"L'estate Sospesa" (Racconto)
"L'estate Sospesa"
Nell'estate del '63, il tempo si fermava tra il sole e la polvere, e ogni attimo diventava un ricordo dorato da custodire per sempre.
L’estate del ’63 era fatta di luce bianca, di quella luce che bruciava gli occhi e faceva risplendere le strade polverose come se fossero coperte d’oro. I giorni erano lunghi, infiniti, sembravano distendersi senza fine sotto il sole implacabile, e noi eravamo lì, sospesi nel tempo, senza la fretta di crescere.
C’era la fontana dell’Acquedotto pugliese, un piccolo miracolo di freschezza nel cuore del paese, con le sue acque limpide che scendevano rumorose, creando un angolo di sollievo tra le pietre arroventate. Le biciclette, vecchie e cigolanti, erano abbandonate accanto, come cavalli stanchi dopo una corsa. E invece di avvicinare la bocca direttamente all’acqua, noi ragazzi giocavamo con le mani, curvando i palmi per fare una coppa e lasciando che l’acqua sgorgasse tra le dita, esplodendo in mille gocce brillanti che salivano nell’aria calda e polverosa.
Noi ragazzi non andavamo spesso al mare, il mare era un sogno lontano, una distesa blu che esisteva solo nei racconti degli adulti e nelle nostre fantasie. Le giornate erano consumate tra i vicoli, trascorse bighellonando senza una meta precisa, tra una fontana e una campana disegnata per terra con un gessetto, dove saltavamo su un piede solo, cercando di mantenere l’equilibrio. E poi c’erano "li rusciuli", quei piccoli sassi che facevamo saltare e rimbalzare con destrezza, come se fossero tesori da maneggiare con cura.
Poi arrivava il pomeriggio, e con esso il grande silenzio. Il sole diveniva una palla incandescente che bruciava tutto ciò che toccava. Tutto si fermava, ogni suono si spegneva, ogni movimento diventava impossibile. Nessuno fiatava, nessuno osava sfidare il caldo che riempiva le prime ore del pomeriggio. Era un caldo che ci spingeva a cercare rifugio nel sonno, nel buio delle stanze fresche dove ci rintanavamo come animali in letargo. Io, con la porta socchiusa, lasciavo che una lieve brezza entrasse, e immergevo la mano nella vecchia scatola di cartone che conteneva i fumetti. Tutto il pomeriggio lo passavo lì, in un mondo fatto di sogni, di figure che prendevano vita sotto i miei occhi, di storie che spuntavano dalle bocche disegnate dei protagonisti, come se parlassero solo a me.
Poi, quando il sole iniziava a calare e l’aria si faceva più dolce, la vita tornava a scorrere per le strade del paese. La sera, tutti uscivano, come se fossero stati liberati da una lunga prigionia. Donne con scialli leggeri, uomini stanchi ma soddisfatti, bambini che correvano e gridavano, vecchi che si appoggiavano ai bastoni, ognuno con la sua sedia, la sistemava sulla strada, creando una lunga fila di vite che si intrecciavano. Discorsi riempivano l’aria, notizie che viaggiavano di bocca in bocca, proclami che venivano fatti come se ogni parola fosse importante, come se ogni momento potesse essere l’ultimo.
E ora, guardo indietro e ti chiedo solo una cosa, con la speranza che il tempo non sia davvero una linea retta ma un cerchio che possiamo ripercorrere: perché non posso rivivere ancora quell’estate del 1963, in Via Liguria a San Cesario di Lecce? Se il tempo è solo un’illusione, allora lasciami tornare lì, dove il mondo era fatto di piccole cose che sembravano eterne, dove ogni giorno aveva il sapore dell’infanzia e il peso della vita era ancora leggero.
Antonio Bruno
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