I giovani

 

Ho letto con grande attenzione l’articolo che segue al mio scritto. Una convivenza sociale soddisfacente e piena di benessere dipende da noi adulti e non dai giovani, specificamente dipenderà da come ci comporteremo noi adulti. Se siamo onesti, i bambini, poi adolescenti e giovani cresceranno onesti. Se siamo persone che collaborano, loro collaboreranno. Se siamo in competizione e ci neghiamo a vicenda, loro gareggeranno negandosi a vicenda. In altre parole, la vera responsabilità di come sono i nostri figli che poi diverranno adolescenti e giovani è nostra e dipende da come viviamo. I giovani di oggi sono come noi e se sono come li descriviamo è perché siamo noi ad avere la responsabilità di come si comportano oggi.

Il modo in cui viviamo implica le decisioni che prendiamo rispetto alla creazione di spazi di vita adeguati che saranno l'ambiente in cui i bambini, adolescenti e giovani si trasformeranno man mano che crescono.

Il compito di noi adulti è generare uno spazio di convivenza, in cui ciò che fanno i bambini, poi adolescenti e poi ancora giovani sia interessante, attraente perché inclusivo e accogliente, qualunque sia il tema che decidiamo di trattare o che loro autonomamente stiano trattando. Ciò implica una disposizione al rispetto, alla collaborazione, all'ascolto, all'etica, ed è ciò si evoca quando si parla dell'amore, che è lo sguardo che accoglie e non esclude; ma questo è il nostro problema, abbiamo teorie che giustificano l'esclusione. Mi spiego meglio descrivendo la base di queste teorie che è la competizione, la concorrenza. Dalle mie osservazioni la competizione risulta assolutamente negativa, perché implica che voglio essere migliore dell'altro. E se voglio essere migliore dell'altro, in realtà voglio negare l'altro attraverso quello che faccio. Ma allo stesso tempo nego me stesso, perché, invece di essere io il referente di me stesso, è l'altro che diviene il mio referente, il termine di paragone, ciò che intendo imitare e quindi diventare. Voglio diventare qualcosa di diverso da me stesso, in altri termini tradisco me stesso. Tutto ciò io lo considero negativo, perché non mi permette di vivere in uno spazio di integrazione, per contribuire alla costruzione di un paese in collaborazione con gli altri.

Quindi tocca a noi adulti desiderare ciò di cui ho scritto per ottenere ciò che diciamo debba invece provenire dai giovani. E a noi adulti non resta che abbandonare le nostre teorie che giustificano l’esclusione. È questa la risposta alle preoccupazioni che manifesta nell’articolo che segue GABRIELE SEGRE direttore fondazione Vittorio Don Sagre e di ciò che dissero nel 2016 Massimo Cacciari e Paolo Prodi che avvisavano del pericolo di un «occidente senza utopie>>

Buona riflessione

GRAND'ANGOLO
Con sempre meno giovani la politica perde la spinta verso l'utopia
Nei prossimi tre decenni la fascia di popolazione 15-64 anni potrebbe scendere da 37,7 milioni a 28,9 milioni, secondo le proiezioni dell’ISTAT
GABRIELE SEGRE direttore fondazione Vittorio Don Sagre
Le singole scelte politiche possono cambiare, ma nelle ultime leggi di bilancio le misure che riguardano i giovani sembrano sempre più simili a quelle del Wwf per la salvaguardia delle specie protette. Si cerca di preservarne l'habitat, ovvero il loro potere d'acquisto, li si mette in condizioni di trovare le risorse minacciate da altre specie con le misure sul lavoro e se ne incentiva la riproduzione con bonus per la famiglia. L'allarme estinzione è in realtà suonato da un pezzo: la fotografia scattata dall’ISTAT pochi giorni fa non lascia dubbi sul nostro inverno demograficao.
Nei prossimi tre decenni la fascia di popolazione 15-64 anni potrebbe scendere da 37,7 milioni a 28,9 milioni. Significa circa un milione di persone in meno tra i 15 e i 34 anni. che va ad accompagnarsi al fenomeno egualmente preoccupante dell'emigrazione negli ultimi anni 1,8 milioni di italiani nella stessa fascia di età ha lasciato il paese alla ricerca di lavori più remunerati per il proprio titolo di studio. Se ipoteticamente questa tendenza dovesse continuare potrebbero essere altri 6 milioni da qui al 2052. Ovvio che i governi varino politiche di assistenzialismo per chi vuole rimanere sono gli ultimi panda. A preoccuparci dovrebbe essere la perdita non solo di milioni di competenze, contribuenti, e forza lavoro, ma anche della soggettività politica dei giovani, un bene molto più prezioso per chi ha per le mani un paese. È un vuoto che va oltre quello anagrafico, lo sforzo progettuale con cui la politica rende concreto il progresso di una società viene impostato in assenza di una specifica fascia della popolazione. Proprio quella che dovrebbe esserne più interessata. Per colmare questa mancanza avere leader under 50 non basta se questi devono rispondere a un elettorato con lo sguardo inevitabilmente costretto dall'esperienza del passato o, al massimo dall'urgenza dell'oggi.
Immaginare i giovani in modo 'tradizionale" potrebbe rivelarsi distantissimo da come i Millennial rappresentano sé stessi e ancora più alieno dalla GenZ arrivata alla maggiore età. Così, non disponendo della loro voce e delle loro visioni, la progettualità politica potrà fare per loro le due sole scelte che conosce: mantenere quanto già esiste o cercare di migliorarlo.
Senza idee il vuoto che non potrà riempire è quello delle idee nuove che i giovani porterebbero nel dibattito politico insieme a quell'energia rivoluzionaria, sognatrice, talvolta ingenua e incoerente ma non per questo meno vitale che permette la costruzione di un nuovo immaginario collettivo. Il vuoto sono, appunto, le loro utopie. Già nel 2016 Massimo Cacciari e Paolo Prodi avvisavano del pericolo di un «occidente senza utopie', spiegando che queste non sono profetiche fantasie deliberate ma l'immaginazione di qualcosa di nuovo e realistico che viene volontariamente costruito a partire dall'esistente. La politica che non riesce più a offrire utopie è semplicemente una politica che non è più in grado di offrire cambiamenti.
Qualcosa di molto rischioso nella grave crisi sociale, politica e culturale in cui è precipitato il nostro mondo occidentale. Senza le utopie siamo disarmati di fronte alle sfide globali e interconnesse di oggi che fatichiamo a capire, e ancor meno a risolvere con gli strumenti del passato. Lo stesso avanzamento tecnologico è così proiettato verso il futuro che nessuno riesce a immaginare lo stravolgimento che potrà causare alla vita sociale come la conosciamo. Ci potrebbe riuscire, forse, quella generazione che immagina la potenza di questo cambiamento fin dalla nascita. Solo loro potrebbero essere in grado di governarlo con soluzioni a noi oggi inconcepibili e compito urgente della politica è di chiedergli aiuto trasformandoli nuovamente in soggetti attivi. Possibilmente prima di scoprire che se ne sono già andati via tutti
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