Con la cultura della competizione c'è poco da fare




Ho letto questo articolo sul numero 7 di Left del 14 febbraio. Formula la proposta dell'applicazione dell'articolo 49 della nostra Costituzione che non ha trovato applicazione perchè le persone hanno deciso di conservare la cultura della competizione. E' mia opinione che le considerazioni di Luigi Ferrajoli rivolte alle sardine e alla Sinistra possano trovare accoglienza solo se le persone di questi movimenti o partiti decideranno di abbandonare la cultura della competizione.

Antonio Bruno Ferro

Americo Pepe Mi vengono in mente le parole del professore di analisi matematica durante le sue lezioni.
"La dimostrazione di questo teorema è talmente banale che, per non offendere le loro intelligenze, la ometto".
Sono veramente meravigliato che sia necessario un discorso così lungo per dimostrare l'incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche, specialmente di governo.
È una banalità sottolineare che, per definizione, il segretario di un partito agisce in nome di una parte (il partito) mentre un rappresentante del governo deve agire in nome del popolo italiano.
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Americo Pepe ma la Costituzione prevede un Paese unito. Invece qui, subito dopo il primo dopo guerra, chi vince si prende tutto ed esclude tutti gli altri che devono diventare sottomessi e ubbidienti. IL POTERE che la fa da padrone. Ma è una questione squisitamente culturale ed è la cultura della competizione quella che viene praticata e genera tutto questo che fondamentalmente costituisce una serie di comportamenti NON UMANI.
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Americo PepeAttivo/a ora
Americo Pepe Antonio, un ministro nell'assumere l'incarico giura di agire nel nome del popolo italiano.
Nel momento in cui, a spese del popolo italiano, scorta compresa, va a fare un comizio di partito, diventa uno spergiuro, mi sembra elementare.
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Caro Americo Pepe ciò è di una chiarezza sconvolgente oltre che di una semplicità disarmante. Ma con altrettanta semplicità sappiamo tutti che C'E' IPOCRISIA SE NON ADDIRITTURA FINZIONE DA PARTE DI QUELLI CHE DICONO DI ESSERE DI SINISTRA CHE ESERCITANO IL POTERE COME DOMINIO, al contrario di quelli che dicono di essere di destra che SPUDORATAMENTE ESERCITANO IL POTERE COME DOMINIO ASSOLUTO PRETENDENDO SOTTOMISSIONE E UBBIDIENZA. Ma anche quelli che dicono di essere di sinistra fanno altrettanto solo che lo celano sotto la foglia di fico della FINZIONE DI ESSERE UGUALI A TUTTI GLI ALTRI.
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Americo PepeAttivo/a ora
Americo Pepe Caro Antonio, l'esercizio del potere li accomuna tutti e non è sradicabile da quando tutti hanno compreso ed adottato il sistema spartitorio.
Lottano per la quantità, sapendo che la soglia "minima" di esercizio è garantita per tutti.
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Caro Americo Pepe sia chiaro che io ritengo legittima e degna di rispetto la cultura della competizione e la guerra per la conquista del potere che ne consegue al fine di provare il piacere di essere serviti. Ma avendo deciso di lasciarmela cadere dalle mani ho desiderato di conservare la cultura della collaborazione che è emersa e che prevede la collaborazione nella gestione dei beni comuni per il solo piacere di collaborare alla gestione dei beni comuni.
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Americo Pepe invece per quanto riguarda la soglia "minima" di esercizio garantita per tutti, (scrivo da osservatore naturalmente), la penuria di premi da elargire, con il conseguente piacere di essere servito a compenso dell'elargitore PERSONA CHE HA IL POTERE, non la rende praticabile.
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Americo PepeAttivo/a ora
Americo Pepe Attendiamo le prossime "nomine"
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Antonio Bruno
Antonio Bruno C'è stato chi ha detto che per quanto riguarda chi compete per conquistare il potere "UNO VALE L'ALTRO"

Americo Pepe Su questo non sono d'accordo, chi perde una competizione "vale" meno di chi vince, senza voler dire che chi vince "vale" di più degli altri in quanto molti non partecipano.
Poi bisognerebbe chiarire con quali parametri si valuta il "valere"
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Preciso che ciò che ho scritto è stato detto ed è esclusivamente riferito alle persone che competono per la conquista del potere. Poichè i comportamenti delle persone che risulteranno i vincitori, saranno quelli che corrispondono a diverse gradazioni di dominio con conseguenti diverse gradazioni di sottomissione, risultando immutati i comportamenti di dominio e sottomissione UNO VALE L'ALTRO penso possa starci tutto.
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Americo Pepe
Americo Pepe Mi sembra alquanto farragginoso, tenuto conto che poi di sottomessi ci sono solo quelli che non partecipano al gioco e la sottomissione è relativa al gioco (soprattutto di parole).
In pratica invece tutti collaboriamo a mantenere questo stato di cose che premia alternativamente chi ha meno demeriti percepiti.

Antonio Bruno 
Americo Pepe in questa cultura della competizione il FARO che informa tutto quello che si fa, i VALORI DI RIFERIMENTO in tutto quello che le persone fanno sono IL SUCCESSO E LA RICCHEZZA. In questa scala valoriale merita di più chi ottiene più successo e ricchezza. Chi ha questi valori lo sa e, per invidia, afferma che quell'uomo di potere "NON HA MERITI" eppure ha ottenuto successo e ricchezza. SI TRATTA SOLO DI BANALE INVIDIA.

Americo Pepe Antonio, stabilire meriti è complicato, osservare i demeriti è più semplice.
Personalmente il successo e la richezza non li ritengo valori assoluti.
Per essere considerati valori (relativi) dovrebbero derivare da prestazione di attività di valore.
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Antonio Bruno
Antonio Bruno Americo Pepe sono valori ASSOLUTI per tutti. Nessuno si preoccupa di chiedersi cosa accadrà, se farà ciò che desidera fare, alle altre persone, all'ambiente e al Paesaggio perchè il successo e la ricchezza sono VALORI ASSOLUTI CHE HANNO L'EFFETTO DI DERESPONSABILIZZARE CHI E' INFORMATO DA QUESTI VALORI. Basta pensare alle industrie, alla gestione dei rifiuti, alla gestione del paesaggio rurale e potrei continuare così elencando tutti gli aspetti della nostra vita.





Una riforma dei partiti
in nome della Costituzione
Il sistema della democrazia rappresentativa in Italia è in crisi da anni. C’è una possibilità:
ridare linfa vitale ai partiti attuando l’articolo 49 della Carta. Ecco la proposta avanzata
dal giurista Luigi Ferrajoli: l’incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche
di Luigi Ferrajoli

C’è un principio costituzionale la cui mancata
attuazione è in gran parte responsabile della
crisi della democrazia rappresentativa nel
nostro Paese: il principio, stabilito dall’articolo
49 della Costituzione, secondo il quale
i partiti sono le libere associazioni nelle quali «i cittadini
hanno diritto di concorrere con metodo democratico
a determinare la politica nazionale». Questo
articolo non dice soltanto che i partiti sono i tramiti
della mediazione rappresentativa tra istituzioni e società.
Afferma ed impone molto di più. Stabilisce che
i partiti sono i luoghi nei quali i cittadini concorrono essi stessi a determinare la politica nazionale. Secondo
il ruolo disegnato dalla Costituzione, i partiti sono
dunque - o meglio, dovrebbero essere - organi della
società, deputati a organizzare, nella società, la rappresentanza
politica: soggetti, in breve, rappresentati
e non rappresentanti.
Questo radicamento sociale è stato un tratto distintivo
dei partiti di massa della prima Repubblica, che
pure non erano certo modelli di democrazia. Oggi
quel radicamento è svanito. I partiti si sono, di fatto,
statalizzati, identificandosi con il ceto politico eletto
o che aspira a farsi eleggere nelle istituzioni rappre- sentative. Si sono trasformati, di fatto, in appendici
dei loro capi, dai quali i cosiddetti “eletti” vengono
in realtà selezionati; mentre i cittadini, anziché «concorrere
a determinare la politica nazionale», sono ridotti
a innocui spettatori che possono solo scegliere la
formazione meno penosa offerta dallo spettacolo della
politica. Per questo i partiti sono diventati le istituzioni
più screditate.
Senza partiti tuttavia, come scrisse Hans Kelsen un
secolo fa, la democrazia non può funzionare: l’ostilità
ai partiti, egli aggiunse, equivale all’ostilità alla democrazia.
Il futuro della democrazia dipende perciò da
una riforma che dia attuazione al nostro articolo 49.
Ebbene, una simile riforma non può che muovere dal
riconoscimento di un’ovvietà: intanto i partiti possono
svolgere il loro ruolo di indirizzo politico e di controllo
sugli eletti nelle istituzioni, in quanto siano da
questi distinti e separati, non gestiscano direttamente
la cosa pubblica ma siano i luoghi nei quali si forma la
volontà dei rappresentati e viene fatta valere la responsabilità
dei rappresentanti. La garanzia di questo ruolo
dovrebbe quindi consistere, oltre che in un sistema di
regole di democrazia interna, nell’incompatibilità tra
cariche di partito e cariche pubbliche.
Ovviamente separazione non vuol dire separatezza. I
dirigenti dei partiti sarebbero comunque
destinati ad essere eletti
nelle istituzioni rappresentative.
Ma in tal caso dovrebbero lasciare
le loro cariche di partito ad altre
persone, chiamate ad orientarli e
a controllarli. Solo così si garantirebbe
un presupposto essenziale sia
della rappresentanza che della responsabilità
politica: la distinzione
e l’alterità dei rappresentati rispetto
ai rappresentanti, dei controllori rispetto ai controllati,
delle istanze e delle indicazioni dal basso rispetto ai
poteri istituzionali deputati a rappresentarli. Ne risulterebbe
favorito il radicamento sociale dei partiti e ne
sarebbero impedite e frustrate le attuali inclinazioni e
tentazioni populiste. Ne verrebbe ridotta l’attuale distanza
o peggio la contrapposizione con i movimenti,
ai quali i partiti finirebbero per assomigliare. Ne conseguirebbe
un più facile e fisiologico ricambio, oltre
che una migliore selezione, dei loro gruppi dirigenti e
dell’intero ceto politico. Venuti meno i conflitti di interesse
che si manifestano nelle auto-candidature dei
dirigenti e nella cooptazione dei candidati sulla base
della loro fedeltà a quanti li hanno designati, i partiti
recupererebbero, grazie alla loro collocazione interamente
nella società, legittimazione politica, autorevolezza
e capacità di aggregazione nonché di controllo e
responsabilizzazione degli eletti.
Solo ponendo fine all’occupazione partitica delle istituzioni
i partiti possono insomma essere restituiti al
loro ruolo di organi della società: quali partiti sociali,
parti della società, rappresentati e non rappresentanti,
organi non dello Stato ma dei cittadini che essi hanno
il compito di organizzare perché possano «concorrere
a determinare la politica nazionale». Grazie all’incompatibilità
tra cariche di partito e cariche istituzionali,
i partiti verrebbero a configurarsi, al pari dei movimenti,
come forze sociali oltre che politiche, deputate
a disegnare le grandi opzioni politiche, a formulare i
programmi, a formare le liste dei candidati, a organizzare
le elezioni, ad esercitare un controllo esterno
e dal basso sui rappresentanti eletti e a chiamarli a
rispondere del loro operato. La loro autonomia e separazione
dalle pubbliche istituzioni ne farebbero gli
effettivi titolari del potere di indirizzo politico e perciò
un essenziale contrappeso democratico ai poteri di
governo. Ne seguirebbero una rilegittimazione e un
rafforzamento, oltre che dei partiti, delle istituzioni
rappresentative, e perciò una riabilitazione del ruolo
di governo della politica nei confronti dell’economia,
a tutela del lavoro e dei diritti fondamentali
delle persone.
Infine, solo se interamente radicati
nella società i partiti sarebbero in
grado di selezionare ed eleggere rappresentanti
dotati di competenze e di
virtù politiche. Uno degli aspetti più
gravi della crisi della democrazia è
oggi il crollo della qualità della classe
politica, formata per cooptazione dei
peggiori sulla base della loro fedeltà
ai capi, indipendentemente dalla loro incompetenza e
dalla loro immoralità.
La separazione tra rappresentanti e rappresentati consentirebbe
la selezione disinteressata dei primi da parte
dei secondi sulla base della loro conoscenza diretta.
E costituirebbe il principale antidoto, ben più dello
spauracchio penale, contro quel cancro della democrazia
che è la corruzione, la quale è dovuta principalmente
all’assenza di un effettivo controllo dal basso
degli eletti, quale solo può provenire dal loro senso
di responsabilità e di vergogna di fronte a quanti li
hanno scelti e candidati alle funzioni rappresentative.
Aggiungo che la corruzione, avendo alimentato l’anti-
politica, è stata anche, paradossalmente, uno dei
fattori della riduzione del finanziamento pubblico dei partiti, che al contrario è essenziale, quale alternativa
ai grossi finanziamenti privati, se vogliamo che alle
elezioni i cittadini votino ed eleggano effettivamente
i candidati e non, di fatto, i loro finanziatori, palesi o
peggio occulti.
So bene che questa proposta dell’incompatibilità, che
ho avanzato da anni, non sarà mai accolta dagli attuali
partiti, i cui dirigenti sono i principali beneficiari della
loro attuale degenerazione. Il principio della separazione
tra partiti e pubbliche istituzioni è tuttavia, a mio
parere, una tesi elementare di teoria della democrazia:
un banale aggiornamento del vecchio principio della
separazione dei poteri di Montesquieu, che certamente
non poteva essere formulato 270 anni fa, quando


non esistevano né partiti né democrazia rappresentativa.
Se quindi è del tutto inverosimile che esso venga
accolto da una legge di attuazione dell’articolo 49,
ben potrebbero adottarlo nuove forze politiche sulla
base della loro autonomia statutaria. Se fosse adottato
dai partitini rissosi alla sinistra del Pd, ne seguirebbe
la formazione di un partito sociale dotato di ben altra
credibilità e capacità di attrazione. Se l’adottassero le
sardine, mantenendo il loro carattere di movimento
ma organizzandosi sul territorio interamente fuori
dalle istituzioni, selezionando i loro esponenti più capaci
e magari candidandoli alle prossime elezioni, ne
verrebbe un sicuro contributo alla rifondazione sia
della politica che della democrazia.







Il partito personale è nemico della democrazia
Le formazioni politiche italiane, ossessionate dal tema del governo, hanno rinunciato al loro ruolo di rappresentanza reale dei cittadini subendo una mutazione genetica
di Giovanni Russo Spena
Condividendo completamente la proposta - e
le motivazioni - che Luigi Ferrajoli illustra
in questo stesso numero, annoto solo alcune
osservazioni complementari. Scrive giustamente
il politologo Michele Prospero:
«Trent’anni dopo il crollo del Muro abbiamo la fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo... Alla rimozione dello scontro di classe è subentrata la tecnica che spoliticizza la contesa con la chiacchiera». Alla contraddizione capitale/lavoro, anzi capitale/vita, si è sostituito lo schema binario “basso contro alto”.
Le socialdemocrazie vengono percepite, ingabbiate
come sono dentro le politiche dell’Unione europea,
come rappresentanti dei poteri economici e finanziari.
Le ribellioni, che esistono e si diffondono sotto forma di rivolte, si proiettano nel vuoto disperante della
rappresentanza. Per rifondare l’idea stessa del partito,
quindi, occorre riscoprire, sul piano costituzionale, la
aurea semplicità delle regole della rappresentanza.
Sono sempre più convinto che l’ossessione - confindustriale
e veltroniana - della governabilità, della
cosiddetta “democrazia governante”, con l’assoluta
prevalenza (non solo a livello nazionale, ma anche regionale
e comunale) e assolutizzazione del tema del
governo, ha svuotato i fondamenti della democrazia
costituzionale e, quindi, ha distorto e messo in crisi
la concezione della rappresentanza. Questo contesto
ha certamente contribuito a mettere in crisi i partiti
come strutture costituzionali, come architravi della
mediazione tra società e statualità.
La centralità del Parlamento è sempre più flebile. Il Parlamento è considerato un inutile e costoso orpello.
I partiti diventano altro rispetto al preciso disegno
dell’articolo 49 della Costituzione, subiscono una
mutazione genetica. Assistiamo a squallidi cortocircuiti:
partiti personali, partiti griffati, coagulo di interessi
individuali. Partiti senz’anima, sostituita dal faccione
esibito del capo assoluto. Il leader si presenta ad
un “pubblico di spettatori”; non elabora programmi.
Parla alla pancia degli spettatori e ne assimila e rappresenta
vizi, rancori, debolezze. “Votatemi, perché
i contenuti si condensano nel mio essere, nella mia
stessa persona”.
Penso anche che sia una torsione
plebiscitaria individuare le primarie
come fonti di democrazia diretta,
mentre è solo ulteriore cattura
della delega separata. È opportuno
richiamare la splendida sintesi
dell’articolo 49 della Costituzione:
«Tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti
per concorrere con metodo democratico
a determinare la politica nazionale». L’art. 49
è l’esatto contrario della instant democracy della piattaforma
Rousseau, incapace di costruire un progetto
politico ed un percorso democratico, come dimostra,
in questi giorni, la crisi di decomposizione del M5s.
Il cui unico appiglio identitario è, ora, il disperato
affannarsi sui temi del giustizialismo populista (che
è, appunto, la chiacchiera per fuorviare e distorcere
il senso comune dalla ineludibilità del conflitto di
classe). Siamo, temo, al vero punto critico: rischia di fallire, sotto la spinta possente della mondializzazione liberista dell’economia, il progetto stesso del costituzionalismo del ventesimo secolo. Come si ricostruisce il costituzionalismo nell’età della crisi della globalizzazione, laddove la concentrazione del potere fuori dai confini storici degli Stati si intreccia, non a caso, con forme crescenti di sovranismo nazionalista?
Il costituzionalismo, come ci insegna il grande costituzionalista
Gianni Ferrara, è un prodotto storico.
Sarà, quindi, la storia, nel suo divenire, a disegnarlo
e «la libertà e l’eguaglianza si imporranno come esigenze
sempre più ineludibili».
Dobbiamo ricercare e lavorare.
La mia opinione, infatti, è che
il movimento operaio e popolare
continui ad avere necessità
- anzi, la ha ogni giorno di
più - di associarsi ed organizzarsi
contro il capitale. Operazione
di radicale innovazione.
Pari, per complessità storica,
all’esperienza storica (purtroppo
breve) della Comune di Parigi. Di fronte ad un
capitale sempre più pervasivo, centralizzato nel comando
eppure flessibile nel sistema produttivo, che
mercifica tempi, spazi, vite, penso ad un partito forte
nella visione del mondo, nel sistema dei valori,
nell’inchiesta sociale, ma flessibile nella capacità di
costruire anche le strutture intermedie associative, i
luoghi di autogestione e di contro-potere.
Una costruzione policentrica che è anche una prefigurazione
di una società che esalti la democratizzazione della vita quotidiana. La costruzione della soggettività
politica vive nella continua ricerca del rapporto tra
condizione materiale e coscienza. Ricerca e sperimentazione
ruotano, a mio modesto avviso, intorno ad un
sistema a rete che esalti l’orizzontalità, la confederalità
dal basso, il mutualismo. Le tradizionali sezioni dei
partiti di sinistra dovrebbero trasformarsi in case del
popolo, in sportelli che forniscano servizi, consigli,
strutture per migranti, detenuti, senza case.
Pino Ferraris, studioso raffinato ed innovativo della
storia del movimento operaio, da me molto amato,
poco prima di morire scrisse sul tema del “partito sociale”,
proponendo «una confederazione politica delle
iniziative sociali», che così descrive: «Assieme al conflitto,
dopo lunga eclissi, riemergono le solidarietà, il
far da sé cooperativo, la pratica dell’obiettivo. Si va
oltre il movimentismo, ci si avvicina alla richiesta di
un’altra forma di espressione della società politica».
Partito costituzionale (art. 49 della Costituzione) e
partito sociale insieme: mi sembra questa la traccia.

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