Perché aspettare la vecchiaia per essere sé stessi e fare ciò che vogliamo fare?

 

Perché aspettare la vecchiaia per essere sé stessi e fare ciò che vogliamo fare?

Come faccio a non essere d’accordo con Antonio ERRICO che termina così il suo bellissimo articolo sulla competizione per superare chi ha fatto un risultato con un altro risultato pubblicato da QUOTIDIANO di Puglia oggi 8 ottobre 2023:

“Non si è campioni quando si vince. Si è campioni se si resta se stessi quando non si può vincere più. Se si comprende che il traguardo più ambizioso, quello che ti consegna un incomparabile trofeo, è la luce del giorno che arriva. Tutto il resto è vanità che non serve. Però, quando si capisce questo, si smette di essere campioni soltanto per diventare grandi campioni.”

Vincere! E vinceremo! Inutile negarlo è il motto di tutti, perché la nostra cultura patriarcale della competizione considera solo CHI VINCE! Non importa come, non importa perché e non importa nemmeno quando e a che costo, BASTA VINCERE! Chi perde VIENE DIMENTICATO!

Nel mio paesello bello, l’anno scorso per SOLO 13 VOTI un cittadino è diventato Sindaco. Quello che ha preso 13 voti in meno giace dimenticato così come dimenticato è il terzo classificato. Si deve vincere, non importa come. La squadra che vince non importa che giochi bene, certo se gioca anche bene è meglio, ma se gioca bene senza vincere ecco che quella squadra VIENE DIMENTICATA perché ci si rIcorda solo di chi vince.

I libri di storia che ho letto dalla terza elementare erano il report dei vincitori di guerre. Una guerra dopo l’altra fatta di vincitori e vinti. Ho rivisto il film Le Crociate di Ridley Scott, la vita o la morte della protagonista era appesa al risultato di un duello perché DIO FA VINCERE CHI HA RAGIONE.

Ma quando mai?

Gli indiani d’America massacrati dai coloni europei che torto avevano?

E allora la domanda è: “La competizione è sana?”

La risposta è: LA COMPETIZIONE NON E’ UMANA!

E se mi chiedi: “Tutte le competizioni non sono umane?”

La risposta è: TUTTE LE COMPETIZIONI NON SONO UMANE.

Ecco perché siamo così concentrati nella logica di imporre le nostre idee. Perché viviamo in una cultura della competizione, del desiderio di vincere, del progresso, del successo, della competizione.

Ma la cosa che vi invito ad osservare, anzi che vi invito a notare è che l’essere competizione con altri comporta in effetti la negazione di ciò che fa chi entra in competizione perché di fatto fa le cose in funzione di ciò che fanno gli altri o l'altro.

Per vincere gli altri, per vincere rispetto all’altro. Ovviamente, il risultato è che quello che faccio non è quello che voglio, ma quello che fa l'altro.

Ecco perché dico che quando c'è una partita di calcio, quello che perde è il più importante. Perché se uno non perde, l'altro non vince.

Ma poiché siamo concentrati su questa idea che "competere" e "vincere" e "ciò che è buono", e che "progresso" significa "Devo essere migliore dell'altro", "Devo farlo", allora siamo sempre in quelle situazioni in cui neghiamo agli altri che possiamo ottenere qualcosa, perché pensiamo o agiamo come se il raggiungimento di qualcosa in termini di qualità del nostro fare dipenda dall'altro. Non è giusto! Non dipende dall'altra persona, dipende dalla qualità di ciò che faccio io.

Ma non siamo condannati a questa cultura ed Antonio ERRICO dice che da vecchi, quando NON POSSIAMO PIU’ COMPETERE ecco che capiamo che da giovani, tutto quello che abbiamo fatto per vincere, ci ha solo IMPEDITO DI VIVERE COME VOLEVAMO NOI PER FARE QUELLO CHE FACEVANO QUELLI CHE VOLEVAMO SCONFIGGERE.

E allora la domanda è: perché aspettare la vecchiaia per essere sé stessi e fare ciò che vogliamo fare?

Buona riflessione

Il sogno della vetta, il primato dei veri campioni
Antonio ERRICO
Allora uno si domanda quanto sia importan[1]te, veramente, nella sostanza delle cose, se Reinhold Messner abbia raggiunto oppure no la vetta dell’Annapurna, se a quegli otto[1]mila metri ne sia mancato uno, per esempio, se die[1]tro quella roccia ce ne fosse un’altra più alta un pal[1]mo. Uno se lo domanda adesso che GuinnessWorld Records gli ha tolto il primato. Allora uno si doman[1]da se quello che importa, veramente, non sia il fatto che Messner abbia scalato, abbia respirato quell’aria, sprofondato lo sguardo in fondo a quell’orizzonte. Uno si domanda se quello che im[1]porta essenzialmente sia raggiungere la vetta oppu[1]re sognare di arrivarci, e poi tentare la scalata. An[1]dando in alto con umiltà, con ambizione ma senza arroganza, con tenacia e sacrificio ma senza sfida, per vedere com’è ilpaesaggio da lassù, per poter dire a se stesso: sono arrivato dove ho potuto. Permisura[1]re le proprie forze, non per stabilire un primato. Messner dice di non avermai rivendicato nessun re[1]cord per cui non gli possono disconoscere nulla. Poi dice che le montagne cambiano, che sono passati quasi quarant’anni anni, e la montagna è cambiata. Dicertoc’èche sull’Annapurna sono saliti lui eHans Kammerlander. Basta questo. Basta il fatto che ci so[1]no arrivati. Poi magari mancava un metro, un centi[1]metro, un palmo.Ma a quell’altezza che importanza ha.Mi farebbe piacere chiedere a ReinholdMessner se per un minuto, un minuto soltanto, gli siano pas[1]sati per la mente quei versi di Giovanni Pascoli che dicono così: “Salgo; e non salgo, no, per discendere,/ per udir crosci di mani, simili/a ghiaia che franga[1]no,/io, io, che sentii la valanga;/ma per restare là dov èottimo restar,/sul puro limpidoculmine”. Non ha mai rivendicato nessun record, Messner. Non ha voluto crosci di mani. Dice semplicemente che quando lui e Hans scalarono una parete intermi[1]nabile e difficilissimadell’Annapurna, infuriavauna tempesta. Adesso Messner ha quasi ottant’anni. Mi farebbe piacere chiedergli se qualche volta gli gira per la testa quella canzone straordinaria in cui Fran[1]cesco Guccini racconta di uno scrittore di storia, geo[1]grafia e varia umanità, di quel viaggiatore instanca[1]bileche sichiamavaHendrikWillem vanLoon. Che cosa importa se per quella vetta mancava un metro,unpalmo. Dice Hans Kammerlander, con serenità, che non esiste la certezza assoluta d’essere arrivati all’ultimo centimetro di quella vetta. Erano altri tempi. Non c’era gps, e poi l’alpinismo non è uno sport, e quindi non esistono competizioni e vincitori. Forse l’avventura degli ottomila metri è qualcosa di più, dimolto di più di un primato. E’ unametafora dell’esistenza. Si arriva al punto in cui si può arriva[1]re. Ci si ferma al punto in cui ci si deve fermare. A voltemanca qualcosa per arrivare al punto che esau[1]disce il desiderio, che realizza il sogno di una vita. Ma lecose vannocosì. Un’altra storia di montagne e scalatori: quella di Cesare Maestri. È morto a 92 anni, il 19 gennaio del 2021. Lo chiamavano “Il ragno delle Dolomiti”. Scala[1]va montagne a mani nude come un ragno si muove sulmuro. Negli ultimi tempi camminava con il girel[1]lo. Uno che azzannava la roccia, camminava con il girello. Si è campioni se si sa accettare questo. Dipen[1]deva dagli altri, Cesare Maestri. Uno che scalava in solitaria, dipendeva dagli altri. Si è campioni se si sa accettare questo. Parlava a fatica. Dalla sua casa a Madonna di Campiglio, guardava la montagna, da lontano. Perché quella roccia con la quale il suo cor[1]po si confondeva, si era fatta lontana lontana. Un ri[1]cordo senza nostalgia. In un’intervista a “Repubbli[1]ca” diceva che l’alpinismo gli aveva insegnato a vive[1]re, che il suo ricordo gli insegnava amorire. Si è cam[1]pioni quando si sa fare così, quando si sa immedesi[1]marsi con le stagioni. Si è campioni quando si sa comprendere il proprio tempo. Si è campioni quan[1]do sicapisce,non quando si vince. A volte Cesare Maestri si domandava che cosa avesse fatto per così tanto tempo. Se facendo il conto di tuttonon si fosse arrampicato sulniente.Questo si chiedeva, uno che gettava nel vuoto la corda prima di scendere da pareti di sesto grado. Lo faceva quan[1]do era giovane, forte, bello. Se lo chiedeva quand’era vecchio, fragile, brutto. Se lochiedevamentre faceva ginnastica contro la ringhiera delle scale di casa. Se lo chiedeva e si rispondeva che la sua impresa era vi[1]vere con dignità fino alla fine. La sua impresa era fa[1]recinquantametri aggrappato al girelloper arrivare al supermercato. Ecco: si è campioni quando si ac[1]cetta questa impresa: che non si può comparare con la conquista di qualsiasi altissima vertiginosa vetta. Diceva che la vecchiaia richiede più coraggio della gioventù, perché l’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno. Non si è campioni quando si vince. Si ècampionise si resta se stessi quandononsi può vincere più. Se si comprende che il traguardo più ambizioso, quello che ti consegna un incompara[1]bile trofeo, è la luce del giorno che arriva. Tutto il re[1]sto è vanitàchenon serve. Però, quando si capisce questo, si smette di essere campionisoltanto per diventare grandicampioni.

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