La depressione



In un video Alejandro Jodorowsky dice che Vittorio Gassman non ha mai deciso di fare l’attore. Lui ha fatto l’attore perché sua madre gliel’ha imposto. Ciò ha comportato per Gassman la conseguenza che è riuscito ad essere un attore di grande successo. Ciò che gli accadeva conseguentemente era che subito dopo ogni successo cinematografico o di teatro, l’attore andava in depressione. In definitiva Vittorio Gassman soffriva di depressione perché aveva dovuto fare l’attore per compiacere sua madre anche se a lui ciò non piaceva.
Nel libro La danza della realtà, Alejandro Jodorowsky racconta di come si rivolse a lui e alla psicomagia per curarsi dalla depressione anche un grande attore italiano. Il nome dell’attore in questione non è mai citato, ma dalle pur scarne descrizioni fatte si potrebbe pensare a Vittorio Gassman, il quale – ammesso si tratti di lui -, pare si fosse rifiutato di compiere il gesto psicomagico proposto da Jodorowsky (un complesso rituale in cui doveva sgozzare un gallo sulla tomba della madre), dicendo Ma io non posso. Io sono Vittorio Gassman. Per Jodorowsky quella fu la vera natura della depressione dell’attore, il dover “portare” un nome come un’etichetta.

Di seguito il brano tratto da “La danza della realtà”
Un grande attore italiano di cinema e di teatro venne a consultarmi insieme alla moglie. Da tanti anni, ciclicamente, soffriva di crisi depressive. Era un vecchio bellissimo, molto alto, robusto, con una voce impressionante. Eppure, nonostante la sua personalità sfolgorante, mi sono reso conto che nel suo cuore era rimasto un bambino obbediente. La moglie aveva una personalità fortissima, era bruna, piccolina, ed esercitava su di lui un’autorità virile. Indagando nell’albero genealogico dell’artista abbiamo scoperto che sua madre, per l’assenza del padre, aveva sviluppato un carattere estremamente possessivo, trasformando il figlio in un fedele servitore. Al celebre personaggio non piaceva affatto recitare, non era quella la sua vocazione. Eppure, cercando l’approvazione della madre che voleva vederlo trionfare sullo schermo e in palcoscenico, dedicò a questa attività la maggior parte della propria vita. E naturalmente era diventato una star di fama internazionale, mietendo successi ma senza ricavarne piacere perché questo era l’ideale materno, non il suo, per cui passava da una crisi depressiva all’altra. Non sentiva di essere se stesso ma un individuo che viveva il destino di un altro. La moglie, sua grande ammiratrice, in un certo senso era la riproduzione della madre ormai defunta. Gli proposi un atto psicomagico: il bambino obbediente doveva ribellarsi di fronte a chi gli aveva dato la vita e anche di fronte alla moglie. Per affermare la propria indipendenza doveva andare sulla tomba della madre portando con sé un gallo. In piedi sulla lapide avrebbe sgozzato l’animale, avrebbe lasciato gocciolare il sangue sul proprio pene e sui testicoli e così, con il sesso insanguinato, doveva ritornare a casa e possedere la moglie senza neanche accarezzarla, con movimenti intensi, lanciando urla liberatorie per sfogare la propria rabbia fino a quel momento repressa. L’uomo non si spaventò e non si meravigliò neppure. Semplicemente mi disse: “Mi spiace, Alejandro, non posso farlo. Sono X... (pronunciò il suo celebre nome con enfasi e una nota di disperazione). Se fossi un illustre sconosciuto probabilmente lo farei”.
Come potevo spiegargli quello che non voleva assolutamente vedere? Se sua madre lo aveva spinto a diventare un attore famoso contro la sua volontà, era perché non aveva mai amato lui, ma se stessa o forse il proprio padre. L’atto che avrebbe rivoluzionato la sua dipendenza e forse prolungato la sua vita (morì due anni dopo essere venuto a consultarmi) non poteva realizzarlo perché era prigioniero di un’immagine di se stesso tanto più dolorosa in quanto lui sapeva che era falsa, eppure la rispettava come la tartaruga rispetta il proprio carapace, perché aveva sostituito completamente la sua Essenza. Senza di essa si sarebbe sentito vuoto, inesistente: questo complesso sistema di difese faceva fallire ogni tentativo di guarigione reale.
Il cervello umano reagisce come un animale, difende il proprio territorio identificandolo con la propria vita. Fanno parte di questo spazio, delimitato con l’orina e gli escrementi, i genitori, i fratelli, i partner, i collaboratori e, soprattutto, il corpo. Ma chi è il padrone? È un individuo con limitazioni che corrispondono al proprio livello di coscienza. Più il livello di coscienza è elevato, più grande è la libertà. Per raggiungere tale grado di libertà, nel quale il territorio non si limita più a una manciata di metri quadrati o a un piccolo gruppo di soci, ma è l’intero pianeta e la totalità degli uomini, o meglio ancora, l’universo intero e la totalità degli esseri viventi, innanzitutto occorre cicatrizzare la ferita originaria, liberarsi dai condizionamenti fetali, poi da quelli famigliari e infine da quelli sociali. Per realizzare la mutazione nella quale il sofferente, avendo lasciato perdere ogni pretesa, riesce a vivere con gratitudine il miracolo di essere vivo, occorre essere consapevoli dei propri meccanismi di difesa. E sono i meccanismi che tutti gli animali impiegano per sfuggire ai nemici predatori. Sanno incistarsi e anche fingere di essere morti, si arrotolano su se stessi, si ricoprono di squame chitinose, si nascondono nel fango, trattengono il respiro e perfino i battiti del cuore. L’essere umano fa lo stesso: si blocca, finisce in un circolo vizioso di gesti ripetitivi, desideri, emozioni, pensieri, e vegeta in questi limiti ristretti rifiutando ogni informazione nuova, immerso nell’incessante ripetizione del passato. Per fuggire dalle profondità, si lascia vivere galleggiando sopra un tessuto di sensazioni superficiali, come anestetizzato... Gli animali sanno mimetizzarsi per confondersi con l’ambiente in cui vivono: il camaleonte cambia colore, alcuni insetti sembrano foglie di alberi, certi mammiferi hanno una pelliccia il cui colore cambia a seconda del terreno dove vivono. Anche una grande quantità di esseri umani preferisce annientare ogni dote naturale che la differenzia per essere uguale al mondo che la circonda. Vietano a se stessi ogni traccia di originalità, mangiano quello che mangiano tutti, si vestono seguendo la moda, parlano con un accento o con giri di parole che sottolineano l’appartenenza a un determinato gruppo sociale, fanno parte della massa che sfila brandendo lo stesso libretto rosso o facendo lo stesso saluto con il braccio teso, o indossando la stessa divisa. Sono completamente dipendenti dall’apparire e relegano l’essere nelle oscurità dei sogni... Quando gli animali si sentono attaccati, possono aggredire: il timore di conoscere se stessi unito al terrore di venire spogliati di ciò che credono di possedere, tra le altre cose il modo di vivere (il che significherebbe un incontro doloroso con le piaghe della loro essenza) può trasformare gli esseri umani in assassini. Nelle altre specie animali, di fronte a un attacco la principale difesa è la fuga. Nell’antico trattato di strategia cinese I trentasei stratagemmi si dice: “La fuga è la politica suprema. Conservare le forze intatte evitando lo scontro non è una sconfitta”. Queste persone non vogliono sapere nulla di se stesse, abbandonano il trattamento a metà, trovano un sacco di giustificazioni, fanno di tutto per avere sempre ragione e dimostrare che gli altri hanno torto; si abbandonano a un vizio, soffrono di manie e ossessioni; a volte, per non affrontare i problemi famigliari, vanno a vivere in un paese lontano utilizzando la distanza come un sedativo. A volte alla fuga si unisce l’automutilazione: la lucertola riesce a scappare mozzandosi la coda da sola.





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