Per Natale, a casa mia, siamo una folla immensa.
Per Natale, a casa mia, siamo una folla immensa.
Folla di voci che non si spegne, che risuona nei corridoi del tempo. Scorribande nell’Oceano mare di Internet, tra sunetti, ricette, ricordi. Tra pittule dorate e purceddruzzi immersi nel miele, tra presepi che custodiscono la loro storia e Re Magi che viaggiano da sempre verso l’infinito.
Ma oggi, 15 dicembre 2024, cos’è per me il Natale?
Già.
Questi dieci giorni che ci separano dal 25, dal giorno che chiamiamo fatidico, non sono solo attesa. Sono come una mano che afferra il passato e lo porta qui, nel momento esatto in cui scrivo.
Sessantasette anni di ricordi, e lo dico sottovoce, mica è uno scherzo.
E dei primi anni, cosa rimane?
Rimangono quei visi di bambini che, nei primi dieci Natali, giocavano sotto lo stesso soffitto. Noi cugini e cugine, che con le nostre risate riempivamo la stanza dell’ingresso. Una stanza che, nella casa della nonna Maria a Lequile, diventava il teatro delle nostre tombole, delle nostre piccole grandi vite che stavano crescendo.
Non ci siamo più tutti. Alcuni cugini se ne sono andati, e la loro mancanza è una fessura nel cuore. Ma quel mondo, anche ad occhi aperti, è ancora qui. È negli odori, nei sapori, nei colori che mi passano davanti mentre scrivo.
Rivedo la voce della nonna Maria: stridula, autorevole, regina incontrastata della casa. Lei che ci diceva di non fare chiasso, mentre le mamme e le zie la guardavano con una deferenza che raccontava tutto, senza parlare. Lei, dispensatrice di monete da 100 lire, allegra e circondata da vicine che forse amava più delle sue stesse figlie.
I nonni di San Cesario, Memmi e Petruzzu, erano diversi. Meno chiassosi, più intimi. Per loro le feste erano i pranzi: lu baccalà frittu che il nonno adorava e li gnocculi preparati dalla nonna. I loro Natali avevano il sapore della casa stretta, quella dove pochi bastano a tutto.
Oggi, che non ci sono più né nonni né genitori, mi rendo conto che Natale è soprattutto assenza.
Manca papà con il suo panettone Alemagna da un chilo e mezzo. Manca mamma con i suoi purceddruzzi alla leccese, fatti come un rito, come se quella via dei Sepolcri Messapici dove era cresciuta fosse ancora lì, nella cucina di casa nostra.
Manca l’albero di Natale con le sue lampadine che mio padre aggiustava chiamando ogni anno il suo amico Vittorio, per quella serie che smetteva di funzionare se anche solo una luce si spegneva. Manca la grotta, con il Bambinello che compariva solo la notte di Natale.
Manca il disco che friggeva cantando “Tu scendi dalle stelle”, le stelle luminose alle finestre, la tovaglia con le letterine nascoste sotto.
Eppure, dentro di me, tutto questo c’è.
Ogni assenza è piena di memoria. È come se ogni ricordo fosse una luce che non si spegne mai, un riverbero di emozioni che rinasce ogni volta. Mi guardo intorno e sento la folla dei miei antenati. Sento che sono tutti qui, in un continuo andare e venire che attraversa il tempo.
Noi siamo la memoria vivente di chi è venuto prima di noi. E, allo stesso tempo, siamo il seme di quella memoria che germoglierà nei nostri figli. Ogni Natale è un nuovo inizio e un ritorno. È un cerchio che si chiude per riaprirsi ancora.
Rinascono tutti con me: nonni, genitori, cugini. Rinascono nelle storie che mi porto dentro, nei gesti che ripeto senza accorgermene. E attraverso di me vivono anche nel cuore di mia figlia, nei Natali che per lei sono ancora un mistero da scoprire.
Siamo una folla, in questo Natale. Una folla che parte dal primo antenato e arriva a noi, un passo dopo l’altro, in una marcia infinita.
E allora, che sia Natale.
Un Natale fatto di riflessioni, di ricordi, di assenze che non fanno male, perché raccontano chi siamo stati e chi saremo.
Buona riflessione, buona vita, buon Natale.
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