“APPARTENIAMO ALLA CULTURA ESCLUSIVA E COMPETITIVA ED È QUESTO CHE DOBBIAMO CAMBIARE”

 

“APPARTENIAMO ALLA CULTURA ESCLUSIVA E COMPETITIVA ED È QUESTO CHE DOBBIAMO CAMBIARE”

Ernesto Galli della Loggia ed Aldo Grasso hanno scritto articoli pubblicati dal quotidiano Corriere della sera oggi 15 ottobre 2023 nei quali hanno descritto le loro osservazioni sulle conversazioni televisive e dei giornali in cui la vera intenzione è quella DI ESCLUDERE GLI ISRAELIANI E LO STATO DI ISRAELE. In pratica negli articoli viene rivelata l’intenzione di chi manifesta e difende Hamas e giustifica il terrorismo Palestinese che secondo Ernesto Galli della Loggia è la seguente:

“Perché con la sua selvaggia se te di sangue questo terrorismo vuole in realtà una cosa sola ed è il perfetto sicario agli ordini di chi si propone anch’esso unicamente un solo obiettivo: la distruzione di Israele, la pura e semplice eliminazione dello Stato ebraico e dei sui abitanti, la cancellazione di entrambi dalla faccia della terra.”

In sintesi noi dobbiamo chiederci se corrisponde alla realtà l’intenzione da parte dei terroristi e di chi li difende, di escludere e discriminare Israele e gli Israeliani.

Per riflettere insieme possiamo rispondere a due domande:

1. Come dobbiamo preoccuparci della discriminazione?

2. Come discriminiamo?

La discriminazione è giustificata in argomentazioni razionali con premesse accettate in base alle emozioni e, pertanto, per capire possiamo chiederci: dove giustifico la discriminazione che faccio di Israele e degli israeliani in base alle emozioni?

Quando parliamo di inclusione, parliamo di discriminazione.

Se vogliamo l’inclusione possiamo chiederci:

Cosa stiamo facendo di discriminante per cui in conseguenza dobbiamo includere?

Nella convivenza, per crescere insieme dobbiamo fare appello al rispetto.

Gli esseri umani si rendono conto e possono riflettere su ciò che è accettato come valido, rendendo possibile vedere la realtà da una prospettiva diversa.

Possiamo scegliere cosa fare e possiamo scegliere la nostra scelta, quindi abbiamo libertà e libero arbitrio e siamo responsabili di ciò che facciamo.

Chi ha letto può rivedere il concetto di amore e società. In questo senso, l’amore è legato al rispetto e allo stesso tempo permette di ampliare la nostra prospettiva, affinché l’altro appaia nella sua legittimità.

Se non c’è amore, non c’è disponibilità ad ascoltarsi, a vedersi e questo è ciò che i bambini imparano e ciò che sperimenteranno quando saranno maggiorenni; perché il futuro dell’umanità non sono i bambini, siamo noi anziani. I bambini si stanno trasformando con noi.

D’altro canto, viviamo in una cultura incentrata sulla competizione e sull’azione degli altri, per questo invito alla convivenza, per ampliare la nostra visione e generare un progetto comune.

Dobbiamo parlare.

A questo proposito segnalo che a San Cesario di Lecce ogni giovedì c’è questa opportunità e che tutti voi potete partecipare contattando Pierluigi Scardino che la coordina.

Se non ci diamo il tempo di convivere, come armonizziamo la nostra convivenza? come arriviamo a capirci? Non viviamo in solitudine, viviamo con gli altri, per questo conversare è essenziale.

Le conversazioni sono una trasformazione nella convivenza, in cui tutti quelli che vi prendono parte si trasformano.

In conclusione la questione non è includere il popolo Israeliano ed il popolo Palestinese, ma è quella di sapere perché escludiamo, cosa facciamo quando escludiamo, che cosa e chi dobbiamo preoccuparci di includere? Noi discriminiamo? Da quali discorsi e da quali emozioni e in quali luoghi discriminiamo?

Possiamo chiederci a questo punto se noi esseri umani siamo discriminatori.

La risposta è no! Non siamo discriminatori.

L'essere umano, come tutti gli esseri viventi, vivrà la sua vita, a seconda delle circostanze che sta vivendo. Ma l'essere umano ha la sua storia che parte dalle sue origini di essere umano che accoglie, che coinvolge, non che esclude.

Ma oggi noi apparteniamo alla cultura esclusiva e competitiva ed è questo che dobbiamo cambiare nella nostra vita attuale, per portarla in questo senso che ho descritto.

Buona riflessione

PADIGLIONE ITALIA di Aldo Grasso
«SÌ, PERÒ». E IL POSTILLATORE AVANZA IN TV
S ì, ma… Nel circo mediati[1]co avanza tracotante una nuova figura, è quella del postillatore. Affronta tutte le discussioni, anche le più drammatiche, come quelle a cui assistiamo in questi gior[1]ni, con un artificio retorico fra i più subdoli: «La Russia ha invaso l’Ucraina ma la Na[1]to...», «Siamo inorriditi di fronte alla barbarie di Hamas, però dobbiamo ricostruire storicamente il motivo per cui è nato Hamas», e così via. Questo è lo schema menta[1]le con cui il postillatore pensa di sbaragliare l’interlocutore usando un grimaldello per appropriarsi impunemente dello spazio del giustificazio[1]nismo, dell’alibi, della «com[1]plessità». È la tecnica usata, tra gli altri, da Michele Santo[1]ro, da Elena Basile, da Moni Ovadia, da Alessandro Orsini. È una fallacia logica conosciu[1]ta col nome di «accumulo di postille», un tipo di argomen[1]tazione per impedire una di[1]scussione corretta. Non si possono giustificare in alcun modo il terrorismo, le mattanze e le carneficine sugli inermi. Non c’è ma che tenga. Chi ha negato le stragi ucraine, Bucha e le altre, è pronto a negare anche Kfar Aza, a colpi di postille. È giu[1]sto riflettere sullo squilibrio fra dittatura teocratica e de[1]mocrazia, sulla striscia «pri[1]gione» di Gaza, senza per questo intossicare il diritto di esistere di Ucraina e di Israele con i ma, i però e tutte le altre avversative da talk show.
SCOMODE VERITÀ
ILTERRORISMO E LO STATO DI ISRAELE SCOMODE VERITÀ DALLA PALESTINA
di Ernesto Galli della Loggia
C’è un solo gruppo di persone più spregevole dei terroristi di ogni risma e colore: sono quelli che qui in Occidente ne prendono più o meno apertamente le parti giustificandone di fatto le imprese sanguinarie. E facendolo sempre più o meno nel solito modo: con il dire che sì, certo, i mezzi adoperati dai terroristi non sono proprio i migliori ma come si fa a non considerare la situazione degli oppressi nel cui nome essi agiscono?
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SEGUE DALLA PRIMA
La loro rabbia, la loro disperazione? E quali altri mezzi hanno i suddetti op[1]pressi se non per l’appunto quelli sia pure molto discutibili del terrorismo? Ora, a parte che c’è terrorismo e ter[1]rorismo — lo capisce chiunque, infatti, che un conto è piazzare una bomba in una stazione di polizia, un altro ben diverso è stuprare una donna o freddare un bambino — a parte que[1]sto, dicevo, ci sono forse un paio di fatti che i fiancheggiatori della causa palestinese senza se e senza ma dovrebbero considerare.
Il primo è di carattere storico: nessuna cam[1]pagna terroristica per quanto feroce essa fosse è mai riuscita non solo a sconfiggere militar[1]mente uno Stato ma neppure a fargli cambiare radicalmente indirizzo politico. Non ci riuscì il terrorismo russo con lo zari[1]smo, non ciriuscì quello dell’Eta contro Franco o quello dei «montoneros» argentini contro la giunta di Videla. Anche per la lotta contro i re[1]gimi coloniali si può dire lo stesso: in Algeria non fu certo il terrorismo urbano a riportare la vittoria, fu la mobilitazione di massa che il Fronte indipendentista riuscì a organizzare — o per dir meglio assai spesso a imporre con mezzi brutali — contro la presenza francese. Per quel che io ricordi esiste un solo caso di au[1]tentico successo del terrorismo: quello irlan[1]dese contro Londra, che portò giusto un secolo fa alla nascita dell’Eire. Ma a parte il fatto che i militanti dell’Ira erano soliti prendere quasi sempre di mira esclusivamente la polizia e i militari britannici, va sottolineata un’altra cir[1]costanza decisiva: e cioè che fin dalla metà del[1]l’Ottocento la questione dell’indipendenza ir[1]landese agitava l’opinione pubblica inglese fi[1]nendo per raccogliere non pochi consensi per[1]fino tra le file dell’amministrazione di Londra nella stessa Irlanda. Non mi pare proprio che qualcosa simile possa dirsi a proposito del ter[1]rorismo palestinese. In realtà coloro che qui da noi giustificano in qualche modo le azioni sanguinarie di Hamas trovandovi delle «ragioni» (ma nella storia ogni efferatezza può vantare delle «ragioni»: dai roghi delle streghe agli omicidi di massa ordinati da Stalin) dovrebbero comunque por[1]si una domanda: a che cosa mira quel terrori[1]smo, qual è il suo obiettivo, il suo fine politico? Questo è il punto cruciale, dal momento che sta precisamente nell’impossibilità di dare a tale domanda una risposta minimamente plausibile e ragionevole che l’impresa di Ha[1]mas rivela la sua essenza vera: la barbarica vo[1]lontà di strage, della strage più feroce possibile e fine a se stessa che la anima. Nessuna persona sana di mente, infatti, può pensare di sconfiggere militarmente con il ter[1]rorismo lo Stato ebraico. Tanto meno di por[1]tarlo a fare qualunque concessione, ad esem[1]pio dividendo la sua opinione pubblica. È più che naturale anzi che il terrorismo — non par[1]liamo poi di quello che abbiamo visto all’opera il 7 ottobre — produca solo l’effetto opposto. Anche perciò resta una sola conclusione: in re[1]altà l’obiettivo che si propone il terrorismo di Hamas non è altro che quello di eccitare allo spasimo in senso ancor più antagonistico con[1]tro Israele tutta la massa arabo-islamica, dal[1]l’Asia centrale all’Atlantico, e — dando per scontata la dura reazione della stessa Israele — di vanificare qualunque tentativo di stabilire un minimo di relazioni pacifiche tra lo Stato ebraico e qualunque Stato islamico, nonché naturalmente lo scopo di rendere impossibile qualunque soluzione del contenzioso israelo[1]palestinese. Si perpetua così la maledizione che da sem[1]pre grava sul movimento palestinese: la sua in[1]capacità, tranne qualche brevissimo ripensa[1]mento, di concepire nessun altro strumento di lotta che non sia la violenza. E di conseguenza, dietro la faccia feroce, la sua intima fragilità politica, il suo perpetuo cedimento al ricatto dell’estremismo, quindi la sua oggettiva dispo[1]nibilità a divenire facile strumento di qualun[1]que Stato che per i propri scopi abbia interesse ad alimentare la tensione nella regione. Nep[1]pure un secolo di continui, sanguinosi falli[1]menti a causa della permanente disparità delle forze in campo sembra aver insegnato nulla ai palestinesi circa l’inutilità di una simile strada. Circa la necessità di avere alla propria testa una vera leadership all’altezza della situazione, non già una congrega di politicanti corrotti com’è la cosiddetta Autorità Palestinese, ovvero una qualche banda di tagliagola prezzolata da Teheran o dal Qatar. La verità, insomma, è che l’aspirazione dei palestinesi a una patria, le misere condizioni dell’esistenza a Gaza o l’inconsulto amplia[1]mento degli insediamenti ebraici, insomma la «questione palestinese» nei suoi termini reali, non c’entrano assolutamente nulla con il terro[1]rismo di Hamas.
Perché con la sua selvaggia se[1]te di sangue questo terrorismo vuole in realtà una cosa sola ed è il perfetto sicario agli ordini di chi si propone anch’esso unicamente un so[1]lo obiettivo: la distruzione di Israele, la pura e semplice eliminazione dello Stato ebraico e dei sui abitanti, la cancellazione di entrambi dalla faccia della terra.
E chi qui in Italia cerca di tro[1]vare qualche motivo non spregevole alle azioni di Hamas, chi oggi è pronto a stracciarsi le vesti di fronte alla reazione israeliana, deve sapere che in realtà anche lui, ne sia cosciente o no, si prefigge la medesima cosa.

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