durante la Rivoluzione Francese. I primi tendevano
alla conservazione dello status-quo feudale; i secondi al sovvertimento di tale
ordine. Da allora, per analogia, "destra" ha indicato una posizione
politica tesa al mantenimento dello status quo sociale che accetta le
disuguaglianze in esso insite, po-nendo maggiore accento su libertà e svilup-po
e "sinistra" una tensione verso una modi-fica di esso in direzione di
una maggiore uguaglianza (Bobbio 1994). Al contrario di quello che si crede,
tuttavia, la distinzione Bobbiana "diseguaglianza/uguaglianza",
sebbene prevalente, non è l'unico criterio adottato per definire
"destra" e "sinistra". Secondo
Gianni Vattimo (1996) l'identità della sinistra consiste in una riduzione
del-la violenza, intesa non solo come utilizzo di mezzi coercitivi ma persino
come esaltazio-ne della competizione e della concorrenza. Carlo Galli
(2010) individua invece la distin-zione nella modalità di risposta al disordine
pre politico. La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato di
natura hob-besiano per riportare al centro l'individuo, con le sue necessità,
quale portatore di ordi-ne nel caos. La destra, secondo Galli, tende invece ad
accettare il disordine e l'instabili-tà connesso allo status quo pre politico e
cercarne, invece, le opportunità. Contrariamente a quanto si crede, dun-que, la
definizione di cosa sia "destra" e co-sa sia "sinistra" è
da qualche anno estrema-mente dibattuto nel pensiero politico e filo-sofico. In
questa sede, a chi scrive non inte-ressa contribuire a quel tipo di dibattito
(non ne avrebbe in ogni caso le credenziali e le capacità). Interessa,
piuttosto, domandar-si se queste categorie politiche siano ancora adatte a
riassumere in modo accurato — e rispondente alla realtà - lo spettro delle
po-sizioni politiche che agiscono sulla realtà stessa con l'aspirazione di
modificarla. Le categorie politiche, infatti, non sono esogene. Non sono state
consegnate da Dio a Mosè sul Monte Sinai agli albori della civil-tà, e
destinate a durare in eterno. Esse sono, invero, lo specchio del tempo in cui
viviamo. Nascono da esso e si nutrono di esso. E in esso trovano - o non
trovano più - ragion d'essere.
La distinzione tra destra e sinistra, come abbiamo visto,
nasce in uno snodo cruciale della Storia. Quello in cui dal punto di vista
politico debutta progressivamente su larga scala la democrazia rappresentativa
struttu-rata sullo Stato nazionale, in sostituzione delle monarchie assolute o
degli imperi; dal punto di vista sociale il regime feudale la-scia il posto
alla società articolata per classi sociali; dal punto di vista economico i
secoli di sviluppo basato sull'agricoltura lasciano spazio alla rivoluzione
industriale. Da quel momento sono passati quasi due secoli e mezzo. Che non
sono certo sono stati omoge-nei, da tutti i punti i vista; ma che -pur
attra-verso temporanee deviazioni di breve perio-do-hanno conservato i tratti
di cui sopra: il primato indiscusso della democrazia rap-presentativa, la
centralità dello Stato nazio-nale, una riconoscibilità delle classi sociali e
uno sviluppo economico saldamente basa-to sull'industria. E' opinione di chi
scrive che tale assetto sia stato permanentemente archiviato da un Grande Shock
che si è dispiegato gradual-mente nell'ultimo quarto di secolo. Tale shock è
comunemente identificato come "globalizzazione", ma a ben vedere è
persi-no qualcosa di più. Il dimensionamento glo-bale delle dinamiche
economiche è sicura-mente l'aspetto più rilevante: dall'inizio de-gli Anni
Novanta del secolo scorso, infatti, la dimensione dei mercati - dei capitali,
dei beni e servizi e financo del lavoro (con l'e-splodere senza precedenti
delle dinamiche migratorie) è diventata pienamente globale. Si argomenta spesso
che questa non è stata la prima ondata di globalizzazione che il mondo abbia
vissuto: a cavallo tra il XIX e il XX secolo, come noto, vi è stata una
similare espansione globale dei commerci. Quella globalizzazione, che ebbe un
brusco stop con lo scoppio di ben due guerre mondiali e la conseguente
divisione del mondo in bloc-chi, fu tuttavia caratterizzata da una sostan-ziale
asimmetria: poche grandi potenze sfruttavano - traendo beneficio dalle
inno-vazioni tecnologiche nel settore dei traspor-ti - i flussi commerciali da
e per i propri pos-sedimenti coloniali, che non avevano auto-nomia soggettività
di sviluppo e si limitava-no ad essere fornitori di input e, in molti casi,
mercati di sbocco degli output. La glo-balizzazione di un secolo dopo, invece,
ha un assetto molto più paritario: i paesi emergen-ti o ex-emergenti (Cina,
India, Brasile, Tur-chia, Sudafrica) non sono affatto possedi-menti coloniali sotto
dittatura economica (e politica) dei paesi occidentali. Anzi, gli ef-fetti di
spiazzamento di lavoratori e imprese in
Europa e Stati Uniti sono determinati proprio dal carattere pienamente
paritario di questa globalizzazione, in cui sono i paesi sviluppati a essere
mercati di sbocco dei paesi emergenti e in cui l'affermarsi delle catene
globali del valore rompe - questo si per la prima volta nella Storia - il
carattere esclusivamente nazionale delle filiere pro-duttive. Il Grande Shock
venticinquennale, quin-di, è soprattutto basato sulla globalizzazione (e sulla
sua prima crisi, quella del 2008-2009) ma anche su altri sconvolgimenti che
muta-no radicalmente l'assetto di lunghissimo pe-riodo inaugurato con la
Rivoluzione France-se e che sopra abbiamo descritto. Il primo -e di gran lunga
più importante -tra questi è la Rivoluzione Digitale e l'avvento del web.
Nonostante il dibattito prosegua da vent'an-ni, è forse ancora troppo presto
per valutare scientificamente in chiave storico-economi-ca se la Internet
Revolution sia configurabile come un vero e proprio superamento della
Rivoluzione Industriale (chi scrive è assolu-tamente convinto di sì, non solo
perché cata-lizza in maniera decisiva il settore terziario ma anche e
soprattutto perché modifica ra-dicalmente la manifattura e tutto ciò che le
gira intorno). Ma è innegabile che essa abbia radicalmente e definitivamente
sconvolto le dimensioni dell'informazione, della comu-nicazione politica, della
formazione del consenso. Il venir meno di ogni filtro, l'oriz-zontalizzazione
completa dei circuiti di in-formazione, l'azzeramento dei tempi della
comunicazione (rispetto al rallentamento dei tempi della formazione della
decisione politica) ha radicalmente modificato il rap-porto tra rappresentanti
e rappresentati e ha inciso pesantemente sul funzionamento della democrazia
rappresentativa. Sia l'ele-zione a presidente Usa di un candidato estraneo ai
tradizionali canali di selezione dei due partiti, sia il referendum sulla
Bre-xit hanno sancito l'affermarsi della disinter-mediazione politica nei due
paesi anglosas-soni campioni della teoria e della pratica della democrazia
rappresentativa. Tale ten-denza poi è avvalorata da diverse altre espe-rienze
(Russia, Turchia, Polonia, Ungheria) in cui si assiste a torsione dei regimi
demo-cratici verso forme di rappresentanza politi-ca che sempre con maggiore
frequenza sal-tano il ruolo dei corpi intermedi e delle tra-dizionali
istituzioni della democrazia rap-presentativa per avocare un diretto legame tra
popolo e leader. Fino ad arrivare alle po-sizioni esplicite del primo partito
italiano, che parlano di superamento del Parlamento e di sperimentazione di
forme di democra-zia diretta basate, guarda caso, proprio sulle nuove
tecnologie messe a disposizione dalla rivoluzione digitale. E, infine, gli
ultimi due tratti caratteristici dell'èra post 1789 (rico-noscibilità delle
classi sociali e sviluppo economico basato sull'industria, poi divenu-ta
produzione di massa nel corso del Nove-cento) sono da tempo stati archiviati.
Non certo perché si sia raggiunto un superamen-to delle divisioni sociali, ma -
molto più ba-nalmente - perché esse corrono lungo linee di demarcazione
completamente diverse da quelle di un tempo. Il tradizionale criterio di
possesso dei mezzi di produzione appare fortemente indebolito a vantaggio di
altri criteri: non solo produttori versus rentier, ma anche e soprattutto tra
possessori di op-portunità (o capabilities, per dirla con Amar-tya Sen) e
coloro che invece ne sono privi, magari perché spianati dal nuovo assetto
globale. Ciascuno dei tratti caratterizzanti del mondo in cui nacquero e si
svilupparono le categorie politiche "destra" e "sinistra"
(de-mocrazia rappresentativa, Stato nazionale, Rivoluzione industriale e
riconoscibilità delle classi sociali sulla base del possesso dei mezzi di
produzione) è stato profonda-mente modificato - o addirittura spazzato via - da
un Grande Shock dispiegatosi nel mondo dalla caduta del Muro di Berlino (1989)
fino al riassorbimento della prima grande crisi della globalizzazione
(2013-2014). Ce n'è abbastanza, dunque, per quan-tomeno chiedersi con
cognizione di causa se quelle categorie siano ancora attuali per de-scrivere le
posizioni politiche che, nascendo dalla realtà, mirano a modificarla. Nel caso
italiano vi sono poi alcune speci-ficità storico-politiche che supportano
an-cor di più la tesi della sopravvenuta irrile-vanza delle categorie politiche
per come le conosciamo. La maggior parte dei politologi concorda che una
"destra" vera e propria, analoga a quella presente e spesso
preva-lente nei paesi occidentali, non sia in fondo mai esistita nella Prima
Repubblica, quan-tomeno nelle dimensioni rilevanti (il Partito liberale
italiano, per molti osservatori rien-trante in tale categoria, non ha mai
raggiun-to vette di consenso significative). Né tale può essere considerato il
Movimento sociale italiano, essendosi sempre esplicitamente (dapprima) e
implicitamente (poi) richiama-to all'esperienza della dittatura fascista o
della Repubblica di Salò. Ben nota e analiz-zata è poi l'anomalia sul fronte
opposto: la presenza del più grande partito comunista del mondo occidentale,
che almeno fino a metà Anni Settanta si richiamava esplicita-mente alla
dittatura sovietica, ha compresso e snaturato il dispiegarsi di una vera forza
socialdemocratica, le cui funzioni erano svolte dalla sinistra DC e dal Partito
Sociali-sta (e, con un consenso molto minore, dal Psdi). La conventio ad
excludendum ha poi fatto il resto: anche quando il Pci si è esplici-tamente
distaccato dai richiami rivoluzio-nari e ha cominciato ad approssimare una
"sinistra" legittimata nel gioco democratico, l'assetto geopolitico
deciso alla fine del-la Seconda guerra mondiale ne ha impedito l'accesso al
governo (Aldo Moro ci ha rimes-so la vita su questo) e ha determinato in
ulti-ma analisi l'impossibilità pratica di costitui-re una democrazia
dell'alternanza nel pri-mo mezzo secolo di storia repubblicana. Il crollo del
Muro di Berlino e l'avvio del-la cosiddetta Seconda Repubblica non ha,
contrariamente a quanto si pensa, determi-nato la definizione di un quadro
competiti-vo tra (centro)destra e (centro)sinistra. La li-nea di demarcazione
tra le offerte politiche era semplicemente tra "pro Berlusconiani" e
"anti Berlusconiani". E tra i primi, se escludiamo il generoso e
subito abortito tentativo di alcuni intellettuali quali Anto-nio Martino e Giuliano
Urbani nei primi me-si del 1994., non vi è mai stato nulla neanche l'ombra di
una destra liberale. Così come nella "gioiosa macchina da guerra"
occhet-tiana, o nell'Ulivo del 1996 e2006, non vi era-no i tratti di una
moderna socialdemocrazia ma piuttosto il tentativo - neanche tanto ma-scherato
- di sommare i tratti culturali e il personale politico della cultura comunista
e di quella della sinistra democristiana. E così, proprio mentre nel mondo si
dispiega-va il Grande Shock, l'Italia ha impiegato un quarto di secolo a
dividersi tra tifosi e av-versali del Cavaliere e dei suoi tratti
carat-teriali, a provare inutilmente a trovare sta-bilità nell'assetto
elettorale e istituzionale, e a cercare di traghettare quanto più ceto politico
possibile dalla Prima ad ancor più fumosa Terza Repubblica. Questa - con la
rilevantissima eccezione dell'ingresso nel-l'euro - è stata la cosiddetta
Seconda Re-pubblica, poco altro. E non dovrebbe stupi-re che proprio in questo
lasso di tempo l'Ita-lia abbia riportato i peggiori risultati econo-mici della
sua storia. Per quanto di nostro interesse in questa sede, possiamo solo
rilevare che i 25 anni di "Seconda Repubblica" hanno ulteriormen-te
slabbrato nell'elettorato il senso di ap-partenenza alle categorie politiche
"destra" e "sinistra". Lo dimostra il fatto che alle
ele-zioni politiche del 2018 gli unici due partiti politici che facevano
espressamente e conti-nuamente riferimento a tali categorie per definire la propria
identità hanno riportato un consenso
elettorale minimo (3,4% Liberi e Uguali e 4,3% Fratelli d'Italia). Il resto, si
era già abbondantemente mischiato. Già dal 2013, con le segreterie dei due
quarantenni Renzi e Salvini , Pd e Lega (che il 4 marzo si sono divisi in modo
pressoché paritario un consenso del 36%) avevano incluso nella propria carta
d'identità tratti culturali tra-dizionalmente appartenenti a categorie
po-litiche opposte a quelle in cui teoricamente si collocavano: il Pd con
l'enfasi su riduzio-ne della pressione fiscale e liberalizzazione del mercato
del lavoro e del capitale, e la Lega con l'abbassamento dell'età pensiona-bile,
l'aumento della spesa pubblica e del-l'intervento statale in economia.
La tesi di chi scrive è, dunque, che le cate-gorie che hanno
contrassegnato lo spazio dell'offerta politica dalla Rivoluzione Fran-cese ad
oggi (per come sono state tradizio-nalmente intesi) non siano più attuali a
cau-sa dei profondissimi sconvolgimenti avve-nuti a cavallo del Millennio; tale
usura è an-cor più valida in Italia, dove non solo l'intera vita repubblicana
ha visto una de-clinazione incompleta e strabica di "de-stra" e
"sinistra", ma dove forse prima che altrove è iniziata la definizione
di un'offerta politica che superasse le tradizionali cri-stallizzazioni. Alle
elezioni politiche del 2018 più del 70% dei votanti ha premiato for-ze
politiche che o rifiutavano a priori la diarchia "destra/sinistra"
(M5s) o l'avevano da tempo nei fatti superata nelle proprie po-licies (Pd e
Lega). La definizione delle nuove categorie poli-tiche non è una questione
nominalistica. Non si fa chiarezza se a "destra e sinistra" si
sostituisce , per dire una sciocchezza, "alto e basso" senza
specificare che cosa real-mente significhino. Così come, a opinione di chi
scrive, non è pienamente fattibile limi-tarsi ad un'operazione di re-brunding
cam-biando il significato dei termini "destra" e
"sinistra"ma mantenendoli in vita: un brand universale di 250 anni di
età, sempli-cemente, non muta significato a comando. E allora che fare? Siamo
in molti a essere convinti che la nuova linea di demarcazione tra offerte
politiche passi attraverso una fa-glia, certamente ancora in divenire, ma i cui
tratti cominciano ad essere piuttosto chiari.
Da una parte chi è
convinto che la realizza-zione dell'individuo abbia un carattere
so-stanzialmente dinamico: non può che passa-re attraverso una continua
evoluzione dei propri comportamenti (dettata dalla neces-sità di adattamento ad
un mondo in conti-nuo movimento), l'ampliamento delle op-portunità e la
naturale tensione verso il co-glierle, la dimensione sovranazionale (su cui
strutturare le istituzioni della democra-zia rappresentativa), il
multilateralismo e la tutela dei diritti civili e della libertà econo-mica. Per
dirla con Giovanni Orsina, questa offerta politica mira a limitare il
"narcisi-smo" dell'elettore tramite la sua piena in-clusione nella
società globalizzata e nelle sue dinamiche.
Dalla parte opposta vi è chi invece predi-lige una
dimensione più statica e non-limi-tante rispetto ai desideri assoluti
dell'indi-viduo, indipendentemente dal contesto. Le parole d'ordine sono
protezione dai cam-biamenti (reali o percepiti), dimensione na-zionale o
sub-nazionale della rappresentan-za, disintermediazione politica con legame
diretto tra leader e popolo, richiamo a valo-ri tradizionali. L'ampliamento
delle oppor-tunità è visto come una minaccia rispetto al-la ricerca delle
sicurezze del mondo pre-globale, e i limiti all'azione politica non so-no
predeterminati dalle condizioni di con-testo ma unicamente dalla stessa volontà
"narcisista" dell'elettore.
E' questa la diade (o la bozza di
essa) delle future categorie politiche?
La verità è che nessuno può saperlo, per due motivi: primo,
nessuno può dire se il Grande Shock (1989-2014) sia realmente finito e in
secondo luogo il percorso di aggiustamento potrebbe esse-re più lungo di quanto
già non sia stato. In fondo, come si è cercato di argomentare, ne-gli ultimi
venticinque anni non abbiamo as-sistito al crollo di questo o quel partito
poli-tico, ma di pilastri sociali, politici ed econo-mici che perduravano da
secoli. In una fase quindi ancora necessariamen-te molto incerta,
lapalissianamente, non vi sono certezze a cui aggrapparsi. Non vi sono porti
sicuri nei quali tornare, non vi sono più parole d'ordine rassicuranti che
forni-scano l'illusoria speranza che in fondo tutto quello che sta succedendo
al mondo è solo una nottata che deve passare. Esiste solo la necessità di guardare al mondo per quello che è
diventato e definire prospettive nuove volte a realizzare la missione
millenaria della politica: il governo efficace della cosa pubblica al fine di
migliorare le condizioni di vita presenti e future delle generazioni che vivono
questo tempo. E' questo, e non meno che questo, il compito della generazio-ne
che è diventata adulta in questo secolo.
*Capogruppo Pd in commissione Bilancio della Camera Ex
consigliere economico di Pa-lazzo Chigi
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