Padre e figlio, due Italie del pensiero: la storia dimenticata dei Zimara

 


Padre e figlio, due Italie del pensiero: la storia dimenticata dei Zimara

di Antonio Bruno dottore agronomo

Nell’Italia di oggi, che spesso dimentica di avere avuto un passato filosofico grande quanto quello delle arti, due nomi caduti nell’oblio ci raccontano una storia affascinante. È la storia di un padre e un figlio. Di due uomini del Sud. Di due Italie, potremmo dire: quella medievale che resisteva al cambiamento, e quella rinascimentale che cercava nuovi orizzonti.

Marcantonio e Teofilo Zimara: chi erano?

Il primo nasce attorno al 1470 a San Pietro in Galatina, in quella Terra d’Otranto che ancora oggi conserva tracce di un'antica nobiltà culturale. Studia a Padova, che all’epoca non era solo una città universitaria: era il cuore pulsante della filosofia europea, dove si discuteva di Aristotele come oggi si discute di intelligenza artificiale.

Zimara padre era un averroista. Credeva, come Averroè, che l’intelletto umano fosse unico e immortale, non individuale ma condiviso da tutta l’umanità. Una tesi affascinante e inquietante: niente anima personale, niente paradiso per il singolo, niente inferno per l’anima colpevole. Solo la ragione universale. Una sorta di intelligenza collettiva ante litteram.

Per questo fu accusato di eresia, anche se non fu mai condannato. Perché Marcantonio non era un eretico, ma un fedele lettore di Aristotele. E nel mondo di allora, fedeltà al testo significava fedeltà alla verità. Nel 1508 pubblica le sue Solutiones contradictionum in dictis Averrois: un’opera densissima, in cui cerca di sciogliere le contraddizioni tra il pensiero del filosofo greco e il suo interprete arabo.

Contro il suo vecchio maestro, Pomponazzi, che sosteneva che l’anima muore col corpo, Marcantonio risponde col rigore dello scolastico: se l’intelletto è separato, allora è eterno. Se è eterno, allora c’è speranza. Ma non per ciascuno di noi; per l’Uomo, con la U maiuscola.

Poi accade qualcosa di semplice e rivoluzionario: nasce suo figlio, Teofilo. È il 1515. E Teofilo sarà tutto ciò che Marcantonio non è.

Teofilo cresce in un’Italia già diversa. I segni della crisi religiosa si fanno sentire. Lutero ha già affisso le sue tesi. L’Inquisizione è dietro l’angolo. La filosofia comincia a parlare un altro linguaggio, fatto di anima, fede, amore platonico e Dio-persona.

Teofilo guarda il padre e lo contraddice. Abbandona l’averroismo. Lo definisce, nei suoi scritti, una «dottrina empia». Dice che non si può dimostrare l’immortalità dell’anima con la filosofia: per saperlo, bisogna credere. E per capire Aristotele, bisogna leggere anche Platone, Plotino, Proclo. Come farà poi anche Marsilio Ficino.

Nel 1584 pubblica la sua opera maggiore: un commento ai libri De Anima di Aristotele. Non per demolire il padre, ma per superarlo. È una generazione che cambia pelle, e lo fa senza odio, ma con consapevolezza. Il figlio non rinnega il padre; semplicemente, vive in un altro tempo.

Ecco allora che la loro storia non è solo una disputa accademica, ma una parabola familiare e italiana. Come tanti padri e figli della nostra storia: il padre che difende il mondo com’era, il figlio che cerca il mondo com’è diventato.

Marcantonio finisce i suoi giorni da professore stimato ma isolato, con la sua ultima opera, la Tabula dilucidationum, pubblicata dopo la morte nel 1537. Teofilo, più appartato, morirà nel 1589 a Lecce, lasciando un’opera incompiuta sulla Metafisica.

Oggi nessuno li ricorda. Eppure, sono due volti del nostro passato. Ci ricordano che l’Italia è stata anche questo: discussione, pensiero, conflitto tra generazioni che non si uccidono ma si interrogano. Una tradizione che potremmo riscoprire. Magari partendo da una biblioteca polverosa di provincia. O da una scuola, dove qualche professore coraggioso decida di raccontare, per una volta, anche questa storia.

 

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