Il piacere di farselo con le proprie mani



Ieri sera non sono potuto andare all’inaugurazione della Mostra Fotografica che l’Associazione “Tempo di scatto” ha allestito nella Cappella palatina del Paese più bello del Mondo. Ma dopo averne parlato con Ottorino Forcignanò, a cui è stata affidata la presentazione dell’iniziativa, mi sono venute delle idee che ho scritto qui di seguito.
Certo, ha ragione Ottorino, Mesce e Mesci sono figure che hanno riempito la mia infanzia a San Cesario di Lecce. Donne e uomini che “risolvevano problemi”. Le mie scarpe perennemente scorciaste dai calci dati alle pietre di cui erano fatte le strade del paese più bello del Mondo, erano riparate dalle abili mani “te lu Mesciu scarparu”. Le infrastrutture nella terra a sud – est erano molto “naturali e selvatiche” e i vestiti, le scarpe, le pentole e gli attrezzi, insomma tutto ciò che era “artificiale”erano affidati alle abili mani degli artigiani che mitigavano l’impervietà dell’ambiente in cui vivevamo.
Noi ragazzi e le ragazze, tutti le bambine ed i bambini sino all’adolescenza, dovevamo scegliere “lu mesciu” a cui affidare la nostra educazione della manualità artigianale e con cui avremmo passato le vacanza estive divenendone “li descipuli”.
Oggi è tutto perso e surrogato solo dalla libera iniziativa che, alcuni di noi umani, esprimiamo negli Hobbies, nei passatempo, che riportano l’attenzione al manufatto e, con lui, alla pace e alla serenità che ne deriva. Già! Perché quando si è intenti a riparare o a costruire qualcosa si giunge alla pace della mente, all’unità con il tutto dove tempo e spazio non esistono e sempre ci si sorprende, senza quasi accorgersene,  a fare notte inseguendo una soluzione possibile.
Arti e Mestieri, artisti e maestre e maestri popolano il nostro passato ormai diluito sino a scomparire nella velleitarietà dell’acquisto, del consumo, della produzione smisurata di rifiuti, spesso costituiti da manufatti che funzionano ancora e che sarebbero la gioia degli umani di terzo e quarto Mondo.
In sessant’ anni abbiamo perso il senso della misura, ci siamo arrampicati sulle vette dello spreco e abbiamo perso di vista i nostri padri che ricavavano qualunque cosa, da qualunque cosa, con arte, rispetto e considerazione per tutto e per tutti.
Eppure c’è chi ha capito, c’è chi costruisce con le sue mani prodotti che vende producendo ricchezza senza sprechi. Ecco i nuovi pionieri, quelli che al reddito di cittadinanza preferiscono il frutto del proprio lavoro, derivato da un patto con i cittadini che acquistano alcuni prodotti da loro, e non dalla Grande Distribuzione organizzata. Un patto che potrebbe riguardare tanti altri a cui spero che, queste mie povere parole, servano a vedere una direzione ancora attuale: la direzione della creatività. Buon lavoro manuale amici miei!
Antonio Bruno

LU MMULAFORBICI
Trae la sua origine etimologica dal francese "meule" - mola (pietra dura usata per affilare lame) e dalla voce italiana "forbici" da cui il termine dialettale "mmula forbici".
Il lavoro dell'arrotino (lu mmulaforbici) era un mestiere ambulante oppure un'attività che l'uomo svolgeva durante le ore libere.
Spesso l'arrotino lo si incontrava, specie nelle belle giornate d'estate o di primavera, a un angolo di strada, tutto scamiciato con una coppola sulla testa, pantaloni con grosse toppe ed un paio di scarpe rotte a causa dei pochi spiccioli che riusciva a guadagnare.
Il mestiere dell'arrotino era considerato un tempo un sottoprodotto dell'arte ed apparteneva alle cosiddette arti "vilissime" anche se umile e dignitoso.
Egli era dotato di un'apparecchiatura speciale e rudimentale costituita da un'intelaiatura di legno a forma di un piccolo tavolo con degli assi incastrati tra di loro, senza copertura alcuna.
Due delle sue gambe erano modellate a forma di manici e servivano anche come rette di guida. Nella parte anteriore, tra i due assi, era montata una ruota, tipo quella per i carrettini, che veniva usata sia come puleggia, sia per poter trasportare tutta l'apparecchiatura.
Su detta ruota, al momento opportuno, veniva fatta passare una cinghia di trasmissione che collegava sia la mola che un pedale, costituito da un asse di legno, che pigiandovi sopra metteva in movimento tutto il meccanismo, facendo girare la mola.
Al di sopra di questa vi era un barattolo di latta (buatta), pieno di acqua che aveva nella parte inferiore un piccolo rubinetto dal quale scendeva lentamente una goccia d'acqua che inumidiva la mola stessa.
Successivamente " lu mmulaforbici " cercò di modernizzarsi adoperando la bicicletta e installandovi sopra il manubrio, l'apparecchiatura occorrente.
La differenza consisteva nella diversa sistemazione della cinghia di trasmissione, la quale era collegata alla ruota posteriore del velocipede, in diretto sincronismo con i pedali.

Informazioni tratte da “Accendere la memoria viaggio per immagini nella nostra civiltà contadina” LEVANTE EDITORI BARI 2001

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