"Il mistero dei Messapi. Una lingua perduta, un’Italia ancora da scoprire"


 "Il mistero dei Messapi. Una lingua perduta, un’Italia ancora da scoprire"

di Antonio Bruno

Francesco Ribezzo era un uomo ostinato. Per quarant’anni ha rincorso una lingua che nessuno parla più da millenni: il messapico. Una lingua che risale ai tempi in cui l’Italia non esisteva, e il Sud era un mosaico di popoli e dialetti. Ribezzo ha raccolto pazientemente ogni frammento, ogni iscrizione rinvenuta nei campi, nelle tombe, sui vasi, per costruire un’opera monumentale: il Corpus inscriptionum Messapicarum. Un’enciclopedia di segni e significati che raccontano non solo parole, ma civiltà scomparse.

Ma il lavoro di Ribezzo non si è fermato lì. Dopo la pubblicazione del grande studio di Whatmough a Cambridge nel 1933, e la chiusura della rivista che lui stesso dirigeva, il bisogno di un aggiornamento si fece urgente. Specialmente dopo le scoperte del 1938 a Lecce: tombe, nomi, parole che affioravano dal silenzio di secoli. Ribezzo, con le sue Nuove ricerche, gettava le basi per una nuova edizione del Corpus. Ma andava oltre: sognava un'opera che raccogliesse tutte le iscrizioni preromane d’Italia, una sorta di memoria scritta delle nostre radici più profonde.

In quei segni sparsi tra Daunia, Peucezia e l’antica Messapia – nomi che oggi ci dicono poco – si celano differenze linguistiche che sorprendono ancora oggi gli studiosi. Popoli di origine illirica, secondo gli antichi Greci, ma già allora diversissimi. Ribezzo lo intuì: non bastava dividere le iscrizioni per regione. Era la lingua a fare la differenza. E così tracciò una linea tra i Calabri e i Sallentini, da un lato, e i Dauni e i Peucezi, dall’altro. Un lavoro non solo di archeologia, ma di identità.

E poi c’è il mistero dei nomi. Messapi. Un’etichetta che compare solo tardi, legata forse alla spinta espansionistica di Taranto verso la Lucania. E Metaponto? Il nome – sostiene Ribezzo – potrebbe risalire a Métapa, una città forse fondata da genti illiriche, forse no. Qui si intrecciano le lingue perdute del Mediterraneo: lenizioni di consonanti, suffissi indecifrabili, echi etruschi, balcanici, liguri.

Ribezzo ci ricorda che la storia d’Italia non comincia con Roma. Prima della latinizzazione, prima dei Greci, c’erano popoli che parlavano lingue oggi dimenticate. Ma quei popoli – e quelle lingue – sono ancora lì, nei toponimi, nei suoni, nei nomi che pronunciamo ogni giorno senza conoscerne l’origine. Lecce, per esempio, affonda le sue radici forse in Lupiae, e ancora più indietro in parole che evocano i morti, l’acqua stagnante, il culto degli antenati.

C'è qualcosa di commovente nel lavoro di Ribezzo: scavare non solo nella terra, ma nel tempo, per ritrovare ciò che siamo stati. Perché senza memoria, non c’è identità. E senza identità, non c’è futuro.

Bibliografia

  1. Ribezzo, F. Corpus Inscriptionum Messapicarum, RIGrIt., dal 1922.

  2. Ribezzo, F. Nuove ricerche per il CIM., Roma, 1944.

  3. Whatmough, J. The Prae-Italic Dialects of Italy, Cambridge, 1933.

  4. Alessio, G. Studi Etruschi XV, XVIII.

  5. Battisti, C. Rivista Italiana di Linguistica LXXI.

  6. Schwyzer, E. Griechische Grammatik, I.

  7. De Gregorio, G. Studi Glottologici Italiani VII.

  8. D’Ovidio, F. Archivio Glottologico Italiano X.

  9. Trinchera, F. Syllabus – La toponomastica pugliese nei documenti, Ann. Univ. Trieste IX (1937-38).

  10. Articoli vari in Japigia XIII, XVI; Atti Ist. Veneto CIII.

  11. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 33.

  12. Strabone, Geografia, VI.

  13. Eustazio, Commentarii, XIX, 61-62.

  14. Etymologicum Magnum, 579, 28.

  15. Esichio, Lexicon.

 

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