Perché Non Ti Piaci Davvero (E Cosa C’entrano i Tuoi Genitori e la Società) riflessioni dopo la visione del video di Gabriella Tupini PIACERE A SE STESSI
Se esiste un canone di bellezza o di comportamento e io non mi sento conforme a quel canone, è probabile che tema di non essere accettato dagli altri. Questo sembra un ragionamento logico, e in apparenza lo è. Ma in realtà non funziona così: gli altri ci accettano nella misura in cui noi stessi ci accettiamo. Quando non ci piacciamo, è più facile che nemmeno gli altri ci trovino piacevoli.
Cominciamo a pensare di non piacere perché non siamo abbastanza belli, bravi o buoni. L’origine di questo pensiero, naturalmente, va ricercata nell'infanzia, nei rapporti con i nostri genitori. Qui spesso le persone si infastidiscono e dicono: "Ma ce l’hai sempre con i genitori?" Ebbene sì, perché non si può ignorare la natura dell’essere umano. Se i nostri genitori non ci hanno approvato, interiorizziamo l’idea che ci sia qualcosa di sbagliato in noi.
Ognuno reagisce in base al proprio carattere, che è anche in parte innato. C’è chi si ribella, chi cerca disperatamente di compiacere i genitori, chi tenta di sparire e diventare invisibile, chi cerca di primeggiare… tutto questo per ottenere approvazione, convinto che, se è piaciuto ai genitori, piacerà anche agli altri. Non lo sa a livello consapevole, ma lo vive così.
Quando riceviamo approvazione dai genitori, ci convinciamo di andare bene, e se andiamo bene per loro, pensiamo che andremo bene anche per gli altri. Così, non ci chiediamo più se siamo belli o bravi: ci sentiamo semplicemente "a posto". Al contrario, se sentiamo di non essere stati accettati dai nostri genitori, cominciamo a credere di non essere abbastanza in qualche modo. Spesso traduciamo questo disagio in insoddisfazione per il nostro aspetto fisico. Non a caso, molte persone — donne soprattutto, ma oggi anche molti uomini — si sottopongono a chirurgia estetica, seguono diete estreme, si iscrivono in palestra.
Ma non è vero che staremo meglio così, perché non ci vediamo belli per come siamo: pensiamo di non esserlo perché immaginiamo che gli altri non ci vedano belli. Non abbiamo un pensiero nostro. In realtà, continuiamo a portare dentro di noi il giudizio dei genitori, e questo si riflette anche su altre aspettative.
Per esempio, per piacere agli altri, cerchiamo di fare carriera, per dimostrare — in fondo — al genitore interiore che "valiamo". Così finiamo per doverlo dimostrare anche a tutti gli altri. Ma poi accade che qualcuno dica: "Non ho fatto la vita che desideravo. Sono deluso."
Non si può davvero piacere a se stessi finché si è convinti che bisogna piacere agli altri, finché si crede di doversi adattare ai canoni esterni per essere accettati. Questo porta a snaturarsi, a perdere spontaneità, fluidità, autenticità.
Quando parlo di spontaneità, non intendo l’atteggiamento di chi dice: “Io sono fatto così, sono spontaneo e gli altri non mi accettano.” No. Spesso, quelle persone sono semplicemente aggressive, e non è questo il significato di spontaneità. Essere spontanei significa essere sé stessi, anche con idee o abitudini diverse dagli altri, ma senza nuocere. Finché non si fa del male a nessuno, va bene essere diversi.
C’è anche un altro tema cruciale: la mania del lavoro. Non è che la gente ami lavorare così tanto. È la struttura stessa della società che ci obbliga a lavorare. Devi lavorare per vivere, per mantenerti, per "farcela". Ma tutto questo è costruito: devi lavorare, guadagnare, comprare… perché qualcuno deve emergere. E se non ti riconosci in questa mentalità, allora cominci a non piacerti. Ti senti inadeguato: non sei abbastanza alto, bello, vincente. Ah, questa parola: "vincente". Come se fossimo sempre in guerra. Ma con chi stiamo combattendo?
La verità è che, quando cominciamo davvero a guardarci dentro, a comprendere cosa ci è stato trasmesso dai genitori — cosa ci hanno dato e in cosa hanno mancato — ci rendiamo conto che non eravamo "sbagliati". È la società, o la loro visione della vita, ad averci condizionati. Tutti i genitori, volenti o nolenti, commettono degli errori. Il punto è prenderne coscienza.
Dobbiamo imparare ad ascoltare i nostri sentimenti e lasciarli uscire, in modo innocuo. Non per ferire gli altri, ma per non reprimerli. Altrimenti, come diceva Freud, finiamo per rimuoverli, e la rimozione genera nevrosi. Chi dice "ho perdonato" spesso è ancora carico di rabbia non elaborata. Lo si vede: sono intolleranti con tutti, ce l’hanno con il mondo intero, anche se non con i genitori.
Staremo sempre male se non ci liberiamo dai crismi genitoriali e sociali. C’è una frase attribuita a Gesù nei Vangeli, poco commentata, che dice: “Chi non odia (o non si allontana da) suo padre e sua madre non è degno di me.” Il senso profondo è questo: se non ci distacchiamo dalla mentalità dei genitori, se non usciamo dal loro perno centrale, non riusciremo mai a capire chi siamo veramente. L’analisi psicologica serve a questo: a rivalutare il nostro io, che spesso è ancora l’io della "mamma mia", un’ossessione.
Se non ci stacchiamo dai modelli familiari e sociali, non possiamo vedere noi stessi. Qui si gioca anche il confine tra sanità mentale e disagio: chi non è sano spesso giustifica qualsiasi cosa con argomentazioni assurde (“allora posso andare in giro nudo?”), solo per evitare un confronto serio con sé stesso.
Una persona sana sa di cosa si parla: sa che vivere in società implica adattarsi almeno in parte, senza far del male agli altri, ma restando fedele a ciò in cui crede. Cerca di fare scelte basate su un proprio criterio, non su quello imposto dai genitori o dalla società. Il mio criterio non è infallibile, certo, ma è comunque meglio seguire il proprio e poi eventualmente correggersi, piuttosto che seguire quello degli altri senza mai poterlo mettere in discussione.
Per piacersi fuori, bisogna piacersi dentro. Cercatelo lì, e non altrove.
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