I beni comuni sono di proprietà di tutti



Antonio Rizzo è un mio compagno delle scuole elementari che qualche anno fa, aveva ricevuto l’incarico da un suo zio di vendere un terreno che è nei dintorni del mio paese.
Andammo a vederlo. Indubbiamente il terreno era bello, e siccome non riuscivo a vedere i confini, Antonio me li descrisse prendendo dei punti di riferimento che mi indicò. Mi disse che la proprietà arrivava sino all’albero di cipresso e poi continuava confinando con la strada sino all’albero di mandorlo, per poi costeggiare il filare di olivi e infine per giungere sino a dove eravamo fermi noi.
Finita la descrizione che fu una vera e propria perimetrazione, mi disse una cosa illuminante che mi chiarì cosa fosse la proprietà privata: “naturalmente la prima spesa che dovresti fare è quella della realizzazione di un muro di recinzione, perché questo terreno, sino a quando non lo recinterai non sarà mai tuo”.
Quindi il perimetro, il recinto, hanno la funzione di separare ciò che è di qualcuno, da tutto il resto che non lo è.
In questi giorni si parla di ritorno del bipolarismo e di nuovi perimetri che devono includere qualcuno, escludendo altri, per proporsi nella definizione di un progetto di gestione dei beni comuni.
Stavolta non la faccio lunga. Ma scusate se i beni sono comuni, ovvero sono di proprietà di tutte le persone della Comunità Italia, perché mettere recinti o definire perimetri che, come mi chiarì qualche anno fa il mio compagno di scuola Antonio Rizzo, hanno la funzione di distinguere ciò che è di qualcuno da ciò che è di tutti gli altri?
Ho letto il solito schema culturale della competizione in un commento di Massimo Giannini, su “La Repubblica” del 18 gennaio 2020.
Giannini dopo una descrizione con indicazioni su chi se ne deve andare e chi invece deve guidare all’interno del recinto che lo stesso Giannini desidera che si definisca, conclude prendendo atto che non ci sono inclusioni possibili oltre al recinto così faticosamente da lui descritto.
Ma per avvalorare questa sua tesi, si avventura in quello che per lui è un paradosso che invece per me è la soluzione. Infatti così conclude: non serve andare sempre "oltre" la sinistra, come qualcuno ripete da anni. Oltre la sinistra, oggi come ieri, c'è solo la destra.
Ed è questa la soluzione proposta inconsapevolmente dallo stesso Giannini.
Per la gestione dei beni comuni, non c’è alcun bisogno di tracciare perimetri, proprio perché i beni comuni sono di tutti, e quindi non c’è l’esigenza di separare i beni di proprietà di tutti dal resto, perché il resto, molto semplicemente, non c’è.

Antonio Bruno Ferro

Il commento

I confini della sinistra
di Massimo Giannini
Il senso, come al solito, lo coglie la vignetta di Altari di alcuni giorni fa: "Ci apriamo?", chiede il militante sempre un po' disorientato. E l'altro, ancora più esitante: "Orario continuato?". Dalla Bolognina di trentuno anni fa, per la sinistra è sempre "ora di aprirsi". L'ha ribadito ieri anche Bersani, su Repubblica, condividendo la "svolta" annunciata da Zingaretti: «È l'ora di una cosa nuova». Ma quante ore andate perse, in questa transizione infinita? E quante "Cose rosse", sognate e poi buttate via da quando Occhetto ammainò per sempre la bandiera comunista, celebrando con altri trent'anni di ritardo la Bad Godesberg tricolore? Di nuovo, si tratta di "cambiare per non morire". Il segretario del Pd indica una rotta: dopo le regionali, congresso per dare vita a "un nuovo soggetto politico". Non "un nuovo partito, ma un partito nuovo". Aperto "alle persone" e a tutto quello che di nuovo si sta muovendo nella società italiana Non solo ai fuoriusciti della diaspora di questi ultimi anni, ma soprattutto ai movimenti, alle sardine, alla rete dei sindaci, alla galassia ambientalista, e poi al mondo civico, cattolico, e al volontariato. C'è tanta vita, fuori dai palazzi romani. E se al Nazareno finalmente qualcuno se n'è accorto, aprendo porte e finestre e osservando quello che avviene nelle piazze, è solo un bene. Dal premier Conte a Dario Franceschini, da Beppe Sala a Mattia Santori. La quantità e la qualità delle reazioni che la proposta ha innescato è la prova migliore di quanto ci sia bisogno, a sinistra, di costruire una vera casa comune per i progressisti di tutte le provenienze. Ma perché l'ennesima "rivoluzione copernicana" non fallisca, stavolta, bisogna spazzare via tutte le ambiguità. La prima ambiguità riguarda il partito. Se l'obiettivo è davvero quello di costruire una forza di sinistra riformista e di governo, larga e plurale, capace di ricomporre la frattura sentimentale con la sua gente ma al tempo stesso di ampliare i suoi confini ai mondi più lontani della rappresentanza sociale e ambientale. Se l'intenzione è quella non solo di "accogliere", ma addirittura di "fondersi" con i nuovi soggetti che innervano il tessuto sociale e civico e incarnano "l'altra Italia", responsabile ma radicalmente alternativa a quella della destra sfascista e sovranista. Se questo è il sentiero da percorrere, allora Zingaretti deve avere il coraggio di dire con chiarezza una cosa: dopo 6 sconfitte elettorali consecutive e quasi 6 milioni di voti persi negli ultimi dodici anni, il Pd è ormai come la Rivoluzione d'ottobre ai tempi dello strappo di Berlinguer: ha perso la sua spinta propulsiva. Dunque va sciolto, la vecchia "ditta" va chiusa e ne va aperta un'altra, diversa nel nome e nei nomi, nel programma e nell'organigramma. Zingaretti lo sa. Se non lo dice con la brutalità necessaria è perché paventa quello che in parte si è già verificato dopo il suo annuncio: la rivolta delle nomenklature, che temono di perdere poltrone e rendite di posizione accumulate in decenni di onorato servizio. Il nodo vero è questo, e lo indica con la solita lucidità Gianni Cuperlo. Se davvero vuoi rimettere radici nel tuo territorio e poi estendere il perimetro della tua rappresentanza a chi finora hai ignorato, devi fare quello che un ceto politico per definizione ha il terrore di fare: una "concreta cessione di potere". Devi disarmare la "santabarbara di un correntismo interno ormai patetico", ma tragicamente ostinato. Devi lasciare spazio e struttura a chi arriva da un "altrove" che finora hai escluso per spirito di conservazione, per miopia o per snobismo. È il monito di Romano Prodi, padre nobile dell'Ulivo: bisogna tornare al rapporto diretto con la gente e "finirla col partito che diventa un club a uso esclusivo di 10 persone che si parlano e si eleggono a vicenda". Meglio di così non si può dire. La seconda incognita riguarda il governo. Un "nuovo partito", se ha l'ambizione di rinascere sulle ceneri del Pd per andare più lontano, deve riproporsi in prospettiva il recupero di una "vocazione maggioritaria". Questo non vuol dire, qui ed ora, rinunciare a una coalizione necessaria a impedire il ritorno nella stanza dei bottoni di un pericoloso e sgangherato "Papeete al cubo", cioè Salvini-Meloni-Berlusconi. Ma non significa neanche rinunciare a esigere dall'alleato del momento una netta discontinuità rispetto al passato. Bersani ha ragione quando suggerisce al velleitario "Piccolo Centro" di Italia Viva e di Azione il simbolo di un Narciso che si specchia, ma Renzi non ha torto quando osserva che troppo spesso il Pd fa la ruota di scorta dei Cinque Stelle. Dai decreti sicurezza allo ius culturae, dalla giustizia al taglio dei parlamentari, da Quota 100 al reddito di cittadinanza. Su queste e altre nefandezze, condivise a suo tempo con la Lega, la resistenza di Di Maio è comprensibile. La "desistenza" di Zingaretti lo è molto meno. È vero che l'implosione del Movimento (a dispetto dei vaneggiamenti del suo capo politico sulla ridicola "Terza Via") sta invece propiziando il ritorno a uno schema bipolare. Ma gli elettori delusi e in uscita dal grillismo non si recuperano con "l'indistinto democratico", e meno che mai con il cedimento a una "egemonia culturale" inesistente perché mai esistita. La sinistra arretra ovunque. Sparisce in Gran Bretagna e in Francia, tiene in Spagna e in Portogallo. Per un miracolo della Storia, e nonostante le enormi difficoltà, resta ancora centrale in Italia. Per questo le regionali del 26 gennaio sono così importanti. L'Emilia-Romagna è da mezzo secolo la sala macchine del riformismo italiano. Se l'esito del voto lo consentisse, bisognerebbe ripartire da quel modello, vivificato dai movimenti, per ampliare orizzonti e confini. E non serve andare sempre "oltre" la sinistra, come qualcuno ripete da anni. Oltre la sinistra, oggi come ieri, c'è solo la destra. 

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