Il punto di svolta da cui non si sfugge. Scampare dal ‘novismo’ che ci ingabbia.

Alfredo Morganti ha scritto:
Il punto di svolta da cui non si sfugge. Scampare dal ‘novismo’ che ci ingabbia.
Che si sia forse a un punto di svolta, non necessariamente positivo, lo dimostra come nessuno, dico nessuno, attacchi il governo sino al punto da chiederne le dimissioni, se non da pulpiti salviniani. Anche chi ritiene che sia stato un errore solenne del centrosinistra addivenire a un’alleanza (di svolta o meno) con 5stelle, si ferma a un punto (magari non-detto) che recita inconsciamente così: meno male che un governo c’è, e che l’assalto di Salvini ai forni della Repubblica per avere pieni poteri non sia concretamente avvenuto. Anche il più integerrimo alla fin fine, sommessamente, non vede altra via (per ora), e può permettersi di annotare discrasie e contraddizioni deplorevoli in senso all’esecutivo e alle forze che lo compongono, protetto da una rete tessuta comunque da altri.
Quei 23 miliardi di IVA e Salvini alle porte (checché se ne dica) rendono saggi nel profondo, anche se la lingua continua a battere radicalmente dove il dente duole. Ciò non vuol dire che la situazione sia benevola o rassicurante. Anzi. Il sorcio-Renzi continua a rodere ambiziosamente l’ormeggio, le contraddizioni in seno ai partiti principali della coalizione fanno il resto. L’Emilia, ultimo bastione ideale, è alle porte. L’Italia resta un Paese divorato dagli interessi puri (guardate la plastic tax), senza più il contributo di mediazione offerto dalle grandi forze democratiche. Il cosiddetto ‘popolo’ è sciolto da legami, ormai conquistato a una non-politica denominata ‘padroni a casa propria, via i negri’. Un popolo che non si tratta di “riconquistare alla sinistra”, né di riprenderci come se fosse un pacchetto di Amazon. Le cose non stanno affatto in questi termini, perché la questione è più di fondo.
In realtà, il ‘popolo’ andrebbe (ben più radicalmente) ‘riconquistato’ alle istituzioni, che non sono né di destra né di sinistra, ma rappresentano il punto più alto delle democrazia italiana. Andrebbe ‘riconquistato’ a una visione del bene comune, a un senso della collettività, delle relazioni e della ricchezza sociale. Non c’è un ‘popolo’ da tirare per la giacchetta da destra o da sinistra, ma tanti cittadini e tanti lavoratori che dovrebbero tornare a intraprendere la via della democrazia rappresentativa e partecipata: questa sarebbe l’egemonia da perseguire, una egemonia democratica, che riporta in auge nel Paese una sensibilità relazionale, una visione ampia del tessuto civile e della solidarietà sociale che oggi è stata sostituita da una tonalità aggressiva, competitiva, darwiniana, di destra, di cui la formula ‘meno tasse’ è solo l’epifenomeno linguistico.
Senza questo lavoro di fondo, è inutile invocare soluzioni radicali, strane congerie politiche e sociali, alzare il background ideologico. La crescita della sinistra avviene solo se le basi sociali, politiche e istituzionali tengono: è questa la condizione suprema e l’obiettivo finale di forze che vogliano trasformare il Paese, riprendendo il filo bruscamente interrotto nel 1989. Il male della Bolognina non fu, allora, aver ucciso il PCI in quel modo brutale. Il male fu aver impiantato la parola d’ordine del ‘nuovo’ nel seno stesso della nostra cultura politica, persuadendoci che si trattasse di sollevare l’idola della novità e dell’inedito (che inedito non era!) sui nostri vecchi altari per ‘salvare i fenomeni’ (le lotte popolari, la democrazia italiana, le sorti della sinistra) . Ma ciò significava una rottura profonda, completa e spettacolare con tutto quel che era stato prima e non, invece, una ragionevole e ponderata innovazione, in sintonia con le grandi trasformazioni germogliate nel nostro tempo anche tragicamente. Uscire dalla prigionia di questo ‘nuovo’ astrattamente dannoso, rinnegare il novismo che tanti danni ha prodotto nel nostro seno, sarebbe effettivamente il compito culturale attuale e inderogabile. Dico ‘sarebbe’, perché non so se ne saremmo davvero capaci.

Caro Alfredo Morganti ho letto con attenzione ciò che hai scritto. E' la descrizione di ciò che è sotto gli occhi di tutti noi. Quello che consegue è una domanda ovvero: “se desideriamo vivere insieme, cosa vogliamo conservare di ciò che abbiamo nella nostra esistenza sociale?”.
Io posso dire ciò che proporrei di conservare se mi si desse l’opportunità di avere una conversazione finalizzata a redigere un progetto comune.
1. Conservare il diritto allo studio e al libero accesso a qualunque Corso di laurea senza limitazioni con un costo degli studi che fosse finanziato con un prestito d’onore concesso a tutti gli studenti senza distinzione di reddito familiare;
2. Conservare il diritto dei giovani da 18 a 25 anni di ad avere un lavoro che consenta a chi lo desidera di formare una famiglia oppure in alternativa di avere l’autonomia che consenta di vivere da solo;
3. Conservare l’Istruzione, la Sanità, il Paesaggio rurale e naturale, i beni culturali, i Trasporti, l’Energia e le telecomunicazioni come Monopolio dello Stato con assunzione di lavoratori tutti stipendiati.
Una volta che raggiungessimo un accordo su quello che desideriamo conservare, con una modalità di partecipazione libera e volontaria, si aprirebbe l’accesso a chiunque volesse contribuire ai processi decisionali delle istituzioni. Si accetterebbe l’impegno di queste persone a patto che lo stesso sia informato dal rispetto reciproco e dal riconoscimento della legittimità reciproca.
Quello che ho scritto costituisce un orizzonte di senso che potrebbe essere la base aperta all’arricchimento attraverso il contributo di tutti quanti liberamente e volontariamente volessero. Tutto ciò potrebbe essere possibile se abbandonassimo la cultura della competizione in maniera tale da ottenere di vedere emergere spontaneamente quella della collaborazione.
Antonio Bruno Ferro

Alfredo Morganti Apprezzo il tuo invito alla collaborazione, che dovrebbe essere alla base della difesa del bene comune. Aggiungo solo che, se ben regolata, la competizione delle opinioni e delle idee è una forma di collaborazione democratica di cui non possiamo fare a meno.

Antonio Bruno Caro Alfredo Morganti, una volta che decidiamo di abbandonare la cultura della competizione, emerge spontaneamente quella della collaborazione. Non c'è altro modo. Un mio amico afferma che all'interno della competizione le organizzazioni "con cultura della collaborazione e cooperazione" paradassalmente nel libero mercato capitalistico, sono più competitive rispetto a quelle che invece ottengono una produzione di beni o servizi, attraverso una organizzazione interna basata sulla cultura della competizione. Ciò intuitivamente può anche far pensare che la competizione può essere una "buona cosa". Ma basta osservare il fatto che la competizione esclude, per divenire consapevoli che si tratta di una cultura NON UMANA. Ad esempio gli operai dell'Azienda con organizzazione interna competitiva, se perdessero nella competizione del libero mercato del neo liberismo economico, con una Azienda cooperativa e collaborativa, perderebbero tutti il lavoro. La competizione e la meritocrazia ESCLUDE ALCUNE PERSONE, le "fa fuori" dai processi produttivi e, di fatto, gli toglie la vita, LE AMMAZZA ONTOLOGICAMENTE. Io ho osservato questo.

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