Il poeta dei capperi e la bicicletta della memoria

 


Il poeta dei capperi e la bicicletta della memoria



Certe volte i ricordi dell’infanzia si manifestano come apparizioni quotidiane, piccole epifanie che non fanno rumore ma lasciano scie lunghe, come profumi che riemergono da un armadio chiuso da anni. Ce n’è uno in particolare che mi ritorna sempre, con la fedeltà di un’ombra amica: un uomo in bicicletta, un venditore ambulante, un artigiano della semplicità che, inconsapevole, ha scolpito un frammento eterno nel mio immaginario. La sua bottega era una cassetta di legno legata con lo spago sulla ruota posteriore, un piccolo scrigno su due ruote, l’essenziale che bastava per attraversare un quartiere e piantare semi di poesia nella quotidianità.

Siamo a San Cesario di Lecce, Salento leccese, terra che ha la luce che consola e l’ombra che racconta. Più o meno negli anni Sessanta, a due pedalate dalla città capoluogo, tra via Saponaro e via Liguria. Un incrocio qualunque, di quelli che nessuno penserebbe mai di fotografare, eppure lì succedeva qualcosa. Lì si apriva ogni giorno il sipario su una scena che oggi chiameremmo microcosmo urbano, ma che all’epoca era semplicemente vita. Le case erano quelle dell’edilizia popolare del dopoguerra, soprannominate “CASE INA”, con i muri che parlavano in dialetto e i cortili pieni di panni stesi e grida di bambini.

E poi arrivava lui. Non so il nome, non lo ha mai detto. Forse lo conoscevano tutti, ma io lo ricordo solo come il "signore dei capperi". Gridava una parola che sembrava una filastrocca, un verso di una canzone infantile: “Chiapperi Chiapperì!”. Nessuno capiva subito, ma tutti sorridevano. Bastava quel grido per far affacciare le donne alle finestre, per far scendere i bambini con le monetine in mano, per accendere una scintilla tra le crepe del marciapiede.

Dentro quella cassetta portava capperi. Capparis Spinosa L., avrebbe detto un botanico. Ma a noi non importava il latino, bastava il sapore. Quei piccoli frutti salati erano più di un ingrediente: erano l’infanzia messa sotto sale, la memoria fatta conserva. Raccoglieva i capperi probabilmente con le sue mani, forse li comprava, non l’ho mai saputo. Ma li trattava con una cura che non si insegnava: li toccava come si tocca qualcosa che viene dal passato, qualcosa che ha attraversato il sole, la terra, la fatica.

Non era un commerciante: era un messaggero. Un testimone gentile di una cultura orale e visiva che si muoveva lenta, a pedali, senza fretta. Quando lo vedevo arrivare, sapevo che stavo per assistere a una lezione di poesia urbana, anche se ancora non sapevo che si potesse chiamare così. Non c’erano social, non c’erano notifiche: l’unico annuncio era la sua voce, che si faceva largo tra i rumori domestici come una radio sintonizzata su un’altra epoca.

Oggi ci penso e mi rendo conto che quell’uomo era un precursore dell’essenziale. Nessun packaging, nessun marketing. Solo lui, la bici, la cassetta e un grido che non aveva bisogno di essere tradotto. Era il venditore di un tempo circolare, in cui ogni cosa ritornava e niente andava davvero perduto.

A volte mi chiedo se qualcun altro lo ricordi. Se in qualche album di famiglia, magari in fondo a una foto sbiadita, si intraveda la sua figura in secondo piano. Se qualcuno ha conservato un suo cappero, in un vasetto, se qualcuno ne ha fatto un aneddoto. Io non ho nulla di materiale. Solo il suono della sua voce, l’immagine della sua bici inclinata, il colore di quelle strade fatte di crepe e polvere d’estate. E basta questo a farmi capire che non tutto ciò che conta si tocca.

Oggi, quando sento il vento di scirocco passare tra i vicoli del paese, mi sembra di risentirlo. È un’eco lontana, ma netta: “Chiapperi Chiapperì!”. È la voce dell’uomo che vendeva capperi e distribuiva ricordi, come semi leggeri da far germogliare nel cuore di un bambino che non sapeva ancora di stare imparando la nostalgia.

Ecco, io credo che ci siano persone così, nella vita di tutti. Non famose, non celebrate. Ma fondamentali. Perché senza di loro non avremmo parole per dire ciò che proviamo, né immagini per evocare ciò che siamo stati. Quell’uomo in bicicletta era una di quelle persone. E ogni tanto, nei miei silenzi, lo rivedo. Pedala piano, si ferma all’incrocio, e grida il suo verso stonato. Nessuno più risponde. Ma io sì. Con un sorriso. Con un grazie muto. Con un ricordo che non va via.

- Antonio Bruno

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