La piazza dei maschi (memorie)
Non prendevamo mai appuntamento. E non ce n’era bisogno. La piazza di San Cesario di Lecce, quel vasto "Largo del Palazzo" che mio nonno chiamava ancora con il suo antico nome, era il cuore pulsante del paese, il centro naturale di un mondo che oggi sembra sbiadito, quasi dissolto nell’indifferenza del tempo moderno. Per noi, bambini di un’altra epoca, era il luogo in cui il futuro si condensava nel presente, in cui l’infanzia si scontrava con l’aspettativa di diventare "grandi". Ricordo ancora, con una tenerezza che ora appare quasi dolorosa, come quel vasto spazio sembrava il confine ultimo dell’universo conosciuto.
Poi, da ragazzi, la piazza si trasformò in un passaggio obbligato, un luogo di transito tra il dovere e il piacere, tra il Centro di Lettura e le partite a ping pong, tra le Sale Parrocchiali e il flipper del Bar Margiotta. Infine, divenne il pretesto per uscire di casa la sera, per sfuggire alla sorveglianza materna con la scusa di "sta bbau alla chiazza", come se in quelle parole si nascondesse un intero mondo da esplorare.
Non prendevamo mai appuntamento. Bastava andare. La certezza di trovare qualcuno, chiunque, con cui scambiare parole, idee, sogni. Le sedie arrugginite sul marciapiede di Via Angelo Russo, smontate e rimontate da generazioni di bambini che crescevano senza fretta, erano testimoni mute di un rito quotidiano, di un incontro che non richiedeva spiegazioni o preamboli. D’inverno il freddo si insinuava tra le fibre dei nostri pantaloni, ma non era sufficiente a disperderci; la piazza era un magnete, un punto di riferimento in un mondo che, pur piccolo, ci sembrava smisurato.
Le donne non c’erano, o meglio, erano altrove. La piazza era il regno maschile, un universo chiuso in cui si discuteva di massimi sistemi e, inevitabilmente, di ragazze. Eppure, era una mancanza che non pesava, perché faceva parte di un ordine delle cose che sembrava naturale, immutabile.
Ma ora la piazza si è svuotata. Non solo di persone, ma di quel senso di appartenenza che un tempo la animava. Le decine che oggi vi si incontrano non sono che un’ombra delle centinaia di un tempo, e con la diminuzione dei numeri, è venuto meno anche quel piacere semplice e immediato di conversare per il puro gusto di farlo. L’incontro fortuito, che non richiedeva altro se non la presenza fisica nello stesso luogo, si è dissolto nella necessità di appuntamenti fissati in anticipo, nella paura di non trovare più nessuno con cui condividere un momento di convivialità.
La modernità ha portato con sé la parità, l’uguaglianza, ma anche una perdita di quella specificità, di quella unicità che definiva il nostro essere ragazzi o uomini, donne o ragazze. Non è una questione di nostalgia fine a sé stessa, ma di consapevolezza di ciò che si è perso in nome di un progresso che, forse, ci ha reso tutti più soli.
L’altra sera, parlando con una parente, mi ha confessato di aver sempre invidiato agli uomini quella convivenza esclusivamente maschile, quei momenti di incontro in piazza. E io, in quel momento, ho capito quanto fosse prezioso ciò che abbiamo perso. Forse, non prendevamo mai appuntamento perché non ne avevamo bisogno, perché sapevamo che il mondo ci avrebbe sempre accolto, lì, in piazza.
E ora, vi lascio con questa riflessione.
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